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chiami, disubbidendo al suo fidanzato, vivendo al contatto di quella turpitudine... Un fiore, era, la mia Loreta, un fiore di purezza ed è caduto nel fango.
Ora, è convulsa, Carolina Leoni: non piange, non singhiozza, perchè ha troppo pianto e troppo singhiozzato. Ma è convulsa.
— Tante creature virtuose si sono perdute, così, durante quel tempo — dice, tristemente, il sacerdote. — Migliaia di fanciulle, travolte... I padri al fronte... le madri deboli, impotenti a frenarle... tutta la libertà... una custodia impossibile... E in contrasto, in reazione all’incubo pauroso di guerra, una furia di vivere, una furia di godere... Loreta vostra non è stata la sola, a peccare... Pensateci!
— Non vi era, per me, nel mondo, che quella creatura delle mie viscere. E non l’ho più.
— Non avete speranza che il suo animo si muti?
— Nessuna.
— Non avete tentato di raggiungerla, di unirvi a lei, di prenderla sul vostro cuore?
— Ho tentato. È stato inutile. Ha trovato sempre modo di eludermi, di sfuggirmi. Ho creduto, persino, che mi odiasse. Non mi odia. È peggio. Ha bisogno di liberarsi completamente di me. Vorrei sparire...
— Che dite?
— Io, io stessa — ella continua, come se parlasse a sè stessa — ho desiderio di sparire. Non so più vivere, in Roma, ove tutti conoscono il disonore che ha colpito la memoria di mio marito e me. Mi vergogno! E altrove, in Italia, non saprei trovare una ragione di vivere...
Tace, monsignor vescovo Filippo Morcaldi, poichè egli sente di trovarsi dinnanzi a un dramma inesorabile. Ed è Carolina Leoni che, invece, riprende, con voce che prega;
— Monsignore, volete consentirmi una grande grazia?
— ...?
— Nell’entrante mese, partono per l’Africa, in