Mors tua.../Terza giornata/I
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L’ALTRO VOLTO.
I.
— Guido... Guido mio caro... ti porto una rosa... — disse la lieta e soave voce materna, dopo che Carmela Soria ebbe discretamente picchiato alla porta chiusa di suo figlio.
Prima di rispondere al tenero richiamo materno, Guido, con gesto frettoloso, gittò un giornale spiegato, a nascondere le carte e gli oggetti che avea davanti, sulla scrivania: e si levò, per andare incontro alla madre.
— Mamma, perchè non entri? — e la risposta era dolce, un po’ distratta.
Col suo passo leggiero, la piccola madre, i cui biondi capelli erano, adesso, tutti a ondulanti riflessi argentei, ma il cui volto era irradiato di sorriso, con un fascio di rose bianche sul braccio, in cui spiccava una rosa rossa, arrivò sino a suo figlio, si rizzò in punta di piedi e lo baciò sulla guancia, puerilmente. Sempre, da che era finita la guerra e il suo Guido ne era tornato incolume, ogni volta che eran soli, Carmela e Guido, ella lo abbracciava e lo baciava, e poi lo guardava, dopo, un istante, con una beatitudine negli occhi. Ne riprendeva possesso, infine, come madre.
— Ecco la tua rosa, Guido — ella disse, tirando fuori la rosa rossa dal fascio delle bianche — Odorala: ha un profumo delizioso. Tu sai bene chi te la manda?
— No, mamma: non so.
— Come, Guido? Non comprendi? Rosa rossa, amore ardente... Le rose bianche a me, che sono una vecchietta... Chi te la manda, neh? la rosa rossa? — e rideva, rideva, del suo piccolo riso amoroso.
— Non so, mamma, non so... — egli rispose, ancora, tenendo la rosa rossa in mano, senza fiutarla.
— Rosetta Serra! Chi, se non lei, Guido? Rosetta, Rosetta!
— Ah! — egli disse, senz’altro, ricadendo nella sua distrazione.
La madre lo scrutò, un istante; lo ritrovava sempre un po’ affranto, un po’ assorto, un po’ lontano. E pensava che fosse la reazione del così lungo e faticoso e pesante tempo di guerra. E non chiedeva nulla, ella, aspettando, paziente, che il suo Guido ridiventasse il fervido, gaio, operoso giovine di prima.
— Guido, dimmi: mi accompagni, stasera, da Rosetta Serra?
— Perchè, mammina? Sei grandicella; non sai andar sola?
— Desideravo tanto condurti meco, Guido... — ella soggiunse, un po’ turbata, sentendo la sua resistenza.
— E perchè, mammina?
— Non lo sai? Non lo indovini? Rosetta ti ha mandato la rosa... Rosetta desidera vederti... E tu non ci vai... Ed ella è così triste!
— Ah! — diss’egli, con voce incolore.
— Perchè la tratti così, figliuolo mio?
— Io, mamma?
— Tu!. Non te ne accorgi? Tu l’amavi, prima: ed ella ti amava: e ti ama più che mai, adesso, Rosetta, cara creatura fedele... Non eravate fidanzati di amore, prima?
— È vero — egli mormorò, con un gesto vago.
— Non ti ha ella atteso, piamente, durante la guerra, facendo una vita claustrale, quasi, uscendo di casa, solo per andare in chiesa o per opere di carità? Rosetta è un angelo, Guido mio...
— Sicuro, è un angelo — fu l’eco scolorita.
— Ebbene, Guido?
— Ebbene, che, mammina?
— Da che sei rientrato a casa, figlio caro, tu sei così mutato... Come spiegare, che cosa comprendere, Guido?
— Nulla, nulla: è la guerra — l’altro rispose, serio, vagamente.
— Lo so, Guido mio: tu hai ragione di essere ancora esausto, ancora sfiancato e triste, per le tue sofferenze, per il tuo continuo pericolo...
— Sono vivo, mammina: un po’ mal vivo, ecco — egli ribattè, sordamente.
— Guarirai, qui, in pace, fra i tuoi, nel tuo paese, riprendendo il tuo lavoro, meglio di prima... Tu, che sei stato un eroe!
— Io non sono stato niente! — protestò il figlio, seccamente.
— Hai due medaglie!
— Tanti che han fatto più di me, non hanno medaglie — egli concluse, anche più seccamente.
Tacque, sempre più scossa, la madre. Sempre, se si parlava della guerra, al figliuolo, egli s’irritava, pareva preso da un singolare accesso di collera, contro sè stesso. Carmela ritornò al suo primo argomento.
— Guido, ho promesso di condurti da Rosetta Serra, questa sera. Vuoi venire?
— No.
— Per favore, a me, alla tua mammina?
— Cercami altra cosa, ti prego.
— Guido, tu non ami più Rosetta! — proruppe, infine, in sua ambascia, la madre.
— Non so. L’amo meno di prima. O, forse, non l’amo più, come tu dici.
— L’hai tradita, è vero? Lassù, è vero? Ne ami un’altra?
— No. Non amo che una sola donna, nel mondo: e sei tu.
— Sicchè, tu non sposerai Rosetta? — insistette, fremendo di dolore, Carmela Soria.
— Nè Rosetta, nè nessun’altra donna, io sposerò.
— Così — ella riprese, con voce quasi di pianto — questa poveretta, che io ho chiesto a Dio di darmi per figlia, Rosetta, è adesso una creatura delusa nel suo amore, è una misera fidanzata abbandonata. Oh Guido!
— Migliaia di donne innamorate sono state deluse, migliaia di fidanzate sono state abbandonate — egli scoppiò, concitato — Rosetta, come le altre. Pensa, madre, a quelle, il cui fidanzato è stato ucciso in guerra!
E non si accorse, la madre, che il figliuolo si trascolorava, non udì quello che vibrava nelle sue parole.
— Tu sei vivo, Guido mio!
— Di’ a Rosetta che mi consideri come morto! — Guido gridò, improvvisamente esasperato.
Carmela gli si buttò addosso, lo strinse nelle braccia, lo covrì di baci.
— Figlio mio, non parlare così, tu mi spezzi il cuore!
— Sta zitta, sta quieta, mammina cara, zitta, zitta, io sono qui, vivo, vivissimo, e ti bacio e ti amo, ma non parliamo più di Rosetta, te ne scongiuro. — E la baciava, la carezzava, quasi la cullava, la sua piccola madre, ed essa si chetava, taceva, si pacificava, vinta dal suo amore folle, per quel suo figliuolo, vinta dalla tenerezza filiale che la penetrava, sino al fondo del suo animo.
— Ti accontenterò, Guido. Non ti dirò più nulla, di Rosetta — e sospirò profondamente. — Andrò sola, questa sera: inventerò qualche bugia. Forse non mi crederà, Rosetta, ma che debbo fare? E tu, Guido, lo sai che il nonno ha chiesto di te, oggi, due o tre volte?
— Lo so.
— Don Francesco ha resistito a vivere, durante la guerra, proprio per forza di volontà, Guido: voleva veder la vittoria...
— L’ha vista — egli rispose, a denti stretti.
— Ma ha declinato sempre, il nonno: e l’abbiamo preso in casa, con noi, per meglio custodirlo. Genovieffa non lo lascia mai. È così affievolito: si può spegnere da un momento all’altro... Ma hai visto, come si ridesta, si vivifica, quando sei presso a lui?
— Ho visto.
— Ti adora, Guido. Più di prima, poichè anche tu hai distrutto l’Austria.
— Difatti, io l’ho distrutta — e il figlio ghignò, amaramente.
— Ti vuole veder sempre, Guido: vuole udire narrar di guerra, da te. Sii buono, sii paziente: va dal nostro vecchio: consolalo. Lo possiamo perdere, pensa, domani!
— Andrò, mammina, più tardi.
— Dice che hai promesso di mostrargli dei trofei di guerra... Dove sono? Io non so niente.
— Sono qui i miei trofei — egli rispose, con un amarissimo riso. — Ho promesso al nonno. Manterrò.
Quando la madre ebbe preso congedo, da lui, Guido Soria tornò alla sua scrivania: più che sedersi nel suo seggiolone, vi si lasciò cadere, affranto: e coi gomiti puntati sul tavolo, con la fronte fra le mani, con gli occhi socchiusi, con le spalle curve, stette, così, come sotto un peso insopportabile. Quasi automaticamente, sollevò quel giornale spiegato, sotto cui aveva celato qualche cosa che vi si trovava, a sua madre: e i suoi occhi si fermarono sovra un taccuino di raso azzurro, molto scuro, che vi era dischiuso. Sovra la metà interna del taccuino, sulla fodera, era incastrata in un sottile cerchio d’argento, una miniatura, un ritrattino di donna, giovanissima, rosea, con grandi occhi di un azzurro vivido, con la fronte e le tempie aureolate di riccioli biondissimi, acconciati fanciullescamente e annodati, sovra un lato della testa, da un largo fiocco di nastro bianco: appariva una linea del collo candido e pienotto: e tutta la sua figuretta era di bambola, ma bambola viva. Sotto la miniatura, sul raso scuro erano ricamati, a filo di oro, i due nomi: Lotti Rabitsch. Sull’altra metà interna del taccuino, sul fodero, un altro ritratto, una miniatura di giovanissimo uomo, molto bianco di viso, dai capelli castani che spuntavano di sotto il berretto austriaco, di luogotenente di fanteria, dagli occhi castani, più chiari dei capelli, da un vaporoso mustacchio biondo, come un’ombra bionda, sulla bocca: tutti i lineamenti delicati e una espressione semplice, quasi ingenua di bontà, in ogni tratto. Sotto il ritrattino, come dirimpetto, i due nomi ricamati a fili d’oro, sul raso azzurro: Hans Flugy. Nella costola serica e molle del taccuino, in un ricametto di foglioline, a fili d’oro, i due nomi di battesimo, Lotti e Hans, Carlotta e Giovanni, erano intrecciati. Nel fodero, a sinistra, nel fondo, sovra una strisciolina di carta velina, trasparente, era scritto, con un caratterino sottile, in tedesco: Lotti liebe Hans. Egualmente, nel fodero, dirimpetto, sovra un’altra strisciolina di carta velina, identica alla prima, era scritto, con un carattere virile, diritto, in tedesco: Hans liebe Lotti. Sulla scrivania, stava presso il taccuino, un portafogli di cuoio scuro, che si vedeva pieno di carte: e un largo anello di oro, una fascia, un anello di fidanzamento: e, infine, una targhetta militare tedesca, col nome e il grado e la patria, e il reggimento del luogotenente Giovanni Flugy, d’Innsbruck. Macchinalmente, Guido Soria giocherellava col largo anello che egli aveva tolto, a stento, dal dito irrigidito, dalla irrigidita mano del morto. Adesso, guardava, ancora i due ritrattini, prima, per un istante, il roseo viso bambolesco di Lotti: e, poi, senza potersene, quasi, distaccare, quello dell’uomo, il luogotenente di fanteria austriaco. E quegli occhi castani, così sereni, così bonarii, lo presero, lo tennero, come se fossero viventi.
— Ti guarda. Ti guarda! — disse, ad alta voce, a sè stesso, Guido Soria. Balzò, si guardò intorno, sconvolto, come se qualcuno avesse parlato. Di nuovo, si curvò su quel ritratto, allucinato da quegli occhi sereni che, sembrava, lo guardassero e gli chiedessero, con bontà, qualche cosa.
— Sono aperti... sono aperti anche sotterra, questi occhi... — pronunciò, forte, alto.
Ma riconobbe, subito, la sua voce istessa, si sdegnò, fece un brusco moto di collera, di disprezzo, contro sè stesso. Chiuse con rapidità, il morbido taccuino, prese il portafogli, raccolse la targhetta e l’anello e mise tutto nella tasca della sua giacchetta: affrettò il passo verso il lato estremo dell’appartamento, ove abitava il vecchio avo.
— Dorme? — chiese a Genovieffa, che gli era venuta incontro.
— Sembra che dorma. Ma è sveglio. Vi aspetta — disse, piano, la governante.
Don Francesco Soria era disteso sovra una lunga sedia a sdraio, dalla spalliera diritta: il suo corpo scarno di quasi novantenne, pareva sotto gli scialli che lo avvolgevano, diventato quello di un gramo adolescente: la testa anche pareva rimpicciolita, sebbene egli avesse conservato la sua capigliatura candida: ma il naso si era fatto più adunco, più curvo, verso la bocca rincagnata sulle gengive senza denti, e il mento aguzzo era risalito: le sovracciglia si erano fatte ispide e ispida appariva la barba che cresceva ineguale, sulle guancie cadenti: nel largo colletto, il collo mostrava tutti i tendini, sotto la pelle rugosa: e le mani oscure, incrociate sullo scialle, aveano le dita sformate nei nodi delle ossa.
— Nonno, nonno! — chiamò il nepote.
Il vegliardo, subito, levò le palpebre appesantite, mosse la testa così rassomigliante a un magro uccello da rapina, e tentò sorridere, con la sua bocca senza labbra.
— Sei venuto, finalmente, Guiduccio — disse la voce rauca, un poco tremante, del vecchio. — Ora resti, è vero, stasera?
— Resto, nonno. — E gli toccò la mano nodosa e fredda, curvandosi quasi per baciarla.
— No — si oppose, il vecchio, ritirando presto la mano. — Baciami in fronte, Guido.
Piamente, Guido, posò le labbra sulla fredda fronte del nonno. Costui scosse la testa, in segno di gioia. Poi, dopo un po’ di silenzio, disse al nepote:
— Quante medaglie hai, piccolo?
— Lo sai, nonno. Due. Una di argento, una di bronzo.
— Bene, piccolo. Torna a portarmele, domani: voglio ancora vederle... Tu hai fatto grandi cose, in guerra.
