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— Non ho più il chiosco dei giornali... — egli continuò, debole, fiacco, con quel tono di lamento che faceva pena. — Bettina lo abbandonò... se ne fuggì... Ah Bettina, Bettina!

— Bettina, papà, tu lo sai, dove è, che fa, Bettina nostra? — proruppe, così, come se solo il nome avesse udito, Bicetta. E sorrideva, e gli occhi le lucevano.

— Non lo so. E non m’importa — e l’uomo s’incupì, nel volto, nell’accento. Di lontano, dietro le spalle di Bicetta, la sora Tuta gli fece un cenno, suadente, di pacificazione, indicandogli la ragazza.

— Papà, Bettina nostra, così graziosa, è a Trieste: e balla, in un grande teatro: ed è una ballerina che guadagna tanti denari. Balla, con suo marito, papà!

— Suo marito? Che marito? — chiese Cesare, a denti stretti.

— Quel giovine, papà, che passava le sue giornate attorno al chiosco... e si son voluti tanto bene... e poi sono andati via, insieme: ma si sono sposati, certo, certo, papà mio!

— E come sai tutto questo? — domandò Cesare, che reprimeva a stento la sua ira.

— Bettina le ha scritto, dopo tanto tempo — intervenne, quietamente, pacata, la sora Tuta. — Una buona lettera, compare Cesare.

— Che lettera, papà mio caro, Bettina mi ha scritto! La vado a prendere, te la leggo?

— Non serve — egli arrestò, con la parole e col gesto, sua figlia.

Una pausa di silenzio. Ma la fanciulla, eccitala, esaltata, oramai, riprende:

— Bettina si è ricordata di me, della sua piccola sorella... e io ho pianto e ho baciato la lettera... Ma dimmi, papà, perchè la mia mamma di Roma, l’altra mia mamma, si dimentica sempre di me? Tu mi hai scritto, papà caro, dal fronte, dall’ospedale... Ed essa, da tanto tempo, non mi scrive, non mi dà notizie! Ditelo voi, a papà, mamma Tuta, quanto tempo è, che non sappiamo niente?