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— L’ho detto, monsignore. Vive nel peccato.

— Con un altr’uomo? Il secondo?

— ... No. Un altro. Non so chi. Qualcuno.

Le risposte sono amare, amarissime. Ma Carolina Leoni incrudelisce, profferendole, anche contro sè stessa. E appoggia la testa, trascolorata, come se svenisse, alla spalliera del suo seggiolone. Con la mano avvezza alla benedizione, il sacerdote le fa un cenno suadente,

— Ma voi, Carolina, non la vedete?

— Da molto tempo, non la vedo. Ogni tanto, in questi quattro o cinque anni, è riapparsa, innanzi a me. Sempre bella e sempre orgogliosa: anche nel suo peccato, monsignore.

E la voce le si strangola, nelle atroci parole.

— Ma vi dà sue notizie?

— Talvolta. Qualche cartolina. Ora è a Montecarlo. Un paese di piacere e di vizio. E Loreta è perduta, è perduta!

Sussulta quel petto, stride, quella voce; sono allucinati, gli occhi.

— Siete certa, Carolina, di aver fatto tutto il vostro dovere, verso vostra figlia?

— L’ho amata troppo. L’amo sempre troppo — ella risponde, sordamente.

— Ciò non basta, non basta!

— L’ho educata nella fede, nella pietà, nella virtù, monsignore! — ella esclama — Io sono stata una donna onesta.

— Lo so. Come è che tutto sia stato vano? Essa vi ama?

— Non so. Non so nulla del suo cuore. Forse non mi ama; forse non mi ha mai amato. Questo è il destino delle madri folli, come me — e gli occhi aridi di Carolina Leoni, si allucinano sempre più.

— L’avete mal custodita, è vero?

— È fuggita, monsignore, fuggita: ed è andata in una estrema città del fronte, in un paese pieno di corruzione e di orgia: e vi è restata, un mese, due mesi, non rispondendo ai miei disperati ri-