— Oh no! Come gli altri, mi sono battuto.
— Niente, come gli altri — protestò, rinvigorendosi, il vecchio. — Tu sei di un sangue di soldati: tu sei un Soria, piccolo mio...
Ecco che don Francesco Soria risorgeva dal suo torpore, poichè correva, nel suo sangue lento, un poco dell’antico ardore di guerra. Si vedeva dal capo che si muoveva, a seguir le parole, dalle mani le cui dita battevano leggermente sugli scialli.
— Guido, dimmi la verità — riprese il vecchio, e i suoi occhi lacrimosi, velati dell’umore acqueo senile, si fissarono sul nepote. — Tu ti sei molto esposto. Tu ti sei gittato, talvolta, come un pazzo, nella mischia.
— No, nonno! — negò il pallido nepote, gittandosi indietro, come per isfuggire allo sguardo dell’avo.
— Gli ordini del giorno, per cui hai avuto le due medaglie, parlano chiaro. Li ho letti, varie volte. E ho capito tutto...
— Che hai capito, nonno? — chiese, spasimante, il nepote.
— Che hai cercato la morte, in guerra — concluse, con voce fattasi più ferma e più grave, il nonno.
A capo chino, il nepote non rispondeva.
— Perchè hai voluto morire, Guido? — e la domanda era più stringente.
— Non so... non so — il nepote, rispose, con voce smorta, con un gesto vago delle mani,
Il vecchio lo covrì, con uno sguardo inquisitore. Un silenzio pieno di cose pensate, sentite, taciute.
— Tu sei vivo. Guido, e accanto a me... — riprese, lento, l’avo — E non ti devi seccare di questo tuo vecchio matto di nonno: egli è vivo ancora, per una sola ragione: e tu la sai bene. Circa quattro anni lunghi, lunghissimi, per me, in cui la Signora Morte sempre, si presentava alla mia porta, per condurmi via: ma io l’ho sempre caricata di vituperii, l’ho minacciata col bastone ed essa è fuggita...
— Nonno caro!
— Dovevo vivere, per rivederti, nepote mio, sano, forte, e vittorioso: dovevo vivere per veder distrutta la nemica, l’Austria: e per udire, da te, come sono stati battuti, perseguitati e trucidati, gli austriaci.
— Se la Signora Morte si presenta, adesso, piccolo mio, don Francesco Soria è galantuomo, è educato, la saluta, le fa un inchino e se ne va via, con lei, zitto, zitto...
— Oh nonno, nonno! — esclamò con voce carica di lacrime, il nepote, mettendo la sua bella e giovine testa bionda, affinata, affilata, sul cuscino, accanto a quella del suo avo.
Uniti teneramente, per un lungo minuto. Poi, il vecchio riprese:
— Raccontami, adesso, come hai ucciso il maledettissimo austriaco.
— Lo sai... — mormorò il nepote.
— Sicuro, che lo so! Ho la tua lettera, dal campo. Eri folle di gioia, scrivendomela: io lo fui, leggendola. La ho riletta tante volte. La so a memoria. Potrei recitarla...
— Dimmi, Guido, fremi tu sempre di una giusta gioia, come quando mi scrivesti? E il giorno, quello, più ricordevole della tua campagna di guerra?
— Il più ricordevole, l’inobliabile giorno — rispose, profondamente, il nepote.
— Lo consacrasti, è vero, il tuo atto di vendetta e di punizione, alla tua patria oppressa da quei nemici, a tuo nonno che fu morente, in campo?
— Così, lo consacrai — dichiarò, profondamente. Guido Soria.
Dieci anni di meno mostrava don Francesco Soria, ravvivato dal suo intenso, ostinato, inplacabile odio patriottico e il suo magro corpo si agitava, sotto gli scialli, le sue mani segnavano col breve gesto, le sue parole. Il nepote, invece, aveva quel suo atteggiamento, come rassegnato a qualche cosa molto penosa: e sovra tutto, quella sua aria distaccata, distante, che lo intristiva, che lo invecchiava, egli che era stato così pronto, vispo, lieto.
— Questo scelleratissimo austriaco voleva ucciderti, è vero?
— ... l’ho creduto, nonno — e la voce era velata di un velo singolare.
— Le vostre due trincee erano molto lontane. Guido?
— Eh non tanto, nonno mio! — proruppe, più forte, il nepote — Quando egli veniva fuori, due o tre volte al giorno, e mi guardava, poteva prendermi di mira e uccidermi... Così ho, io, mirato e ucciso lui.
— Quando partisti, Guido, ricordati, lo dicemmo: Mors tua... Mors tua...
E attese, dal nepote, l’altra metà della truce frase. Ma essa non fu pronunziata. Il giovine pareva oppresso dai ricordi.
— L’austriaco era armato? Parla, Guido!
— ... Franceschi, il mio attendente, dagli occhi acutissimi, mi disse che l’altro era armato e che io eco minacciato.
— Vedi, vedi!
— ... in quell’estremo pomeriggio, quando egli esci, per la terza volta, proprio come se spiasse il momento propizio per uccidermi, Franceschi mi gridò che ero preso di mira, mi diede il fucile... Sparai!
— Ecco. Vedo la scena. Sei giunto tu prima. Se non sparavi, eri morto. Mors tua! Mors tua!
Pesante silenzio del nepote, il cui volto pareva si fosse scavato, nelle guancie, come per estenuante malore.
— Dopo... avrai avuto la prova che hai ammazzato colui che voleva assassinarti?
Silenzio fosco. Il nepote, ogni tanto, levava gli occhi sull’avo, ma come se non lo vedesse. E le sue labbra restavano foscamente chiuse.
— Guido?
— Nonno? — e trabalzò, come uscendo da un sogno.
— Hai avuto la prova?
— Non l’ho avuta.
— Non era armato, l’austriaco?
— No.
— Forse l’arme sarà caduta poco lontana.
— No.
— Si è cercato bene, intorno al cadavere?
— Hanno cercato dapertutto.
— Nessun arme?
— Nessuna. Un frustino, presso la sua mano. Una macchinetta fotografica, poco lontana. Niente altro.
— Vale lo stesso — riprese il fierissimo vecchio. — Era il tuo nemico. Era il tuo diritto e il tuo dovere di spegnerlo. Se egli avesse fatto il suo dovere, doveva ucciderti. Alla guerra non si fila e non si tesse, si uccide. E se costui non ti ha ucciso, era, forse, un vigliacco.
— Nonno, non dire questo! — gridò Guido, improvvisamente, disperato. — È morto per mia mano!
— E tu, forse, hai ucciso un vigliacco — ribattè, ostinato, il terribile vecchio.
Di nuovo si protrasse, fra loro, un cruccioso silenzio, come se, a un tratto, fosse sorta e fattasi forte, fra loro, qualche cosa che li separasse. Ma don Francesco Soria, fu il primo a superare questo senso inquietante di dissidio: e ricominciò, tenacissimo, quella inchiesta per cui si era riacceso il suo animo, intorpidito dagli anni. Adesso, egli interrogava il nepote, seccamente, con poche e decise parole, sempre per quella intima impressione che non vi fosse, fra suo nepote e lui, quell’unisono furore, quella unione violenta delle anime e del sangue, nel furore di guerra.
— Facesti, Guido, raccogliere quel cadavere?
— Sì.
— Fu molto difficile?
— No. Era rimasto giacente, abbandonato, ove era caduto. Le trincee austriache si erano vuotate, nella notte.
— Fuggiti, quei vigliacchi?
— Scomparsi, sì.
— Tu l’hai visto bene, adunque, il tuo morto?
— L’ho visto.
— Bruttissimo, eh? Fronte bassa, capelli piantati bassi, animalescamente, mascella grossa e saliente, mento corto, sguardo falso e basette, le basette del loro «impiccatore»?
— Un po’ diverso — mormorò, fiocamente, il nepote.
— E dove facesti buttare questa carogna di austriaco?
— Nonno, non parlare così! — gridò, ancora una volta, spasimante, Guido Soria — È un morto: da me ucciso.
Aggrottò le sue ispide sovracciglia il vecchio, sovra i suoi occhi incavati e lacrimosi, ma che brillavano, adesso di una luce interiore: strinse le labbra violacee, rincagnate sulle gengive senza denti, crollò due volte il capo come se facesse, a sè stesso, un tacito discorso.
— Raccogliesti la roba di questo tuo morto? — stridette la voce del vecchio.
— La raccolsi. Donai il suo denaro a chi lo aveva trasportato.
— E tenesti il resto? È il tuo trofeo di guerra.
— Sì. Lo tenni.
— Hai tenuto la promessa? Mi hai portato a veder tutto?
— Ho tenuto la promessa. Ho qui, tutto.
— Bene. E che accadde, dopo, di questo tuo morto? — soggiunse, beffardissimo, Favo.
— Costantini gli ha dato sepoltura, in un piccolo cimitero.
— Costantini? Un beccamorto?
— Il mio caporale. Così brav’uomo! Portava sempre da mangiare ai prigionieri e sotterrava i nemici morti.
— Feminetta: cattivo soldato italiano — disse, recisamente, don Francesco Soria.
— Si è battuto sempre e con valore...
— Cattivo, cattivo soldato — ripetè, l’altro, — Mostrami il tuo trofeo di guerra.
Guido Soria cavandolo dalla tasca, offrì, per primo, a suo nonno, il taccuino di raso azzurro oscuro, ove erano incorniciate e racchiuse le due miniature. Glielo aprì, davanti. Don Francesco Soria fissò i suoi occhi lacrimosi, ma fattisi acuti, su quelle fresche e ridenti figure giovanili: lesse i due nomi. Sogguardò di nuovo. Il nipote era, come sempre, assente: e consunto, per un male interiore, parea diventato il suo viso di bel giovine biondo.
— Era giovane, costui?
— Ventitrè anni; cinque meno di me.
— Como Io sai?
— Ecco il suo foglio militare.
— Ah! E costei, sarà stata la sua amante?
— No. La sua fidanzata. Si adoravano. Si dovevano sposare, appena finita la guerra... Ora, è una vedova,
— Come sai tutto questo?
— Nel portafogli, del morto, vi era una ultima lettera, appassionata, di costei.
— In tedesco, naturalmente?
— In tedesco.
— Tu non hai mai conosciuto questa lingua, Guido — disse, lento, l’avo, scrutando severamente suo nipote.
— No. Ma con l’aiuto del dizionario, ho tradotto, parola per parola, questa lettera di amore... Quanto tempo vi ho messo! Ma sono riescito a tutto comprendere... — e si lasciava andare, a una divagazione.
— Ah! — esclamò, soltanto, don Francesco, le cui sovracciglia sempre più si univano, sovra un suo malo pensiero.
Guido Soria, inconscio, seguitava a divagare.
— Anche l’altra lettera, quella della madre, l’ultima, che egli portava addosso, ho tradotto... Quella sua madre, era folle di amore, pel figlio... Come mamma mia...
— Già — consentì, il vecchio, come se avesse masticato, con le sue dure gengive quella parola.
— Lo baciava sugli occhi... — divagò, ancora, il nepote — Come mamma mia...
— Già — mordette, con le sue gengive senza denti, la parola, il vecchio.
— Quegli occhi, sono restati aperti, dopo la morte, nonno — disse il nipote, con un senso di sgomento, da fanciullo — Aperti... anche sotterra, nonno...
E parve che tremassero le sue labbra e battessero le sue palpebre.
— Porta via tutto — disse, rudemente, il vecchio, buttando il taccuino e gli altri oggetti, al nepote — Va via. Ho sonno. Buona notte.
Senza benedirlo, come ogni volta, il vecchio chiuse gli occhi, girò la testa dall’altra parte, restò immoto.
— Buona notte, nonno — rispose, umilmente, tristemente, il nepote, raccogliendo i suoi trofei di guerra, andandosene, con passo incerto e con spalle curve.
Rientrò, nella sua stanza: richiuse la sua porta: fu solo. E depose i pochi oggetti di Hans Flugy, sul suo scrittoio. Quasi magicamente, il taccuino si riaprì e i visi, belli, lieti, amorosi, riapparvero. E l’allucinazione di Guido Soria, ancora gli fece scorgere negli occhi castani dell’austriaco, una domanda mesta e dolce. Quale domanda? Quale? Guido Soria si guardò, attorno, cercando la parola del misterioso enigma; ma era in solitudine e in silenzio. Chi, chi gliel’avrebbe detta, quella parola? Alto silenzio: profonda solitudine. E, a un tratto, un grido gli uscì dal petto, dal cuore:
— Costantini, Costantini!
E tese le braccia, nel vuoto, nell’ombra, all’assente, al lontano.
La fanciulla era accoccolata presso il largo gallinaio, coverto da un tetto di legno, quasi una casetta, e guardava attentamente, fra i cancelli. Balzò in piedi, sui suoi zoccoletti e chiamò, strillò, allegramente, da giù verso la loggetta a colonne’ bianche di calcina, del primo piano, la loggetta seminascosta da un grosso e tozzo albero di fico:
— Mamma Tuta! Mamma Tuta!
— Ohè Bicetta! Che è stato? Che vuoi? — rispose una voce lontana, ma non tanto lontana, dal fondo di una stanza, che era aperta, sulla loggetta.
— Venite fuori, mamma Tuta! Vi è una gran bella cosa! — seguitò, gaiamente, a strillare la ragazza, battendo ora un piede, ora l’altro, negli zoccoletti, sul terreno di quell’orto, dietro la casa.
— Ohè Bicetta, fosse arrivato il Papa? — e la donna, sora Restituta, alta, membruta, di forte colore nella faccia quadrata, ridente nei piccoli occhi rotondi e nella bocca larga sui forti denti bianchi, ondulando sui fianchi poderosi, venne ad affacciarsi alla loggetta, sul parapetto bianco di calcina, fra un coccio ove fioriva un gelsomino di Spagna e un coccio di basilico. E nel riso degli occhietti e della boccaccia, mentre interrogava la ragazza, da lassù, si riconoscevano, nudi e schietti, la bontà e l’affetto.
