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— Sì, è molto tempo che Mariuccia non si fa viva. Sarà molto occupata, al lavoro: sarà fuori Roma, forse — la donna dice, con quel suo fare tranquillo.
— Ma che le ho fatto, io, a mamma Mariuccia! — esclama, dolente, Bicetta — Non sono sua figlia?
E si volge al padre, con occhi velati d’ingenue lacrime.
— Tu non le hai fatto nulla: e sei sua figlia — l’uomo ripete, piano, a occhi bassi, mordendosi le labbra, per contenersi.
— Ma tu, papà mio, ora che torni in Roma, da lei, glielo devi dire, che si è troppo scordata della sua Bicetta.
— Tu la vedrai domani, è vero?
— ... io la vedrò domani — è l’eco scolorita e fievole.
— E diglielo, diglielo, te ne prego! È la mamma mia: io l’ho sempre davanti agli occhi, papà. È sempre così bella e così buona?
— Sempre buona e bella, Bicetta — Cesare dice, crollando il capo.
— Ma tu, dimmi, le vuoi sempre bene, a mamma? — chiede Bicetta, dopo un silenzio, a suo padre. E non pare più la semplice e ingenua fanciulla dei primi momenti.
— Perchè mi domandi questo, figlia mia?
— Ho pensato, qualche volta, papà, che tu la incolpassi della morte di Augustarello...
— Oh Augustarello! — scoppia in un grido di dolore, Cesare Pietrangeli.
— Augustarello nostro, Augustarello!... — grida la fanciulla.
E stretti, di nuovo, in un abbraccio doloroso, piangono, infine, insieme, sull’infante dal visetto tondo e dal nasino a sghimbescio, che avea formato la loro delizia e che era morto, lontano dai suoi genitori, lontano dalla sua casa, in un ricovero di bimbi, fra i deboli, fra gli infermi, morto fra la indifferenza di chi lo circondava.