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don Francesco Soria, fu il primo a superare questo senso inquietante di dissidio: e ricominciò, tenacissimo, quella inchiesta per cui si era riacceso il suo animo, intorpidito dagli anni. Adesso, egli interrogava il nepote, seccamente, con poche e decise parole, sempre per quella intima impressione che non vi fosse, fra suo nepote e lui, quell’unisono furore, quella unione violenta delle anime e del sangue, nel furore di guerra.
— Facesti, Guido, raccogliere quel cadavere?
— Sì.
— Fu molto difficile?
— No. Era rimasto giacente, abbandonato, ove era caduto. Le trincee austriache si erano vuotate, nella notte.
— Fuggiti, quei vigliacchi?
— Scomparsi, sì.
— Tu l’hai visto bene, adunque, il tuo morto?
— L’ho visto.
— Bruttissimo, eh? Fronte bassa, capelli piantati bassi, animalescamente, mascella grossa e saliente, mento corto, sguardo falso e basette, le basette del loro «impiccatore»?
— Un po’ diverso — mormorò, fiocamente, il nepote.
— E dove facesti buttare questa carogna di austriaco?
— Nonno, non parlare così! — gridò, ancora una volta, spasimante, Guido Soria — È un morto: da me ucciso.
Aggrottò le sue ispide sovracciglia il vecchio, sovra i suoi occhi incavati e lacrimosi, ma che brillavano, adesso di una luce interiore: strinse le labbra violacee, rincagnate sulle gengive senza denti, crollò due volte il capo come se facesse, a sè stesso, un tacito discorso.
— Raccogliesti la roba di questo tuo morto? — stridette la voce del vecchio.
— La raccolsi. Donai il suo denaro a chi lo aveva trasportato.
— E tenesti il resto? È il tuo trofeo di guerra.