— Che. Papa e Papa, mamma Tuta mia! Qua sono nati i pulcini, stanotte, mentre non ce lo aspettavamo... Avete detto che ci voleva una settimana, avete detto!
— E mi sono sbagliata, figlia cara: e mi fa piacere d’essermi sbagliata... Quanti ne son venuti fuori, ah Bicetta?
— Sei, mamma Tuta, sei, tutti bellini, un po’ spennacchiati, ma così vispi, e pigolano, tutti quanti, e aprono il beccuccio, avrano fame e sete... Tre, non si sono aperte, di uova...
— Saranno sciacque...
— No e no, mamma Tuta! Io dico che si aprono domani e ne avremo dieci, di pulcini, che bellezza!
— So’ tuoi, Bicetta, che hai formato la cova e l’hai vegliata bene...
— Ma voi mi avete insegnato, mammarella Tuta mia — e con la mano levata, mandò un bacio, in aria, alla donna.
Costei si commosse e chinandosi sul poggiuolo, fra il vaso di basilico e il gelsomino di Spagna, disse, verso Bicetta:
— Benedetta, benedetta...
La fanciulla fece una lesta giravolta, sui suoi zoccoletti, e la gonna di un panno bigiastro, le battette sulle esili gambe, coverte di calze di cotone bleu scuro. Anche il suo grembiule era di cotonina bleu: ma la camicetta di lanetta a righe bianche e nere, con bottoncini bianchi e un fazzolettino di seta celeste annodato al collo, nel loro aspetto cittadinesco, contrastavano con la gonnelluccia, gli zoccoletti, il grembiule e le calze contadinesche. Anzi, tutto era in contrasto, in Bicetta Pietrangeli, trapiantata da Roma nel bel paesello di Acuto, sovra Fiuggi, da circa quattro anni: mentre i suoi lineamenti di brunetta delicata eran restati fini, la carnagione si era abbronzata, al sole e al vento, mentre i suoi capelli neri erano tirati e acconciati con una certa cura, fermati da forcinelle di falsa tartaruga, le sue mani si erano ingrossate e arrossite. Molto alta, per i suoi dodici anni, un po’ magra, aveva, in fondo, l’aspetto vigoroso: e tutto in lei esprimeva la lietezza di vivere, nella casa che era una delle ultime di Acuto, verso la campagna, fra Torto e la vigna, fra le erbe, le piante e gli alberi, fra i suoi prediletti animali domestici, nell’aria e nel sole e anche alla pioggia, con sora Tuta, la sua madrina.
— Che gli do, mamma Tutta, a sti pulcini miei?
— Miglio, miglio, Biciarella: e una conchetta di acqua fresca.
— Bene, bene!
La fanciulla prese un canestro, che aveva poggiato sovra un muretto, un canestro pieno di grani, per dare il cibo mattinale a tutto il suo pollame, galline, polli, piccioni, colombi: emise un certo suo grido gutturale, che era l’appello consueto e che quegli animali conoscevano, e fu un grande fruscio di ali per aria, e un discendere di volatili, e uno zampettar per terra, un raccogliersi, stretti, stretti, intorno alla dodicenne, pigiandosi, cercando di sopraffarsi, bezzicandosi irosamente, fra loro, e le galline più golose e più audaci pizzicando le gambe di Bicetta, che dava calcetti, che gittava il becchime, intorno, più lontano, per liberarsi, ma quelle lo divoravano e tornavano alla carica.
— Affamate, affamatissime, che volete, più, ecco, ecco, vi ho dato tutto! — strillava Bicetta Pietrangeli, alle galline, ai piccioni, ai colombi, gittando, più lontano, il fondo del suo canestro e buttando a terra anche il canestro vuoto. Ora, accovacciata innanzi alla porta aperta del gallinaio, dava un pastoncino, in un piatto di creta, alla gallinaccetta, che aveva covato così bene: e versava il miglio in un vasello, per i suoi pulcini pigolanti, già insolenti, che già si disputavano, fra loro. Mise anche l’acqua in una conchetta. Ma quando si levò, si mise improvvisamente a correre verso centro dell’orto, dove, fra gli alberi di meli e di fichi, vi erano disposte, in fila regolare, le insalate, i pomidoro, i peperoni, e delle zucche già fiorite di giallo. Due o tre galline sornione si erano allontanate, verso le insalate, golose di bezzicare le lattughe e le scarole. E Bicetta, perseguitandole, le ingiuriava:
— Ah brutte ladre, Bianchina, ladrissima, e tu, peggio, Costanzella e mi meraviglio di te, Rossolina!
E le sospingeva, via, verso la casa e quelle fuggivano, innanzi a lei, sparnazzando le ali.
— Non vai a scuola, oggi, Bicetta? — chiese, dalla loggetta, ove distendeva, al sole, sulle corde, certi panni risciacquati, la sora Tuta.
— No, mamma Tuta. Si fa vacanza, oggi.
— Vacanza?
— È festa, mamma — rispose, con voce meno vivace, la ragazza.
— È festa?
— Ventiquattro maggio — e, addirittura, la risposta era data senza fiato. Anzi, la fanciulla aveva voltato la testa in là, verso il terrazzo che cingeva la casa, l’orto e la vigna, e da cui si scorgeva l’amplissima valle, sino a Sgurgola.
— Che fai, allora, Bicetta?
— Vengo su, mamma Tuta: vi aiuto in cucina.
— Più tardi, figlia cara: ti chiamo io... Perchè, invece, non ti ripassi il tuo catechismo? Lo sai poco, dice il curato.
— Lo so poco... È vero. Buttatemelo giù, mamma Tuta. Mi metto qui, a ripassarmelo... Ma non giungo a imparare... Sono così stupida... ho così poca memoria.
Dopo un poco, Bicetta Pietrangeli, andava e veniva, lentamente, fra i viottoli dell’orto, col catechismo aperto, fra le mani, forzandosi a leggere le righe corte e lunghe del catechismo, domanda e risposta, ma distraendosi, obbliandosi, con gli occhi presi da un passerotto che saltellava da un ramo all’altro, con le mani che raddrizzavano una pianta di pomodoro, cercando, invano di riprendere la lettura. Quando, a un tratto, udì un passo, alle sue spalle: era la sora Tuta che l’aveva raggiunta, che pareva un po’ turbata, che la guardava, fissandola, tenendo la bocca chiusa, ma non parlando.
— Non va giù, non va giù, questo catechismo... — mormorò la fanciulla, crollando il capo.
— Bicetta, vieni con me, un momento — disse, infine, la sora Tuta, con un accento singolare.
— Io vi apro le bacche dei fagioletti freschi, mamma Tuta, fatemelo fare, ve ne prego! E si fa una minestra saporita!
— Andiamo, andiamo, su, Bicetta — disse l’altra, senza darle retta.
Pure, camminava piano, avviandosi verso la porta di dietro della casa, che dava sull’orto e che era quella della cucina: una volta, anzi, si fermò e mise la sua larga mano, sul braccio della fanciulla. Poi, fece uno sforzo, come se inghiottisse la sua saliva:
— Vi è una visita, per te, Bicetta...
Trascolorò, subito, la fanciulla e rimase immota, come irrigidita, sui suoi zoccoletti.
— Che visita, che visita, mamma Tuta? — e tremavano le parole, sulle labbra tremanti — La mamma di Roma... l’altra mamma? — e nulla era maggiore della confusione e del tremore di Bicetta Pietrangeli.
— Eh no, no! — negò, con un gesto triste, la sora Tuta. — Meglio, meglio, figlia mia...
— Allora è il mio papà, il papà mio caro? — gridò la ragazza, tutta protesa e anelante, nella domanda.
— Sì, sì, è il tuo papà...
— Dove è, dove è, il papà mio? — e scappò, come un razzo, a traverso la cucina, penetrò in una stanza terrena, che serviva da tinello e gridò, guardandosi intorno:
— Dove sei, papà, papà?
In un angolo di ombra era Cesare Pietrangeli: e ne usci, con un passo vacillante e la sua figlia, in un istante gli fu fra le braccia ed egli se la chiuse sul petto e la baciò sulle gote, sugli occhi, sulla fronte, sui capelli, mentre essa, convulsamente, seguitava, a dire, baciandolo, stringendosi a lui:
— Papà mio caro, caro, caro!
L’abbraccio convulso si sciolse, ma la fanciulla rimase attaccata al fianco del padre, che le teneva un braccio al collo: ed ella, ogni tanto, gli posava la testa sul petto, per un istante e poi si staccava e lo guardava, ancora. E vedeva, sì, suo padre, Cesare Pietrangeli che era stato grosso, atticciato, con un corto collo taurino, con un viso acceso e i tondi occhi sporgenti e i rudi cappelli a spazzola, sulla fronte bassa, ma lo ritrovava, dopo tanto tempo, smunto, con una pelle grinzosa e macchiata, coi capelli fattisi radi e scoloriti, sull’alto del capo e sulle tempie, con gli occhi di una tinta torbida e uno sguardo spento, col corpo più che dimagrato, diventato flaccido, nei panni dimessi, i calzoni troppo larghi sulle gambe, il panciotto che facea pieghe, sul torace. E abbracciandosi, parlavano a frasi sconnesse:
— Come ti sei fatta alta, Bicetta, Ridarella mia!
— Lo sai che ho dodici anni, papà?... Ne avevo di già otto, quando mi lasciasti, quattro anni fa...
— Quando ti lasciai, è vero... quattro anni fa — fu la ripetizione sommessa. — Ma ti sei fatta forte, anche, contadinella mia...
— È quest’aria, papà... È questa vita... E mamma Tuta! Ma, sai, non guardare i miei zoccoletti... Ci ho anche delle belle scarpe... E divento romana, quando me le metto...
— Lo credo, lo credo, figlia cara... — e sorrise, in poco e sospirò, come se affannasse.
— E tu, papà mio, come stai, dimmi, dimmelo!
— Ah foglietta cara, quanto, quanto sono stato malato! Chi te lo può dire?
— Lo so... Io so, povero padre mio.
— Me ne andavo, Bicetta mia: è stato Iddio, che non mi ha voluto...
E sospirò, anche più profondamente. Ora, su due sedie, si erano seduti accanto: Bicetta teneva, fra le sue, la larga mano fattasi ossuta, di suo padre e lo guardava, con occhi pieni di una pietà filiale. Così invecchiato, così consumato, il suo papà che nei suoi ricordi, era rimasto con la figura di un colosso, di un colosso bonario, in Roma, quando ella avea otto anni!
— Ed ora sei guarito? Sei veramente guarito?
— Non mi sento guarito, Bicetta mia — e un pallido, amaro sorriso gli passò sulle labbra. — Il tifo è una malattia orribile: non se ne guarisce mai completamente. Si vive: ecco tutto.
— Ma che ti senti, papà, che ti senti? Dillo alla tua Bicetta — e lo abbracciò, di nuovo, più stretto, con uno scoramento grande.
— Lascia, figlia cara: non dar retta ai lamenti inutili. Oggi sono qui, con te, e mi sento bene, ed è una gran giornata, pel tuo papà...
— E perchè non restate, un pochetto, qui, con noi, compare Cesare? — entrò nella conversazione, la sora Tuta, dal suo posto. Poichè ella era venuta dalla cucina nel tinello, quietamente e si era seduta, presso la porta, con le mani sotto il gran grembiule oscuro.
— O comare mia buona, così lo potessi! — esclamò con voce velata di emozione, Cesare Pietrangeli. — Con voi, col compare Marcuccio, con la mia Bicetta... Ma, se mi credete, non posso...
— Avete lavoro, in Roma, compare?
— Ne cerco... — egli rispose, a voce dimessa, a occhi bassi.
— Vi è scarsezza, è vero?
— Nulla, nulla vi è, per noi, che siamo tornati, comare mia — egli disse, amarissimamente — Tutto è stato preso, da chi è rimasto... e se lo tengono...
Un soffio di tristezza si era diffuso, adesso, nella tranquilla stanza, in quella casa di campagna, lontana dal tumulto e dalla febbre della città. Le due donne, la giovanissima e l’anziana si erano, fatte pensose e mute.
— Non ho più il chiosco dei giornali... — egli continuò, debole, fiacco, con quel tono di lamento che faceva pena. — Bettina lo abbandonò... se ne fuggì... Ah Bettina, Bettina!
— Bettina, papà, tu lo sai, dove è, che fa, Bettina nostra? — proruppe, così, come se solo il nome avesse udito, Bicetta. E sorrideva, e gli occhi le lucevano.
— Non lo so. E non m’importa — e l’uomo s’incupì, nel volto, nell’accento. Di lontano, dietro le spalle di Bicetta, la sora Tuta gli fece un cenno, suadente, di pacificazione, indicandogli la ragazza.
— Papà, Bettina nostra, così graziosa, è a Trieste: e balla, in un grande teatro: ed è una ballerina che guadagna tanti denari. Balla, con suo marito, papà!
— Suo marito? Che marito? — chiese Cesare, a denti stretti.
— Quel giovine, papà, che passava le sue giornate attorno al chiosco... e si son voluti tanto bene... e poi sono andati via, insieme: ma si sono sposati, certo, certo, papà mio!
— E come sai tutto questo? — domandò Cesare, che reprimeva a stento la sua ira.
— Bettina le ha scritto, dopo tanto tempo — intervenne, quietamente, pacata, la sora Tuta. — Una buona lettera, compare Cesare.
— Che lettera, papà mio caro, Bettina mi ha scritto! La vado a prendere, te la leggo?
— Non serve — egli arrestò, con la parole e col gesto, sua figlia.
