Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 269 — |
non è roca la sua voce, ma pare che tutte le lacrime sieno sgorgate da quegli occhi e i singhiozzi abbiano sformato le linee della bocca gentile e che il vano grido del dolore, da nessuno raccolto, da nessuno consolato, abbia spezzato le corde di quella voce carezzevole. Così pare: così è. Ma Carolina Leoni ha chiuso, tutto questo, nel fondo del suo cuore e dei suoi nervi, nel pudore della sua implacata sofferenza: e si tiene riservata, rispettosa, innanzi a monsignor Filippo Morcaldi, che la sogguarda, coi suoi occhi vividi:
— ’Avete, donna Carolina, compiuto il «ritiro» presso le sorelle missionarie?
— Sì, monsignore: le sorelle, anzi, mi vollero consentire anche un’altra settimana, fra loro. E sono venuta per ringraziar voi, monsignore, con tutto il cuore, del beneficio concessomi.
— Ne avete avuto conforto, all’anima, figliuola mia? — chiede il sacerdote, tenendo Carolina sotto il suo sguardo acuto.
Ella abbassa gli occhi e non risponde.
— Poco conforto, è vero? O, forse, niente? — e la domanda è più serrata.
Ella fa uno sforzo, per vincersi: e, poi, d’un tratto, si confessa:
— Niente, monsignore.
— Ah! — egli esclama. E si fa pensoso.
— Il mio dolore è superiore a ogni consolazione — ella continua, precipitosamente, per dire tutto. — O, forse, non sono degna di consolazione.
— La vostra fede è molto fiacca, figliuola mia — e una severità crescente è nel volto e nella parola del vescovo.
— .... è vero, è vero!
— Voi amate più la vostra creatura, che il vostro Creatore.
— Ah Loreta, Loreta, Loreta! — prorompe, in un triplice grido, la madre disperata.
Poi si vergogna, arrossisce, impallidisce, dietro la sua nera veletta: e guarda con occhi supplichevoli il sacerdote, perchè le perdoni questo pec-