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— Ecco il caffè, papà. Senti, senti, che profumo! — e mentre lo versa nella tazza, sorride al padre, che si sforza, si vince, e le sorride.
Il sergente Brambilla si teneva presso la porta che divideva le due stanze, con una lunga carta alla mano: e vi leggeva un nome di soldato, ripetendolo, sonoramente, verso l’altra stanza. Il soldato che era stato così chiamato, staccandosi dal gruppo ove aspettava, si avanzava e si fermava, un istante, sulla soglia: e subito sentiva, su lui, lo sguardo gelido dell’ufficiale, un capitano, che lo attendeva, come al varco, seduto dietro un largo tavolo, avendo accanto un altro ufficiale, un tenente, che funzionava da segretario. E nessuno di questi soldati che venivano a dar conto sommario, delta loro mala ventura di guerra, dai campi austriaci, tedeschi, bavaresi, era entrato disinvolto, vispo: ognuno di essi portava, nel corpo e nell’anima, le più patetiche stigmate della sua trista prigionia. Ma nè il pallore cachettico di alcuni, nè il gonfiore malsano di altri, nè la tosse stizzosa dei tubercolotici, pareva avessero impressionato il capitano Moles, che era ancora in servizio, che portava i segni di due medaglie sull’uniforme e che era stato destinato a quella penosa inchiesta, su quegli infelici, i quali erano da un mese, a Trieste, senza poter discendere verso i loro paesi, verso le loro case. Il capitano Moles aveva conservato quel viso marmoreo e quello sguardo velato e freddo, anche di fronte a certi militari che appena si reggevano in piedi e che avevano solo un soffio di voce, per rispondere. Costoro non solo erano vestiti alla peggio: ma ritornati dalla prigionia tutti laceri, in cenci, accolti nelle caserme con sorrisi beffardi e con