Una pausa di silenzio. Ma la fanciulla, eccitala, esaltata, oramai, riprende:
— Bettina si è ricordata di me, della sua piccola sorella... e io ho pianto e ho baciato la lettera... Ma dimmi, papà, perchè la mia mamma di Roma, l’altra mia mamma, si dimentica sempre di me? Tu mi hai scritto, papà caro, dal fronte, dall’ospedale... Ed essa, da tanto tempo, non mi scrive, non mi dà notizie! Ditelo voi, a papà, mamma Tuta, quanto tempo è, che non sappiamo niente?
— Sì, è molto tempo che Mariuccia non si fa viva. Sarà molto occupata, al lavoro: sarà fuori Roma, forse — la donna dice, con quel suo fare tranquillo.
— Ma che le ho fatto, io, a mamma Mariuccia! — esclama, dolente, Bicetta — Non sono sua figlia?
E si volge al padre, con occhi velati d’ingenue lacrime.
— Tu non le hai fatto nulla: e sei sua figlia — l’uomo ripete, piano, a occhi bassi, mordendosi le labbra, per contenersi.
— Ma tu, papà mio, ora che torni in Roma, da lei, glielo devi dire, che si è troppo scordata della sua Bicetta.
— Tu la vedrai domani, è vero?
— ... io la vedrò domani — è l’eco scolorita e fievole.
— E diglielo, diglielo, te ne prego! È la mamma mia: io l’ho sempre davanti agli occhi, papà. È sempre così bella e così buona?
— Sempre buona e bella, Bicetta — Cesare dice, crollando il capo.
— Ma tu, dimmi, le vuoi sempre bene, a mamma? — chiede Bicetta, dopo un silenzio, a suo padre. E non pare più la semplice e ingenua fanciulla dei primi momenti.
— Perchè mi domandi questo, figlia mia?
— Ho pensato, qualche volta, papà, che tu la incolpassi della morte di Augustarello...
— Oh Augustarello! — scoppia in un grido di dolore, Cesare Pietrangeli.
— Augustarello nostro, Augustarello!... — grida la fanciulla.
E stretti, di nuovo, in un abbraccio doloroso, piangono, infine, insieme, sull’infante dal visetto tondo e dal nasino a sghimbescio, che avea formato la loro delizia e che era morto, lontano dai suoi genitori, lontano dalla sua casa, in un ricovero di bimbi, fra i deboli, fra gli infermi, morto fra la indifferenza di chi lo circondava.
— Quanto era carino, Augustarello nostro!
— Pupo mio, pupetto, che sei fra gli angeli, Augustarello!...
Le lacrime si asciugano sulle guancie dei piangenti, s’inaridiscono negli occhi: ma sempre pesa il cuore, nel petto del padre, della figliuola.
— Mamma Mariuccia non ha colpa, papà mio — ricomincia, lenta, la figliuola. — Forse potevamo vivere, ma molto ristrettamente, allora: e le sue amiche, sai, Maddalena, la moglie dell’ebanista e Carmelina, la figliuola del portinaio, dirimpetto, erano già andate in fabbrica, a lavorare, e guadagnavano, e vestivano bene: e venivano a trovarla, la domenica, per convincerla d’ingaggiarsi, anche lei...
— Augustarello, Augustarello! — mormora, tristissimamente Cesare.
— Vi era il pupo: il pupetto nostro... Essa non lo voleva lasciare: ma Concertina, la moglie del vinaio, aveva messo il suo nel «nido» ove eran accolti tutti gli altri pupi, e le signore e le signorine li nutrivano, sai, col poppatoio, davano loro le pappe: e mamma andò a vedere, e tutto era bianco, elegante... Noi, papà, che potevamo dire, per non farci portare via il fratellino? Era la mamma, era la padrona... E tu non vi eri, tu, il padrone.
— Era la mamma, la padrona: e io non vi ero... — ripete, smarrito, sperduto, Cesare Pietrangeli.
— Così se ne andò, il nostro povero Augustarello — è il lagno sommesso di Ricetta Pietrangeli.
— Tu l’hai visto, morto?
— No. Nessuno di noi l’ha visto.
— Neanche la mamma?
— Neanche.
Il viso di Cesare Pietrangeli si contrae così violentemente, nello strazio e nella collera, che Ricetta si spaventa.
— Mamma Mariuccia non ha colpa, non ha colpa... è stata una disgrazia terribile... Una disgrazia! Anche quella di Cecchino, tu lo sai, una disgrazia.... Era buono, nel fondo, Cecchino, ma attaccabrighe, manesco.... E si è rissato, col suo compagno, e gli ha dato una coltellata.... Non abbiamo potuto metter l’avvocato: non avevamo denaro.... tutte disgrazie, papà caro....
— È sempre a Rieti, nel Riformatorio? — si volta, tetro, a sora Tuta, Cesare.
— Era, compare Cesare, fino a un anno e mezzo fa: ma lo debbono aver tramutato: non ne sappiamo più nulla. Ma speriamo, speriamo, compare, che lì dentro si corregga.
— ....
Adesso, ha il capo abbassato sul petto, Cesare Pietrangeli e appare così sfinito, che ispira una dolorosa compassione. La figlia lo guarda: e non sa che dirgli, essa stessa profondamente turbata.
— Abbiamo fatto discorsi troppo tristi, compare — osserva, sora Tuta. — Voi siete debole e non dovete affliggervi, per cose passate, disgrazie, disgrazie ve ne sono state e ve ne sono dapertutto, per tutti.... Prendete qualche cosa, Cesare. Un bicchiere di wermouth? Una tazza di caffè? Bicetta ve lo va a fare, presto, presto.... È brava, sapete, per il caffè, come per tante altre cose!
— Sì, sì, papà, vado a farti una buona tazza di caffè! — dice vivacemente la figliuola, riprendendo la sua gaiezza puerile: e scappa in cucina.
Cesare Pietrangeli si leva, si accosta, con passo fiacco alla sua comare Restituta, le mette una mano sul braccio e levando gli occhi al cielo, le dice:
— Siate sempre benedetta, sora Tuta! Voi mi avete salvato una figliuola... e io non ho che lei, solo lei!
Ancora due lunghe lacrime rigano il viso consunto di Cesare Pietrangeli.
— Non dite, non dite, compare Cesare! Ho fatto l’obbligo mio di madrina: non l’ho battezzata, forse, io, Bicetta? Santo, santo, quel giorno! Non si chiama anche Restituta? E non ho avuto figli, io, con Marcuccio, perchè non ci è stata la volontà di Dio, ma ecco la figlia, eccola qua!
— Scampata, me l’avete, sora Tuta! Se no, era persa, come Bettina che s’è disonorata e fa un mestiere da prostituta, era persa come Cecchino, che è andato in carcere, a tredici anni, o mi moriva la mia Bicetta, come Augustarello mio.... Sora Tuta mia, tutta la mia famiglia è stata distrutta, una moglie, tre figli, una casa, sora Tuta, che disperazione!
— Zitto, zitto, per carità, compare Cesare, che Bicetta vi sente.
— È troppo, è troppo, tutta una famiglia, comare mia....
— Bicetta vi resta....
— E vi bacio le mani e sempre vi benedico, voi, che l’avete scampata, voi, che la custodite, voi, che me la custodirete, non è vero?
— ... sì — risponde la donna, esitante. — E se la mamma la cerca?
— Oh non la cercherà! Non dubitate, che non ve la cercherà! — e la voce si fa forte e irata.
— Ma che fa, Mariuccia? — chiede, piano, sora Tuta, parlandogli nel viso. — L’avete vista?
— No.
— Non l’avete cercata?
— No.
— ... è con un altr’uomo, è vero?
— Sì.
— Quale? Quello della fabbrica, il controllore?
— Credo. Mi hanno detto così. Non so nulla di più.
— E la roba di casa?
— L’ha venduta, da un pezzo.
— Era vostra, però?
— Sì: l’ha venduta egualmente.
— Gesù’ Signore!
— Tutto distrutto, tutto, casa, famiglia, figliuoli...
— Non solo voi, compare, per questa guerra....
— Sì, ma il mio peso è troppo forte. Tuta. E non ci reggo.
— Avete Bicetta.
— Custoditela, custoditela, Tuta, santa donna!
— Ecco il caffè, papà. Senti, senti, che profumo! — e mentre lo versa nella tazza, sorride al padre, che si sforza, si vince, e le sorride.
Il sergente Brambilla si teneva presso la porta che divideva le due stanze, con una lunga carta alla mano: e vi leggeva un nome di soldato, ripetendolo, sonoramente, verso l’altra stanza. Il soldato che era stato così chiamato, staccandosi dal gruppo ove aspettava, si avanzava e si fermava, un istante, sulla soglia: e subito sentiva, su lui, lo sguardo gelido dell’ufficiale, un capitano, che lo attendeva, come al varco, seduto dietro un largo tavolo, avendo accanto un altro ufficiale, un tenente, che funzionava da segretario. E nessuno di questi soldati che venivano a dar conto sommario, delta loro mala ventura di guerra, dai campi austriaci, tedeschi, bavaresi, era entrato disinvolto, vispo: ognuno di essi portava, nel corpo e nell’anima, le più patetiche stigmate della sua trista prigionia. Ma nè il pallore cachettico di alcuni, nè il gonfiore malsano di altri, nè la tosse stizzosa dei tubercolotici, pareva avessero impressionato il capitano Moles, che era ancora in servizio, che portava i segni di due medaglie sull’uniforme e che era stato destinato a quella penosa inchiesta, su quegli infelici, i quali erano da un mese, a Trieste, senza poter discendere verso i loro paesi, verso le loro case. Il capitano Moles aveva conservato quel viso marmoreo e quello sguardo velato e freddo, anche di fronte a certi militari che appena si reggevano in piedi e che avevano solo un soffio di voce, per rispondere. Costoro non solo erano vestiti alla peggio: ma ritornati dalla prigionia tutti laceri, in cenci, accolti nelle caserme con sorrisi beffardi e con parole sarcastiche, nutriti malissimo e accatastati sulla paglia dei più sporchi cameroni, avevano avuto delle vecchie uniformi, stinte, spaiate, tutto ciò come se non fossero italiani e come se non fosse finita la guerra, tanto che la mala accoglienza italiana, aveva aggravato i loro malori fisici e morali. Meschine, malaticcie figure di soldati e di ufficiali, che penetravano in quella stanza, dopo ore e ore di crucciosa attesa, in quell’anticamera: figure di una profonda tristezza umana, nell’avvilimento e lo stento di un lungo periodo di prigionia e, dopo, sconvolte da quel così doloroso ritorno in patria, ricevuti come fedifraghi, come traditori: alcuni addirittura inebetiti dalle privazioni, dalle sofferenze, stringentisi nelle spalle, innanzi al disdegno di tutti coloro che li accoglievano. Ma il capitano Moles, per diverse che fossero la miseria fisica e il turbamento morale che avesse avanti, non cangiava la sua attitudine austera, in cui pareva pietrificato: e nelle sue corte e aride domande passava, penetrante e offensivo, il suo disdegno per il prigioniero italiano, che egli aveva davanti, in Trieste, finita la guerra, reduce dagli orrendi campi nemici della prigionia: disdegno invincibile in questo giudice, anche se il prigioniero che aveva davanti potesse ispirare, in chiunque, una immensa pietà.
Con una giubba scolorita che gli va troppo stretta e che gli lascia nudi i polsi, mostrando una camicia sfilacciata, con una faccia da idiota malato, e una voce indistinta, il soldato Pescatori Attilio sta innanzi al tavolo, dondolandosi, avanti e indietro, come se fosse per cadere.
— Quanto tempo, in prigionia? — interroga il capitano Moles.
— Non so. Molto tempo... non so — è la risposta vaga e lenta del soldato.
— Dove?
— In Ungheria... così mi han detto...
— Il nome del campo?
— Non lo so.
— Sei stato tanto tempo e non lo sai? — insiste, il capitano Moles, con una brutta occhiata.
Niente. Il soldato risponde, piano:
— Non so.
— Dove ti hanno preso?
— Non so.
— Neanche questo, sai? Sarai fuggito, allora, verso il nemico.
— No, signor capitano. Non sono fuggito. Mi hanno preso... — e si arresta, senza fiato, il soldato Pescatori Attilio, che si guarda attorno, smarrito, come se si sentisse cadere.
— Capitano, vi è qualche notizia, su costui — dice, chinandosi al suo superiore, il tenente segretario, Dellacasa. — Pare che sia stato preso, a Oslavia, in combattimento.
— Combattevi, quando ti hanno preso? — riprende l’inquisitore militare.
— Credo... forse... Non so — ed è così debole, così vacillante in tutte le sue forze, Pescatori Attilio, che il capitano Camillo Moles lo licenzia, non per compassione, ma perchè comprende che non potrà nulla sapere, da costui, che è diventato un cencio umano.
È un giovane soldato di artiglieria, che succede a Pescatori Attilio, il quale è andato via tremando, urtando contro lo stipite della porta, sostenuto, per un momento, dalla mano del sergente Brambilla. L’artigliere si chiama De Domenico Vincenzo, meridionale: ha l’aspetto sano, ma l’espressione accorata negli occhi oscuri e nella voce bassa.
— Vieni dall’Austria?
— Signorsì. Dal campo di Salzburg.
— Vi sei stato molto tempo?
— Un anno, signor capitano.
— Preso prigioniero a Caporetto, è vero? — stride la domanda del superiore.
— Sì, a Caporetto — è l’accoratissima risposta di De Domenico Vincenzo.
— Come gli altri, naturalmente... — soggiunge, mostrando tutto il suo disdegno, il capitano Moles.
— Non so degli altri — risponde, deciso, l’artigliere. — So come sono stato preso io.
