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— Meglio morti che prigionieri — dichiara, ad alta voce, adesso, il capitano Moles, licenziando con lo sguardo l’artigliere.

Sta, ora, dinanzi al capitano Moles, il sergente Giovanni Martinengo. Sulla vecchia uniforme che gli hanno dato, egli si è cucito i suoi galloni di sergente, il grado che si è conquistato sul campo, nel lungo tempo di guerra: e porta, anche, sulla manica di questa vecchia giubba, due segni di ferite in combattimento. Egli riconosce, subito, il capitano Moles, con cui è stato per tanti mesi, nel primo anno di guerra: ma poichè scorge la fredda indifferenza di quello sguardo e l’aspetto severo dell’ufficiale, il piemontese disciplinato, non dà mostra di niente. E attende, in posizione militare, con viso tranquillo e aspetto semplice, di essere interrogato. Il tenente Dellacasa, quasi per abbreviare questi penosi interrogatorii, mette innanzi al suo capitano una carta, ove è qualche appunto. Moles vi china gli occhi e legge:

— Prigioniero in Ungheria, al campo di Szeghedin... Molto tempo?

— Quasi un anno, signor capitano.

— Caporetto, Caporetto! Preso prigioniero fra i fuggiaschi, è vero?

— No, signor capitano — risponde il piemontese, con tono rispettoso ma sicuro. — Fra i combattenti...

— Combattevate?

— Come sempre, quando si doveva, signor capitano — e lo fissa, un istante, come se volesse rammentargli la passata vita comune.

— Potete dimostrarmelo, che siete stato fatto prigioniero in combattimento?

— Non posso. Posso solamente ricordare tutta la mia modesta azione di guerra, quella di prima.

— Non basta. Si può diventar vili o traditori, in un istante — dice, glacialmente, Moles.

— Al buon soldato, come io fui — risponde, sobrio di voce ma triste, Martinengo — come sono stati migliaia di miei compagni, la prigionia è una sventura, non un errore, nè una colpa.

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