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quegli occhi sereni che, sembrava, lo guardassero e gli chiedessero, con bontà, qualche cosa.

— Sono aperti... sono aperti anche sotterra, questi occhi... — pronunciò, forte, alto.

Ma riconobbe, subito, la sua voce istessa, si sdegnò, fece un brusco moto di collera, di disprezzo, contro sè stesso. Chiuse con rapidità, il morbido taccuino, prese il portafogli, raccolse la targhetta e l’anello e mise tutto nella tasca della sua giacchetta: affrettò il passo verso il lato estremo dell’appartamento, ove abitava il vecchio avo.

— Dorme? — chiese a Genovieffa, che gli era venuta incontro.

— Sembra che dorma. Ma è sveglio. Vi aspetta — disse, piano, la governante.

Don Francesco Soria era disteso sovra una lunga sedia a sdraio, dalla spalliera diritta: il suo corpo scarno di quasi novantenne, pareva sotto gli scialli che lo avvolgevano, diventato quello di un gramo adolescente: la testa anche pareva rimpicciolita, sebbene egli avesse conservato la sua capigliatura candida: ma il naso si era fatto più adunco, più curvo, verso la bocca rincagnata sulle gengive senza denti, e il mento aguzzo era risalito: le sovracciglia si erano fatte ispide e ispida appariva la barba che cresceva ineguale, sulle guancie cadenti: nel largo colletto, il collo mostrava tutti i tendini, sotto la pelle rugosa: e le mani oscure, incrociate sullo scialle, aveano le dita sformate nei nodi delle ossa.

— Nonno, nonno! — chiamò il nepote.

Il vegliardo, subito, levò le palpebre appesantite, mosse la testa così rassomigliante a un magro uccello da rapina, e tentò sorridere, con la sua bocca senza labbra.

— Sei venuto, finalmente, Guiduccio — disse la voce rauca, un poco tremante, del vecchio. — Ora resti, è vero, stasera?

— Resto, nonno. — E gli toccò la mano nodosa e fredda, curvandosi quasi per baciarla.

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