Aggrotta le sovracciglia, il capitano, e batte un colpettino con una stecca, sovra il tavolo. La fermezza di colui che ha davanti, lo irrita perchè, per lui, il prigioniero è o un vile, o un traditore.
— Come sei stato preso, dal nemico?
— Insieme al mio capitano, Giulio Lamarra e al mio compagno Sebastiano Garda.
— Il capitano anche è stato preso? — e la sorpresa disdegnosa, si svela nella domanda.
— Signorsì. È stato un anno, prigioniero, come me. E per due mesi la sua famiglia l’ha creduto morto.
— Meglio morto che prigioniero — mormora, fra i denti, il capitano Moles, — Andiamo, di’, come vi hanno preso, tutti tre?
— In quella terribile prima giornata, eravamo giunti a salvare il nostro pezzo, incitati dal nostro capitano, che preferiva morire, anzi che lasciare il suo pezzo al nemico... Eravamo salvi, noi e il pezzo, per un miracolo: ma il capitano si è rammentato, che vi erano rimaste abbandonate due casse di munizioni: e ha voluto andare a riprenderle... Abbiamo ripassato il ponte: abbiamo ritrovato e ripreso le due casse: ma, al ritorno, il ponte era stato tagliato: e siamo restati di là, fra i nemici che sovraggiungevano.
— Chi aveva tagliato il ponte?
— Il signor capitano lo sa. Gli italiani — e abbassa gli occhi, l’artigliere e non aggiunge verbo.
— Vi è nulla, nelle carte, di tutto questo, tenente Dellacasa? — chiede, pianissimo, il capitano Moles.
— Qualche cosa — risponde, anche pianissimo, il tenente. — Ma io conosco Giulio Lamarra: un valoroso.
— Già: ma è stato inutile, il suo valore — conclude Moles, a fior di labbro.
— Siamo stati presi, per il nostro dovere, signor capitano — osa dire De Domenico Vincenzo. — E pel nostro capitano, ci saremmo fatti uccidere.
— Meglio morti che prigionieri — dichiara, ad alta voce, adesso, il capitano Moles, licenziando con lo sguardo l’artigliere.
Sta, ora, dinanzi al capitano Moles, il sergente Giovanni Martinengo. Sulla vecchia uniforme che gli hanno dato, egli si è cucito i suoi galloni di sergente, il grado che si è conquistato sul campo, nel lungo tempo di guerra: e porta, anche, sulla manica di questa vecchia giubba, due segni di ferite in combattimento. Egli riconosce, subito, il capitano Moles, con cui è stato per tanti mesi, nel primo anno di guerra: ma poichè scorge la fredda indifferenza di quello sguardo e l’aspetto severo dell’ufficiale, il piemontese disciplinato, non dà mostra di niente. E attende, in posizione militare, con viso tranquillo e aspetto semplice, di essere interrogato. Il tenente Dellacasa, quasi per abbreviare questi penosi interrogatorii, mette innanzi al suo capitano una carta, ove è qualche appunto. Moles vi china gli occhi e legge:
— Prigioniero in Ungheria, al campo di Szeghedin... Molto tempo?
— Quasi un anno, signor capitano.
— Caporetto, Caporetto! Preso prigioniero fra i fuggiaschi, è vero?
— No, signor capitano — risponde il piemontese, con tono rispettoso ma sicuro. — Fra i combattenti...
— Combattevate?
— Come sempre, quando si doveva, signor capitano — e lo fissa, un istante, come se volesse rammentargli la passata vita comune.
— Potete dimostrarmelo, che siete stato fatto prigioniero in combattimento?
— Non posso. Posso solamente ricordare tutta la mia modesta azione di guerra, quella di prima.
— Non basta. Si può diventar vili o traditori, in un istante — dice, glacialmente, Moles.
— Al buon soldato, come io fui — risponde, sobrio di voce ma triste, Martinengo — come sono stati migliaia di miei compagni, la prigionia è una sventura, non un errore, nè una colpa.
— Ma essa annulla tutto il passato, sergente Martinengo — ribatte, recisamente, il capitano Moles.
— È vero. Ho detto male, sventura, signor capitano. È una sciagura, per noi tutti. Io era ferito, per la seconda volta, quando mi presero: ferito alla spalla, più gravemente, di quando perdemmo il tenente Capece....
E coi suoi buoni occhi, carichi di una nobile tristezza, il sergente Giovanni Martinengo guarda il capitano Moles. Costui fa un cenno con la mano, quasi a far dileguare un ricordo: ma la sua voce è meno cattiva:
— Andate pure, sergente Martinengo.
Per quella mattina, l’inchiesta è finita. Sarà ripresa il giorno seguente. Il tenente Dellacasa raccoglie le sue carte, per fare, nel pomeriggio, il verbale di questo interrogatorio.
— A udir costoro — dice il capitano Moles, amaro — nessuno di essi è fuggito, o ha tradito. Tutti si battevano.... tutti erano in avanguardia.... tutti eran valorosi.
— Per varii, signor capitano, sembra vero — osserva, pensoso, il tenente Dellacasa.
— Siete ottimista, tenente.
— Forse. Che vuole? A me il caso della prigionia in guerra, mi sembra, come la morte, come la ferita, come lo scampo, un caso, non altro....
— A me fa schifo, tenente.
— E che avrebbe lei fatto, se questa sciagura le fosse capitata?
— Mi sarei tirato un colpo di rivoltella, il minuto seguente. Come il tenente Capece. Ferito gravemente e prigioniero, si liberò dalle medicature e si lasciò morire.
Fu nel pomeriggio del medesimo giorno che, all’albergo di Trieste ove risiedeva, da due mesi, il capitano Camillo Moles seppe, da un cameriere che una signora chiedeva di parlargli: e mentre egli era per uscire dalla sua camera, per discendere al salone, la signora che aveva seguito il cameriere ed era alle sue spalle, nel corridoio, entrò nella camera, dicendo, dietro il suo fittissimo velo di cordoglio, che le discendeva sino alle ginocchia:
— Camillo, sono io: sono Magda.
Egli aveva fatto un passo indietro, innanzi a quella figura muliebre tutta coperta dai veli neri vedovili, i cui tratti non si distinguevano, dietro il crespo inglese: e rincontro che aveva tanto temuto e sino allora evitato, lo lasciava così turbato che non sapeva nè fare un gesto nè dire una parola. La sorella rialzò il suo velo e lo gittò indietro.
— Non mi abbracci, Camillo? Sono Magda.
Allora, egli l’abbracciò, se la strinse al petto, una, due volte, fraternamente: e mentre essa gli teneva la sua fronte sulla spalla, egli aveva levato gli occhi al cielo, quasi invocasse forza a quel colloquio, che, da tre mesi, egli sfuggiva con tutti i mezzi.
— Povera sorella cara...
E la guardò, nelle sue vesti di un nero opaco, nei suoi veli neri densi, coi suoi capelli che, sotto la cuffia nera vedovile, si erano tutti imbiancati, con quei suoi occhi che non aveano più quella espressione perplessa, ma parevano spenti, oramai, dalla estrema certezza. Pensò, Camillo Moles aveva due o tre anni meno di me, non ha ancora quarant’anni, Magda. E ripetette:
— Povera sorella cara...
— Perchè hai tardato tanto, Camillo? Perchè ti attardi, ancora?
— Non sai, Magda, che mi trattengono? Non te l’ho scritto?
— Sì, lo so. Ma non potevi distaccarti? Non avevi desiderio, di rivedere la tua povera sorella cara...?
Parlava, ella, con una voce eguale, un po’ monotona: e fermava il suo sguardo atono, ove era passata la estrema certezza, su suo fratello.
— Magda, io ne avevo il desiderio doloroso, fortissimo...
— E che cosa, mai te lo impediva, allora, quale grande cosa, Camillo?
E l’interrogazione diventava più precisa e più pressante.
— Io non ho mai finito di volerti bene, Magda cara — egli aggiunse, eludendo la domanda.
— Lo so, Camillo — ella disse, mettendogli una mano sul braccio, con l’antico gesto di carezza fraterna.
— E tu, mi ami sempre, sorella mia? — Moles chiese, scrutandola intensamente.
— Come prima, come sempre, Camillo. Io non amo che due persone: te, Camillo e colui che mi ha lasciato.
— Tu ami ancora Mario Falcone? — egli le domandò, sempre più tenendola sotto l’acuto suo sguardo.
— Io lo amo sempre. E non finirò mai di amarlo, Camillo.
— Non finirai mai di amarlo? — egli ripetette, lentamente, come se parlasse a sè stesso, constatando una verità preclara.
— Nessuna cosa e nessuna persona mi potrebbe farlo amare, per un istante, di meno, Mario Falcone, mio marito, morto in guerra e di cui porterò il cordoglio, tutta la vita — ella proclamò, a un tratto, con voce alta.
— Ah! — egli rispose, senz’altro.
Un silenzio: pensieri, sentimenti, conflitto di sentimenti e di pensieri, ma senza parole. E, da questo tumulto interiore, la richiesta netta e precisa:
— Perchè non mi hai mandato, in Roma, tutto quello che è restato, di lui, Camillo?
Egli corrugò la fronte:
— Volevo portartelo io stesso, Magda, rientrando a Roma.
— Poichè ritardavi, dovevi mandarmelo — ella soggiunse, nettamente.
— È vero. Ti chieggo scusa. Credeva sempre di partire, verso Roma.
— Io sono la sua vedova: e quella roba è mia — ella continuò. — Camillo, mi hai fatto troppo aspettare quello che mi spettava.
— Perdonami, sorella mia — Camillo disse, gravemente, tristemente.
— L’hai qui, Camillo? Dove?
Egli ebbe un sussulto, innanzi a questo crescendo di richiesta: stette muto.
— Dove è? Dimmi!
E girò il suo sguardo, per tutta quella stanza di albergo. E, in fondo, in un angolo, sovra un icchese, vide le due cassette di ordinanza di suo marito, il capitano Mario Falcone, le cassette che ella bene conosceva. Si levò, si diresse velocemente verso quell’angolo, ma suo fratello le fermò il passo, le si pose davanti.
— Camillo, quelle cassette sono mie, lasciamele aprire, lasciamele prendere — Magda esclamò, concitata.
— Non ora! — egli si oppose, impetuosamente.
— Camillo, sono venuta da Roma, per averle, per aprirle, per portarle via!
— Non ora! — egli replicò, tendendo le mani per respingerla, per non farla passare, poichè ella lo tentava.
— Lasciamele prendere, sono del mio Mario! — ella gridò, gittandoglisi contro, come folle, per toglierlo di mezzo.
— Il tuo Mario! Il tuo Mario! — egli proruppe, non frenandosi più, livido, oramai, di tutta la sua atroce collera, repressa e covata.
— Era il mio Mario, è il mio Mario, sì, sì, vivo o morto, hai capito, Camillo?
E le folgoravano, d’un tratto, gli occhi così spenti nella loro estrema certezza.
— Ah no, perdio, no, Magda, che non era tuo, Mario Falcone! — gridò il fratello, in sua immensa amarezza e in sua immensa collera.
— Non dire, non dire, era mio, sempre, ed è anche più mio, nella sua morte — e balenavano i suoi occhi smorti, i suoi occhi morti.
— Cieca e sorda eri, dunque, Magda, infelice sorella, cieca e sorda, sei, sempre a credere che quel vivo, a credere che questo morto, fosse tuo?
— Ah Mario, Mario, Mario! — ella, esclamò, con un immenso strazio, tendendo, nel vuoto, le sue braccia, verso l’adorata visione della sua mente.
Nel suo furore, nel suo dolore, Camillo Moles, sospinto al culmine di queste sconvolgenti passioni, disse, a voce sorda:
— Un traditore, il tuo Mario.
— Non importa, Camillo!
— Il più infame fra i traditori, Magda.
— Non importa, Camillo!
— Fino a un giorno prima, forse, della sua morte, traditore, traditore, traditore!
— E non importa, Camillo!
— Folle, folle che sei, tu eri sua moglie e lo adoravi, io l’amavo come un fratello, perchè lo avevi prescelto, ed egli ci ha disonorati, me, te, coperti di fango!
improvvisamente Magda Falcone si tace e si fa immota. Una compostezza si distende sulle linee contratte del suo viso. Il suo sguardo, fattosi pacato, si volge verso il convulso fratello: e quell’anima pare che aspetti l’ultimo motto della verità, senza speranza e senza sgomento. Camillo Moles che è giunto all’estremo limite del suo strazio e del suo sdegno, non può, oramai, indietreggiare, nè vorrebbe. Vi sono in quell’angolo di quella stanza di albergo, in quelle due cassette del capitana Mario Falcone, morto in guerra, le cassette che gli furono confidate, e di cui egli ha violato il segreto, i documenti dell’atroce verità. Non può indietreggiare: se la mano di Magda Falcone si distende, a toccare quelle cassette, ad aprirle, egli non può impedirglielo, ora che il suo sdegno e il suo strazio, le hanno rivelato una parte di quella, vergogna. E contenendosi, con uno sforzo violento di volontà, egli dice, a sua sorella:
— Tu non conosci chi fosse l’amante, di tuo marito, Mario Falcone, fino a un mese prima della sua morte?
Aspetta, ella, muta, l’ultima parola della verità: non batte ciglio.
— Tuo marito era da tre anni, l’amante di Barberina Moles, mia moglie.
Egli è tutto teso verso lei, aspettando che un grido, che un gesto disperato, gli rivellino l’orrore di Magda. Ma ella non grida, non fa cenno.
— Magda, mi hai bene inteso? Barberina e Mario adulteri, insieme, da tre anni, hai inteso?
— Ti ho inteso — ella risponde semplice — Io lo sapevo.
— Lo sapevi? Lo sapevi? — ruggisce l’uomo, furente.
— Sì. Lo sapevo.
