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preso in casa, con noi, per meglio custodirlo. Genovieffa non lo lascia mai. È così affievolito: si può spegnere da un momento all’altro... Ma hai visto, come si ridesta, si vivifica, quando sei presso a lui?
— Ho visto.
— Ti adora, Guido. Più di prima, poichè anche tu hai distrutto l’Austria.
— Difatti, io l’ho distrutta — e il figlio ghignò, amaramente.
— Ti vuole veder sempre, Guido: vuole udire narrar di guerra, da te. Sii buono, sii paziente: va dal nostro vecchio: consolalo. Lo possiamo perdere, pensa, domani!
— Andrò, mammina, più tardi.
— Dice che hai promesso di mostrargli dei trofei di guerra... Dove sono? Io non so niente.
— Sono qui i miei trofei — egli rispose, con un amarissimo riso. — Ho promesso al nonno. Manterrò.
Quando la madre ebbe preso congedo, da lui, Guido Soria tornò alla sua scrivania: più che sedersi nel suo seggiolone, vi si lasciò cadere, affranto: e coi gomiti puntati sul tavolo, con la fronte fra le mani, con gli occhi socchiusi, con le spalle curve, stette, così, come sotto un peso insopportabile. Quasi automaticamente, sollevò quel giornale spiegato, sotto cui aveva celato qualche cosa che vi si trovava, a sua madre: e i suoi occhi si fermarono sovra un taccuino di raso azzurro, molto scuro, che vi era dischiuso. Sovra la metà interna del taccuino, sulla fodera, era incastrata in un sottile cerchio d’argento, una miniatura, un ritrattino di donna, giovanissima, rosea, con grandi occhi di un azzurro vivido, con la fronte e le tempie aureolate di riccioli biondissimi, acconciati fanciullescamente e annodati, sovra un lato della testa, da un largo fiocco di nastro bianco: appariva una linea del collo candido e pienotto: e tutta la sua figuretta era di bambola, ma bambola viva. Sotto la miniatura, sul raso scuro erano ricamati, a filo di oro, i due nomi:
M. Serao. Mors tua.... | 21 |