— E da quando? — urla l’altro, sperduto di furore.
— Da tre anni — ella risponde semplicemente.
— Dal primo giorno, adunque?
— Dal primo giorno, Camillo, l’ho saputo.
— E non ha fatto nulla? Non hai detto nulla? Per paura, è vero? Per viltà? perchè sei una misera femmina, senza coraggio, vile, vile!
— Camillo, era venuta per piangere, con te. — Magda dice, a voce bassa.
— Perchè hai taciuto? Perchè hai sopportato? — Camillo farnetica, ancora senza badarle. — Per viltà?
— Per amore, Camillo.
— Per amore di chi, di chi? di Mario, è vero? Del tuo Mario?
— Sì. E per amore del mio Camillo — ella soggiunge calma, guardando lontano.
— Per amore mio, mi hai lasciato disonorare?
— Per amore tuo ti ho lasciato vivere. Se avessi parlato una delle due persone che amavo, poteva morire — e il suo spirito è altrove, nella sua vita anteriore.
— Magda, la vita è uno scherno, senza l’onore! — egli prorompe, esasperato.
— Camillo, la vita è inutile, senza l’amore — ella ribatte fermissima.
— Mario è morto, tradendoti.
— Ma mi amava — Magda risponde, mentre un lieve singolare sorriso ella rivolge, alla sua vita anteriore.
— Ti amava, ti amava?
— Ne sono certa come della mia morte — ella soggiunge, profondamente. — E sono certa che ha pensato a me, morendo.
— Chi te lo ha detto? — trasalisce, lui, colpito.
— Nessuno. Ma lo so. Come se lo avessi udito, con le mie orecchie mortali, so che mi ha chiamata.
— Che ti hanno detto?
— Nessuno mi ha detto nulla. Ma la mia anima amorosa ha udito la sua voce, in agonia... Sì, sì, Camillo: io so, io ho udito che Mario ha chiamato la sua Magda... Me, ha chiamato e non l’altra! — e il più follemente felice dei sorrisi, s’irradia sul volto di quella vedova.
Camillo Moles si avvicina a sua sorella, le prende le mani, la attira a sè e la bacia in fronte. E umilmente, dice:
— Perdonami, sorella.
— Fratello caro — ella risponde, dolcemente, appoggiata a lui — mi sei sempre più caro.
L’istante di pace, di tenerezza, di armonia spirituale, lentamente si invola. E una voce acre domanda:
— Che fa, l’altra?
Magda Falcone si scuote, ha come un brivido e sogguarda suo fratello. La domanda è elusa.
— Tu non sai, che cosa faccia Barberina?
— Dimmelo tu — egli insiste, sempre più pressante.
— Porta il lutto...
— Il lutto?
— Le è morto, in guerra, il cognato, Mario Falcone.
— Ah! Non sai altro?
— Ma non ti scrive, non ti dà notizie, tua moglie?
— Sì, mi scrive.... Mi attende, in Roma.
Magda Falcone sogguarda, ancora, suo fratello, turbata sino in fondo all’anima.
— E tu non la raggiungi, presto, in Roma?
— La raggiungo, sì — è la risposta semplice e gelida.
La sorella non domina, più, la sua inquietudine mortale.
— Camillo?
— Magda?
— Che le dirai a Barberina?
— Io? Niente — replica, suo fratello, semplicissimo.
— Niente, Camillo, niente?
— Non ho nulla da dirle — soggiunge, glacialmente, l’altro.
— Pure... qualche cosa dovrà esservi, fra voi? — e, subito, si pente di aver svelato la sua intima pena.
— Qualche cosa, sì — egli risponde, animandosi, a un tratto e sogghignando. — Le porterò, se tu me lo permetti, santa sorella mia, le sue lettere a Mario... Sono in quella cassetta, nella più scura. Permetti, eh?
— Camillo!
— Posso anche, Magda, angelo di bontà, se tu lo consenti, portarle alcune fotografie... Istantanee... abbracciati... Era un compiacente amico, colui che ha tenuto la macchina.
— Camillo, per carità! — Ella esclama, tremando di paura.
— E perchè domandi, Magda? Perchè vuoi sapere? Perchè sei così sgomenta? Di che ti sgomenti?
— Camillo, senti, senti... — ella parla, confusamente. — Apriamo insieme quella fatale cassetta: prendiamo le lettere, senza leggerle, prendiamo le fotografie e bruciamo tutto, fratello, fratello caro... Cancelliamo queste traccie orrende del peccato...
— ...
— .... Non dire che io sono santa, non dire che io sono angelo, Camillo, perchè anche io ho spasimato, e ho odiato Barberina e l’ho maledetta... E, poi, più tardi, ho tanto pensato, tanto riflettuto... Era una inconsciente, Barberina... Non discerneva il bene dal male...
— ... una incosciente... non discerneva il bene dal male... — egli ripete, con un tono stranissimo.
— Ascolta, ascolta Camillo... — ella si affanna, pensando di poterlo meglio placare — Te lo confesso, dopo la morte di Mario... dopo la gran certezza venutami da quella morte, io le ho perdonato...
— Le hai perdonato?
— Sì. Non l’ho più vista: non la vedrò mai più: ma le ho perdonato.
E poichè le sembra che egli sia, oramai, dominato dalla sua tenerezza, dalla sua bontà, dalla sua pietà, poichè le sembra di avere risvegliato ed esaltato nell’anima di suo fratello, la bontà, la pietà, ella osa soggiungere:
— Anche tu, le perdonerai.
Egli non si ribella, non protesta.
— Sì, sì, le perdonerai... — ella è sempre più affannata, nella speranza di vincere un ultimo ostacolo. — Prima... talvolta... fosti così buono... con lei, buonissimo... lo so... E le perdonasti...
— Sì, le perdonai — egli annuisce, tranquillo.
— Certo, prima... ella non aveva peccato... che di leggerezza... di vanità — ella soggiunge, ancora incerta, perplessa.
— Già.
— Era altra cosa prima... poco o niente, forse
— Poco o niente... forse.
— Questo, sì... è un peccato tremendo... Ma uno dei colpevoli si è purificato, Camillo, con la morte...
— Già.
— Che mi dici, Camillo?
— Nulla, Magda — egli conclude, gelido.
A malgrado che imbrunisca, a malgrado la stanchezza dei suoi occhi, don Filippo Morcaldi seguita a leggere, nel suo Uffizio, le orazioni di Compieta. E, forse, non legge neppure quelle preci latine, poichè leva la fronte e le sue labbra si muovono lievemente a pronunciarne le parole, che egli conosce bene, a memoria. Fino a pochi anni prima, la profonda fede cristiana dì don Filippo e il suo zelo religioso, non gli avrebbero mai fatto mancare, in chiesa, l’ufficio così soave del Vespro, quando il giorno svanisce nella sera e il cristiano si unisce al suo Signore, ringraziandolo dell’altra giornata che gli è stata concessa, per la sua milizia sulla terra. E in Santa Maria in Via, in Santa Maria degli Angeli, in San Camillo, si era certi di ritrovarlo, in quell’ora, alto dignitario sacerdotale, fra i più umili preti, a cantare Vespro, sottovoce, nella penombra della chiesa, innanzi all’altare ove ardevano accesi pochi ceri, fra pochi devoti che oravano. Ma, ora, gli anni, molti, si sono appesantiti sulle forze fisiche di don Filippo Morcaldi e i doveri del suo grande grado nella prelatura, sono diventati molto più copiosi e lo tengono preso, in quel vasto appartamento del suo antico palazzo: sempre le ore delle preghiere sono segnate, per lui, come da quando era adolescente nel Seminario, come quando era giovine prete, ma egli prega in sua casa, dove è impresso, ovunque, il suggello mistico della fede e l’avita tradizione dei Morcaldi, che hanno avuto, in ogni generazione, un vescovo, o un prelato, o un semplice sacerdote. Anzi in uno dei saloni, vi è un grande armadio che racchiude un altare, dalla pietra consacrata e davanti al quale, spesso, don Filippo Morcaldi recita la messa, per qualche amico, per i suoi familiari, o amministra la cresima a una giovinetta, a un fanciullo. Imbrunisce: don Filippo ha finito l’ufficio di Compieta e posa il suo libro sul tavolo presso il quale è seduto, in un largo seggiolone: il libro è aperto ed egli vi tiene, sopra, appoggiata, la mano, come se, ancora, pregasse mentalmente. Forse, è così. Già le ombre serali penetrano dalle grandi vetrate dei balconi e quasi annegano i colori e le linee dell’ambiente e la figura del sacerdote, quando egli suona un campanello: un domestico schiude il gran battente dell’alta porta, solleva la doppia tenda di velluto e damasco, gira il commutatore della luce elettrica e dà la buona sera a monsignor vescovo, con quella voce misurata dei sacrestani, che vivono da anni in chiesa. E il domestico è appunto, vestito di nero, con una stretta cravatta bianca attorno al solino bianco, piccolo, esiguo, vecchio, ma meno di monsignor vescovo, che egli serve da quarant’anni. Il suo padrone è anche magro, ma non è alto: ha un viso piccolo e fine, tagliato da mille rughe, due vividissimi occhi e mentre quasi tutta la testa ha una calvizie lucida, una coroncina di riccioli bianchi viene, dalla nuca, sin dietro le orecchie.
— Vi è qualcuno che aspetta, Domenico?
— La signora Leoni, monsignore. Sapeva che recitavate Vespro e non ha voluto farsi annunziare.
— Fatela entrare, la signora Leoni — e un piccolo sospiro esce dalle labbra del vescovo.
Carolina Leoni entra, col suo passo leggiero, nelle sue semplici vesti oscure: sta, quasi, per inginocchiarsi per baciare l’anello vescovile, ove mette le sue luci tenui violacee l’ametista, ma don Filippo la solleva, subito e la benedice, accennandole di sedersi, dirimpetto a lui. Ella obbedisce. Solo cinque anni sono trascorsi dacchè, in un crepuscolo di aprile, il fantasma della guerra è apparso, sempre più minacciante sciagura, a Carolina Leoni: ma il travaglio di questi cinque anni, ha devastato quella dolce e fine figura di donna. Non è vecchia, non è stanca, non è malata: ma sembra che la vecchiaia, la stanchezza, la malattia, si sieno aggravate su lei e vi abbiano lasciato le loro divoratrici orme indelebili, Non sono rossi e gonfi, i suoi begli occhi di pervinca, non è contratta la sua piccola bocca appassita, non è roca la sua voce, ma pare che tutte le lacrime sieno sgorgate da quegli occhi e i singhiozzi abbiano sformato le linee della bocca gentile e che il vano grido del dolore, da nessuno raccolto, da nessuno consolato, abbia spezzato le corde di quella voce carezzevole. Così pare: così è. Ma Carolina Leoni ha chiuso, tutto questo, nel fondo del suo cuore e dei suoi nervi, nel pudore della sua implacata sofferenza: e si tiene riservata, rispettosa, innanzi a monsignor Filippo Morcaldi, che la sogguarda, coi suoi occhi vividi:
— ’Avete, donna Carolina, compiuto il «ritiro» presso le sorelle missionarie?
— Sì, monsignore: le sorelle, anzi, mi vollero consentire anche un’altra settimana, fra loro. E sono venuta per ringraziar voi, monsignore, con tutto il cuore, del beneficio concessomi.
— Ne avete avuto conforto, all’anima, figliuola mia? — chiede il sacerdote, tenendo Carolina sotto il suo sguardo acuto.
Ella abbassa gli occhi e non risponde.
— Poco conforto, è vero? O, forse, niente? — e la domanda è più serrata.
Ella fa uno sforzo, per vincersi: e, poi, d’un tratto, si confessa:
— Niente, monsignore.
— Ah! — egli esclama. E si fa pensoso.
— Il mio dolore è superiore a ogni consolazione — ella continua, precipitosamente, per dire tutto. — O, forse, non sono degna di consolazione.
— La vostra fede è molto fiacca, figliuola mia — e una severità crescente è nel volto e nella parola del vescovo.
— .... è vero, è vero!
— Voi amate più la vostra creatura, che il vostro Creatore.
— Ah Loreta, Loreta, Loreta! — prorompe, in un triplice grido, la madre disperata.
Poi si vergogna, arrossisce, impallidisce, dietro la sua nera veletta: e guarda con occhi supplichevoli il sacerdote, perchè le perdoni questo peccato, di cui brucia l’anima sua materna. Don Filippo che tiene appoggiato il gomito sulla tavola, ha la mano sugli occhi, come raccolto. Carolina aspetta che egli le dica il pensiero in cui è preso, pensiero di biasimo, o di consiglio, o di conforto. Il silenzio si prolunga, in quella grande stanza, alle cui pareti rivestite di cupo damasco rosso, pendono dei quadri antichi di soggetto religioso. Don Filippo abbassa la mano che covriva i suoi occhi: forse in quel tempo ha pregato. Egli scorge, innanzi a sè, quella madre trafitta nel cuore, simile a Colei che vide a morire Suo figlio sulla croce, quella madre che ha emesso solo un grido, ha chiamato solo un nome, e questo l’ha fatta novellamente sanguinare.
— Non siamo in confessione, Carolina — egli si volge a lei, serio e dolce — ma voi dovete dirmi tutto. Lo promettete, Carolina?
— Lo prometto — ella risponde, fiocamente.
— La vostra disperazione è essa giusta? Non la ingrandisce la vostra fantasia?
— Ho perduto una figliuola, monsignore. E ne avevo una sola.
— Essa non è morta.
— Se fosse morta, Loreta, pura, casta e intatta come era, l’avrei pianta, ma mi sarei rassegnata al volere di Dio. Ma ella vive, disonorata, nel peccato.
— Non si può, Carolina, riparare l’onore?
— No. È irreparabile.
— So che l’uomo che l’ha sedotta, è morto, è vero?
— Loreta non è stata sedotta da Carletto Valli. Doveano sposarsi. Ma la guerra è scoppiata ed essa, essa, ha voluto darsi a lui. Dopo... molto dopo, Carletto Valli è morto, al fronte.
Adesso, ella ha trovato la forza di questa fosca confessione e parla nitidamente, guardando altrove, abbassando gli occhi, per sfuggire agli occhi di don Filippo che, pure, sono carichi di pietà.
— Dopo questa morte... adesso, come vive la vostra Loreta?
— L’ho detto, monsignore. Vive nel peccato.
— Con un altr’uomo? Il secondo?
— ... No. Un altro. Non so chi. Qualcuno.
Le risposte sono amare, amarissime. Ma Carolina Leoni incrudelisce, profferendole, anche contro sè stessa. E appoggia la testa, trascolorata, come se svenisse, alla spalliera del suo seggiolone. Con la mano avvezza alla benedizione, il sacerdote le fa un cenno suadente,
— Ma voi, Carolina, non la vedete?
— Da molto tempo, non la vedo. Ogni tanto, in questi quattro o cinque anni, è riapparsa, innanzi a me. Sempre bella e sempre orgogliosa: anche nel suo peccato, monsignore.
E la voce le si strangola, nelle atroci parole.
— Ma vi dà sue notizie?
— Talvolta. Qualche cartolina. Ora è a Montecarlo. Un paese di piacere e di vizio. E Loreta è perduta, è perduta!
Sussulta quel petto, stride, quella voce; sono allucinati, gli occhi.
— Siete certa, Carolina, di aver fatto tutto il vostro dovere, verso vostra figlia?
— L’ho amata troppo. L’amo sempre troppo — ella risponde, sordamente.
— Ciò non basta, non basta!
— L’ho educata nella fede, nella pietà, nella virtù, monsignore! — ella esclama — Io sono stata una donna onesta.
— Lo so. Come è che tutto sia stato vano? Essa vi ama?
— Non so. Non so nulla del suo cuore. Forse non mi ama; forse non mi ha mai amato. Questo è il destino delle madri folli, come me — e gli occhi aridi di Carolina Leoni, si allucinano sempre più.
— L’avete mal custodita, è vero?
— È fuggita, monsignore, fuggita: ed è andata in una estrema città del fronte, in un paese pieno di corruzione e di orgia: e vi è restata, un mese, due mesi, non rispondendo ai miei disperati richiami, disubbidendo al suo fidanzato, vivendo al contatto di quella turpitudine... Un fiore, era, la mia Loreta, un fiore di purezza ed è caduto nel fango.
Ora, è convulsa, Carolina Leoni: non piange, non singhiozza, perchè ha troppo pianto e troppo singhiozzato. Ma è convulsa.
— Tante creature virtuose si sono perdute, così, durante quel tempo — dice, tristemente, il sacerdote. — Migliaia di fanciulle, travolte... I padri al fronte... le madri deboli, impotenti a frenarle... tutta la libertà... una custodia impossibile... E in contrasto, in reazione all’incubo pauroso di guerra, una furia di vivere, una furia di godere... Loreta vostra non è stata la sola, a peccare... Pensateci!
— Non vi era, per me, nel mondo, che quella creatura delle mie viscere. E non l’ho più.
— Non avete speranza che il suo animo si muti?
— Nessuna.
— Non avete tentato di raggiungerla, di unirvi a lei, di prenderla sul vostro cuore?
— Ho tentato. È stato inutile. Ha trovato sempre modo di eludermi, di sfuggirmi. Ho creduto, persino, che mi odiasse. Non mi odia. È peggio. Ha bisogno di liberarsi completamente di me. Vorrei sparire...
— Che dite?
— Io, io stessa — ella continua, come se parlasse a sè stessa — ho desiderio di sparire. Non so più vivere, in Roma, ove tutti conoscono il disonore che ha colpito la memoria di mio marito e me. Mi vergogno! E altrove, in Italia, non saprei trovare una ragione di vivere...
Tace, monsignor vescovo Filippo Morcaldi, poichè egli sente di trovarsi dinnanzi a un dramma inesorabile. Ed è Carolina Leoni che, invece, riprende, con voce che prega;
— Monsignore, volete consentirmi una grande grazia?
— ...?
— Nell’entrante mese, partono per l’Africa, in Nigeria, le mie sorelle, le Francescane Missionarie di Maria: lasciatemi andare con loro, laggiù, fra gli infedeli, fra i lebbrosi.
— Non è possibile!
— Rendetelo possibile.
— Non siete monacata!
— Non importa. Parto come conversa: parto come serva, monsignore, ma parto.
— È un disegno del vostro folle dolore, Carolina, non posso permetterlo!
— Volete, allora — ella pronunzia, impetuosamente, — che io mi abbandoni ad un altro disegno? E che perda la salute della mia anima, con la mia morte? Debbo, dunque, dannarmi?
— Carolina, tacete! — egli esclama, con sdegno.
— Monsignore, salvatemi, lasciatemi andare!
— Conoscete i disagi, le privazioni, i pericoli di quella esistenza?
— Desidero affrontarli.
— Le nostre Francescane, laggiù, si contagiano, coi lebbrosi e ne muoiono.
— Così sia! — ella dice, congiungendo le mani, chiudendo gli occhi.
Egli tenta una ultima ma debole difesa.
— Voi vi separate, così, per sempre, dalla vostra figliuola?
— L’amerò sino alla morte: pregherò per lei sino alla morte: ma voglio sparire. Debbo sparire.
Don Filippo Morcaldi è vinto.
— Sia fatto come volete, Carolina Leoni, figliuola mia.
La donna scivola, silenziosamente, in ginocchio, davanti al vecchio vescovo, curva la fronte sulla sua mano, bacia l’anello, per ringraziare. Poi, sotto la muta e commossa benedizione del sacerdote si leva, si allontana, col suo passo eguale: e va, al suo destino di esilio e di sacrificio mortale, la madre, che ha perduto la sua unica figliuola vivente.
Ora, nella prima sera, il vecchio vescovo è solo: e sembrano più curve le sue spalle e si abbassa la testa sul suo petto. È penetrata, è nutrita di fede religiosa la sua anima: ma lo spettacolo dell’implacabile infelicità umana, ferisce il suo cuore, nel suo più intimo, sentimento di carità. Prova don Filippo Morcaldi, quel cruccio umiliante di nulla poter fare, per consolare un’altra anima: e tutto vacilla e tutto si disperde, in lui. Egli tende la mano a prendere un libro che è sulla tavola, accanto a lui, insieme ad altri: e cercando in esso, come spesso fa, fermezza contro il suo vano rammarico, lo apre, a caso. È L’imitazione di Cristo, che, forse, Tommaso da Kempis vergò, in versetti lucidi e crudeli come una lama di acciaio, o, che forse, qualche altro spirito ignoto, trasse dal suo immenso dolore umano e dalla sua immensa speranza divina. Ecco, la prima pagina, si è schiusa sulla «Via Regia della Santa Croce» così imperiosa e così appassionata e così violenta e così inesorabile: «patire, patir sempre, non altro che patire, per la Croce, sotto la Croce, e anche se si fosse rapito, come Paolo, al Terzo Cielo, patire ancora, tutte le avversità, vivere e morirci, sotto la Croce....» Socchiude gli occhi stanchi, il vecchio vescovo e sente che, in quell’ora, il piissimo e terribile libro, contiene un liquore troppo forte per il suo povero cuore triste, che vuole e vuol dare consolazione, nel nome di Cristo. È un’altra parola, che gli è necessaria, non più per sè, che è fuori di ogni tempesta, ma per la pietà degli altri: è il libro di tutti i più intimi conforti che egli ricerca, con la mano avvezza, è il folto libro dalla nera legatura di pelle, consunta dall’uso, ove il santo di Savoia, san Francesco di Sales, ha messo il suo genio e la sua fede, in un monumento spirituale imperituro. Ovunque si apra, a caso, il nero volume, ovunque si fermino, a caso, gli occhi nostalgici, che domandano una luce dello spirito, l’indicazione di una via, il segno di una vetta, questo trovano» fluente da quel vasto e tenero cuore, fluente da una mente di poeta, fluente da un’anima che vide il Cielo schiuso, nel suo splendore e ne raccolse i raggi: san Francesco di Sales. Il sacerdote sente, in sè, risollevarsi le sue energie, che erano avvilite dalla tristezza: il gran contatto lo ridona a sè stesso, oltre il male, e oltre il dolore, in un’atmosfera ove tutto si placa, tutto si esalta. È, forse, passata un’ora, quando Domenico il domestico, riappare dalla portiera, annunziando che è, in anticamera, don Giulio Lanfranchi.
— Venga, venga — e il vecchio vescovo sorride, all’idea di riveder il figliuolo suo spirituale.
— Giulio, Giulio, perchè hai tardato tanto? — gli rimprovera affettuosamente, mentre il giovine prete s’inchina, gli bacia la mano, si rialza e sta in piedi, finchè il suo vescovo gli fa cenno di sedere.
— Mi scuso tanto, monsignore — egli risponde, senz’altro.
— Ti ho fatto cercare, sai, nelle tue chiese di prima: san Camillo, santa Maria degli Angeli... Non ti avevano mai più visto.
— Difatti, non vi sono stato — e non soggiunge motto.
— Ti hanno trattenuto, è vero, come tanti altri, sotto le armi?
— Sì, monsignore: tre o quattro mesi.
— Vi era bisogno, lo so, negli ospedali...
— Sono rimasto agli ufficii dello Stato Civile di guerra: eravamo in molti a fare elenchi, più o meno precisi.
— Grande fatica, Giulio: centinaia di migliaia di morti... — sospirò profondamente il vescovo.
— Sì, varie centinaia di migliaia — e non va oltre.
— E, dopo, che hai fatto, figliuol mio?
— Sono stato a casa, a Città della Pieve.
— È giusto, dovevi essere stanco.
— Stanchissimo, mortalmente stanco, monsignore — e, per la prima volta, un velo di emozione, è nella sua risposta.
— Caro figliuolo mio! Ti sarai riposato bene, nel tuo grazioso paese, fra i tuoi.
— Mia madre e mia sorella...
— Buone donne, me le ricordo, Giulio, quando vennero qui, per la tua prima messa. Piangevano di gioia, poverette! Anche tu, Giulio...
Tiene lo sguardo fisso sul suo vescovo, il giovine prete: e vi è, in quello sguardo, un continuo mutamento di espressione, mutamenti quasi inafferrabili, di grande tristezza, di volontà insorgente, di ansietà repressa. Non vede, non sa, il vecchio vescovo, tutto alla sua dolcezza paterna, innanzi al suo figliuolo spirituale.
— Dicevate molto messa, al campo?
— Molto, al principio; poi molto meno; infine, quasi mai.
— So, so... dovevate assistere troppi feriti, troppi morenti... E a Città della Pieve, poi, avrai ripreso?
La domanda è semplice, è ovvia. Dopo un istante d’incertezza, don Giulio Lanfranchi risponde:
— No.
— No? E perchè? Eri stanco? Ti eri disabituato?
— Ero stanco, sì... Poi, monsignore, voi lo sapete, la messa, per noi, non è obbligatoria.
Per la prima volta, don Filippo Morcaldi si scuote: un lieve accigliamento sull’antico volto.
— Parli sul serio, Giulio? L’obbligo? Che significa l’obbligo? Pel sacerdote, unirsi, sull’altare, al suo Signore, è un bisogno altissimo dello spirito, una necessità per la vita della coscienza... Come intraprendere la propria missione, ogni giorno, senza quel soccorso?
— Vi siete male avvezzi, in guerra, Giulio: ti compatisco, figliuolo mio, perchè non è tua colpa. E, dimmi, che programma hai, adesso, che ti sei riposato e che sei in Roma?
— Dove vuoi andare? Di nuovo a san Camillo? O a santa Maria degli Angeli? Preferisci qualche altra chiesa?
Don Giulio Lanfranchi seguita a tacere: ma i suoi occhi, adesso, rispecchiano, solo, una rigida volontà.
— Rispondimi, figliuol mio. Abbiamo necessità di buoni sacerdoti. È strano: ma la fede è vacillante. Stranissimo! Se tu vuoi tornare a ufficiare nelle chiese che amasti tanto, bene: ma se vuoi cambiare, trovare più larga via al tuo spirito, io posso aiutarti. Forse sei nobilmente ambizioso: sarebbe giusto: io farò tutto, per te.
— Non voglio nulla, non desidero nulla.
Don Filippo Morcaldi sogguarda il suo figlioccio:
— Sei umile, lo so. E, allora, in quale delle due chiese vuoi tornare, dimmi?
— In nessuna delle due — risponde, infine, chiaramente, don Giulio Lanfranchi.
— Che hai detto, Giulio? — balbetta monsignor vescovo.
— Io non salirò più sull’altare — replica, reciso, Giulio Lanfranchi.
— E perchè? Perchè? — interroga, sgomento, il vescovo.
— Sono indegno — è la breve, arida risposta.
— Ti sei guasto l’anima, in guerra, al fronte? Hai peccato? Hai peccato di carne? — e si affanna il vecchio sacerdote, nella domanda.
— Non ho conosciuto donne. Sono mondo.
— Altri piaceri, altri vizii, ti hanno traviato?
— Nessun piacere e nessun vizio. Sono rimasto puro.
— Forse la infingardaggine, la trascuranza, nel tuo uffizio santo, ti hanno corrotto?
— Ho fatto, lassù, per quattro anni, tutto il mio dovere di cristiano e di prete.
- — E allora, allora? — esclama, agitatissimo, don Filippo.
— Per me, monsignore, il cielo è vuoto. Non credo più.
— Ah! — dà in un grido di fiero dolore, il padrino spirituale di Giulio Lanfranchi.
— Vuoto e deserto, il Cielo. Senza Dio, senza Gesù, senza Maria, senza i santi — prorompe, protervo, Giulio Lanfranchi.
— Empio, empio che sei, lo Spirito del Male è in te! — grida il vescovo, a gran voce, sollevato in piedi, con le mani protese, quasi a far tacere il blasfematore.
Spietato contro il suo vescovo, che gli fu amoroso padre spirituale, più spietato, forse, contro sè stesso, Giulio Lanfranchi seguita, violentemente, a negare, a negare:
— Favola, falsità, menzogna, tutta menzogna, Dio, la Divina Provvidenza, la Celeste Misericordia. E io non voglio, non posso esser sacerdote di una menzogna!
— Signore, Signore, non lo ascoltare! Egli non ha perduto Te, Signore, ma la ragione, perdonagli! — e il venerando vecchio alza le braccia al Cielo, per invocare pietà, per invocare soccorso.
— Io non sono pazzo, monsignore — ribatte, gelido, ostinato, Giulio Lanfranchi. — Come il Cielo è vuoto, così è vuota l’anima mia di fede.
— Tu mi dai, figlio mio, un dolore di morte — geme il sacerdote, piissimo, abbattuto, oramai dal colpo inaspettato.
— Io ho sofferto, io mi sono straziato, vedendo fuggire la fede, da me — risponde, senza concitazione, più, ma tristissimamente Giulio. — Ho lottato, ogni giorno, sentendo, in me, questa fede insidiata, minata; ho pregato, ho digiunato, ho vegliato, nelle lacrime, mi sono dibattuto contro la sfiducia, l’aridità, l’indifferenza... Tutto è stato inutile, padre mio. Vivo: ma è morto il mio cuore: ed è morta l’anima mia.
E un disperato singhiozzo senza lacrime, pare che laceri le ultime parole del prete senza fede.
— Tu eri il più amoroso e il più tenero servo di Dio — riprende, frenandosi a stento, il vescovo — e io mi facevo una gloria, innanzi all’Eterno, di averti condotto al suo servizio. Chi ha devastato l’anima tua? Confessati, Giulio. Chi ha distrutto la vita del tuo spirito? Confessati.
— Mi confesso, padre: ma ignoro se voi possiate comprendermi... Voi non siete stato colà, nel folto della guerra, quattro anni, circa, quattro lunghi, atroci anni, fra centinaia di migliaia di uomini, lanciati, a uccidere, a farsi uccidere, così, bestialmente, ciecamente, non avete visto cadere, ogni giorno, come sotto una falce di un infame falciatore, uomini sani e forti, giovini floridi, messi intiere falciate, messi umane, padre mio....
— Iddio così avea comandato... — mormora don Filippo Morcaldi.
— Non avete uditi i lamenti, le grida, gli urli, dei feriti, dei morenti, che non volevano morire, che erano disperati di morire, che bestemmiavano, che morivano, bestemmiando...
— Questa era la volontà di Dio.... — ripete, pensoso, assorto, il vescovo.
— ... e non avete visto la terra nuda irrorata di sangue, e i campi inondati di sangue, e i ruscelli che si tingevano di rosso, nelle loro acque fuggenti, e le roccie e le pietre e le case, tutte bagnate e deturpate dal sangue, e gli uomini che non eran feriti, macchiati di sangue umano, monsignore, torrenti, fiumi di sangue, ovunque passasse il flagello della guerra!
— È il sangue del sacrificio, chiesto da Dio — replica, per la terza volta, don Filippo.
— È per questo, per questo, che io non credo più in Dio — grida, impetuosamente, Giulio Lanfranchi. — No, non può esistere un Dio che dia la morte a cinquecentomila miei fratelli, e altrettanti sopravviventi, stroncati, mutilati, minorati, inetti a vivere, non può esistere un Dio che spezzi il cuore di cinquecentomila fra madri, mogli e sorelle dei caduti in guerra, non può esistere un Dio che voglia la devastazione, lo stupro, Tassassimo, bruciate le case, crollate le chiese, isteriliti i campi, violentate le donne, uccisi i vecchi e i bimbi, furore, furore dell’uomo contro l’uomo, tutto il selvaggio furore del tempo primitivo, scatenato nell’uomo contro l’uomo... Dio non vi è, Dio non vi è, e tutto è materia bassa e ignobile, tutto fa schifo, nella vita, nel mondo, schifo e orrore!
Ricade sulla sua seggiola, ansante ed estenuato, don Giulio Lanfranchi. Il suo vescovo è curvo su sè stesso: e tace. La sua mano, due o tre volte ha toccato il volume di san Francesco di Sales: due o tre volte, i suoi occhi avvezzi, si sono rivolti verso il grande crocifisso di avorio, sulla nera croce di ebano, che è sospesa, al muro, sovra un pannello di velluto rabescato. Forse, nella semplicità della sua anima, egli non trova ancora, come lottare contro la crisi spirituale del giovine prete. Forse, quelle parole così spasimanti di don Giulio, ove tutta l’immane carneficina si palesava, in una straziante sintesi, hanno commosso colui che non ha visto la carneficina, ma è stato colpito dal suo riflesso. Pure, con una calma che egli impone alla sua emozione, egli si volge al suo figlioccio:
— Il tuo cuore era troppo sensibile, per la tua opera di guerra, figliuolo mio: e tu hai molto, troppo sofferto. Iddio ti perdonerà la tua sacrilega negazione, Giulio, poichè essa è sorta dalla tua fraternità umana, dalla tua bontà, dalla tua carità... Ma, vedi, figliuol mio, tu, io, tutti quanti, siamo incapaci a comprendere e a spiegarci il mistero dei disegni di Dio, siamo troppo povera cosa, perchè la nostra mente giudichi la ignota origine della sua volontà...
— Se Egli ha voluto la guerra, il flagello, la carneficina, lo sterminio, noi ne ignoriamo la ragione e dobbiamo inchinarci a Lui.
Balza in piedi, il gracile, l’emaciato giovine prete e leva le pugna chiuse, in alto, gridando:
— Ma, allora, questo Dio è un assassino, che crea gli uomini, per assaporare, indiscusso, ingiudicabile, il piacere di ucciderli? Ma, allora, questo Dio ha inventato le epidemie, le alluvioni, i terremoti, per meglio distruggere gli uomini, senza difesa contro la sua truce volontà? Ma allora questo Dio si è compiaciuto, si compiace, di scatenare la guerra, per distruggere il maggior numero di viventi? Ma è un Dio costui, è quel Dio che imparammo a venerare, e esaltare, per la sua misericordia, per la sua saggezza, per la sua clemenza? No. Non è quello, non è quello, è un altro, è lo Spirito del Male, è Satanasso, che è nel Cielo!
— Eretico, eretico, taci, o debbo maledirti! — grida, solenne, il vescovo, con gli occhi fissi, sul crocifisso, tremando in ogni vena, di santo dolore e di santo sdegno.
Con gli occhi sperduti, Giulio Lanfranchi si guarda, intorno: vacilla: crolla, innanzi al suo vescovo: gli abbraccia le ginocchia: balbetta:
— Perdonatemi... perdonatemi... Non volevo venire: vi fuggivo... mi avete chiamato... perdonatemi... non dovevo parlare...
— Levati, — ordina, severamente, don Filippo Morcaldi. — Non è più il tuo padrino, che t’interroga. Sei sempre negli ordini: e io sono il tuo capo religioso. Rispondi. Perchè, non reggendoti l’animo fiacco, non domandasti di lasciare il fronte?
— Credetti di poter ritrovare la mia forza.
— Chiedesti soccorso alla preghiera, alla penitenza, ti accostasti ai Sacramenti, per aver ausilio?
— Tutto ho fatto, ve l’ho detto. Per la vostr’anima che io venero, vi giuro che tutto ho fatto.
— Le assistenze ai malati, ai feriti, ai morenti, le hai tu compite come dovevi? Hai saputo consolare, far morire rassegnati, in Cristo, costoro?
— Sì, padre mio. Questo rimorso non mi trafigge. Sormontando ogni mia debolezza, vincendo ogni mia confusione, ricacciando in fondo all’anima ogni dubbio desolante, facendo tacere ogni mia ribellione, io ho ispirato, nei malati, nei feriti, nei morenti, la fede che mi sfuggiva, lo ho mentito, sapendo di mentire, purchè essi soffrissero in pace, morissero in pace.
Un silenzio lungo.
— E, adesso, che intendi fare? — chiede, severamente, il vescovo.
— Mi considero già fuori della Chiesa — risponde, reciso, il prete Lanfranchi.
— Molti, come te, ci hanno lasciati — continua don Filippo e la sua immensa afflizione, traspare a traverso la sua austerità. — La guerra ha tolto molti servi a Dio. Le nostre belle file sacerdotali sono disperse. Anche lo spirito religioso è sperduto. Tante chiese vuote di fedeli! Giulio, Giulio, tu non speri poter restare, con noi, poter ritornare, a noi?
— Non lo spero.
— Che farai, dopo?
— Non lo so.
— Tornerai dai tuoi?
— Non tornerò. Nel mio paese, mia madre e mia sorella morrebbero di dolore, se vi tornassi spretato.
— Sei povero, è vero?
— Sono povero.
— Come vivrai?
— Non so.
— Sai lavorare?
— Ero contadino, piccolo, come era mio padre. Ma è lontano questo tempo.
— Sei gracile, malfermo in salute. Che ne sarà di te?
— Non so; andrò lontano...
— E dove?
— Chi sa! Qualunque esilio servirà a nascondermi...
— Non ci vedremo più, dunque. Sono molto vecchio e stanco e molto tribolato. Ha voluto il Signore che la maggior tribolazione mi venisse da te. Così sia.
Giulio Lanfranchi fissa i suoi occhi disperati in quelli del suo vescovo. Vorrebbe, forse, parlare: ma le sue labbra restano chiuse, sulla sua disperazione.
— Io pregherò per te, Giulio — dice don Filippo, a bassa voce, con una infinita tristezza.
E senz’altra parola, senz’altro cenno, senza neppure un saluto, va via il prete senza fede, il sacerdote senza Dio, al suo ignoto e disperato destino.
Molto più presto del consueto, rientra, quella sera, al suo riposo, nella sua stanza da letto, don Filippo Morcaldi. Cammina piano: e il suo Domenico lo segue, passo passo, per apprestargli le sue cure, come fa, ogni sera e, fra loro scambiano qualche parola, poichè il vecchio sacerdote è molto affettuoso col suo fedele familiare. Quella sera, don Filippo non parla. La sua stanza da letto è molto vasta, parata di una stoffa verde mirto, con mobili antichi di legno scolpito e intagliato, e un gran letto, a colonne che sostengono un baldacchino, con tende verde mirto: tutto ciò è molto cupo. Poco lontano dal letto, vi è un inginocchiatoio bruno, con i suoi cuscini verdi: è collocato innanzi a una mensola ove è una lampada che arde sempre, e, sul muro, vi è un quadro del dolcissimo san Filippo Neri, un quadretto della Madonna del Magnificat di Botticelli, un piccolo bassorilievo di ceramica fiorentina, bianca e azzurra, col san Giovannino di Donatello. Vede, Domenico, che il suo padrone invece di andare a letto, si dirige verso l’inginocchiatoio; comprende che il vescovo, si trova in una delle sue sere di cogitazione segreta: egli le conosce, queste sere in cui sembra, più che mai, che il sacerdote abbia bisogno di dire tutto l’animo suo alla Divinità. E il servo:
— Quando mi vuole, monsignore, sono lì fuori....
— Va’ a letto, sarai stanco, Domenico.
— No, monsignore: non sono stanco. Aspetto il campanello.
E si allontana. Don Filippo si genuflette sul cuscino dell’inginocchiatoio, poggia i gomiti sul piano di esso, covre i suoi occhi con le sue mani e si raccoglie profondamente. Adesso, la sua anima è sola e nuda, innanzi alla Divinità:
— ... Signore, Signore, perdonate a questo vostro povero servo, carico di anni e di tristezze, se non ha saputo meglio difendervi, innanzi alle orrende accuse, uscite da quella bocca giovanile, che tante volte aveva inneggiato a Voi.... Perdonate, Signore, allo smarrimento del mio cuore paterno, alla debolezza della mia mente stupefatta, se non ho tuonato contro il sacrilego insulto... Perdonatemi, Signore... io dovevo castigarlo, Giulio Lanfranchi, fieramente dovevo maledirlo, e perseguitarlo con la mia maledizione, ovunque andasse... ma il mio cuore ha disperso la forza al mio sdegno...
Congiunge le mani, il vescovo, in atto di supplicazione, e tutto il suo volto, è una preghiera alla Divinità:
— ... Signore, Signore, punite il vostro servo, così fiacco, così inerte, che, stassera, ha mancato contro Voi: la vostra mano punitrice si aggravi su me... Ma non sul blasfematore, ma non sul sacrilego pesi il vostro castigo, Iddio di clemenza, Iddio di misericordia... Sì, sì, egli vi ha tristamente offeso, vi ha oltraggiato, egli ha calpestato il vostro Santo Nome, ma lo spettacolo della carneficina, ma tutto il sangue umano versato, avean sconvolto la sua ragione! Signore, pietà di colui che fu vostro, Signore, e dategli il segno vostro, con la bontà... Fate un miracolo, Signore, per Giulio Lanfranchi, che vi servì, adorandovi, come vostro levita, ritoglietelo allo Spirito del Male, che ve lo ha preso...
Prega, così, sino ad alta notte, don Filippo Morcaldi, e non è stanco, e non va al suo riposo, poichè spasima di dolore per colui che fu suo figlio di fede, per colui che egli non vedrà più e che se ne è andato, per le perdute vie del mondo, povero, solo, devastato, disperato...