Mors tua.../Terza giornata/II
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LA FINE DEL VIAGGIO.
II.
Annotta. A una a una si accendono le alte lampade elettriche, inondando di bianca luce gli enormi palazzi nuovi del Lungo Tevere Castello, al limitare dei Prati: qualche suono leggiero di campane della sera, ancora arriva, dal Borgo Pio, si sfiocca sui folti alberi che celano il marciapiede, si dilegua sulle correnti acque del fiume, contenute dall’alto e potente muraglione. Da un’ora, trapassano, rombando, rapide, le automobili, che riconducono nei palazzi e nei villini, i ricchi abitatori che rientrano ai pranzi succolenti; trapassano, tutti riboccanti di luce e gremiti di gente minuta, i trams, andando, venendo, deponendo piccola gente che rientra, a casa, stanca; ondeggia, andando, venendo, un fiotto di pedoni, che sono estenuati dalla loro pesante giornata di lavoro e si disperdono, da tutte le parti, cercando il loro cibo e il loro riposo. Ma, di già, questo movimento dei veicoli e di persone, si fa più scarso, più rado: il Lungo Tevere diventa sempre più solingo, sotto la smagliante luce elettrica, che colpisce in pieno le pietre delle case, mentre gli alberi e il marciapiede rimangono nella loro fitta penombra. Laggiù, dal ponte, sbuca una donna, una popolana e se ne viene, con passo rapido ed eguale, verso il Lungo Tevere: non ha cappello, ma nella sua bruna capigliatura, brilla qualche cosa: è vestita di scuro, con qualche biancore di lino, attorno al collo nudo: i suoi tacchetti alti battono sul selciato. Adesso, passando sotto una lampada elettrica, si scorge un viso bruno dalla espressione aggrondata, due occhi neri e fieri, sotto le sovracciglia un po’ troppo vicine, una bocca ancora fresca, ma chiusa e senza sorriso. Camminando, dondola la sua borsa di pelle: ha una sciarpa sul braccio: non guarda intorno, ma va diritta verso la sua meta. Di dietro un albero, dove si teneva in attesa, un uomo si distacca, si avanza, verso lei, con un passo affrettato, ma incerto: la chiama, due volte, con piccola voce, ma distintamente.
— Mariuccia, Mariuccia!
La donna trasalisce, si arretra di un passo, si ferma e, forse, nella penombra, la sua faccia bruna si decompone: dopo un istante, fa un gesto risoluto, come a scartare un ostacolo fastidioso, e cerca riprendere la sua via, senza guardare chi l’ha chiamata e ha voluto fermarla.
— Mariuccia, non mi riconosci? Sono Cesare... — e mentre le sue parole tremano sulle sue labbra, le sbarra il cammino.
La donna comprende che non può sfuggire a quell’incontro, leva le spalle in atto di fastidio, alza la testa, guarda l’uomo, e risponde, acerba:
— Ti riconosco. Sei Cesare. Che vuoi?
— Salutarti, Mariuccia... — ed è sempre trepida, la voce e lenta la parola: ma l’uomo taglia la strada alla donna.
— Ci siamo salutati. Buona sera, Cesare — e Mariuccia fa per andarsene, con un atto impetuoso.
— Abbiamo da parlare, Mariuccia — egli soggiunge, paziente, ma ostinato. — Dobbiamo dirci tante cose...
— Niente, Cesare, abbiamo da dirci — ella replica, frenandosi, mordendosi le labbra.
— Dimentichi che sono tuo marito, Mariuccia... — egli le dice, un po’ più forte.
— Una volta — e fa un gesto, come se tutto fosse piombato nel passato.
— Abbiamo dei figli, insieme, Mariuccia! — Cesare esclama, tutto dolorante.
— Ebbene? — ella chiede, sdegnosa.
— Ah Mariuccia, Mariuccia, ti sei scordata di Augustarello nostro! — e le lacrime pare che soffochino le parole del padre trafitto.
La donna abbassa un istante gli occhi: ma, subito, risponde, tranquilla:
— Oh quello è in Paradiso, sta meglio di noi...
— Ma Bettina, Bettina nostra si è perduta... era un angelo, Bettina... — si lamenta il povero padre.
— Se fosse stata angelo, non si perdeva — ribatte, amara, Mariuccia. — Del resto, vive come una signora.
— Mariuccia, Cecchino è in carcere!
— Meglio che vi sia andato piccolo, che grande: ora, si correggerà — è sempre acerba, la risposta.
— E Bicetta nostra? Così buona, così amorosa, Bicetta... E non ti ha vista più, non le scrivi nemmeno più!
— Quella non ha bisogno di me. Ha la sua mamma Tuta — conclude, sdegnosamente Mariuccia.
L’uomo china il volto, quasi fosse vinto: la donna lo sogguarda, comprimendo a stento la sua impazienza irosa.
— E noi due, Mariuccia, che eravamo marito e moglie? Che avevamo una casa, insieme? Persino i mobili, ti sei venduto! Il letto maritale, hai venduto!
Ella fa un cenno di disprezzo con le labbra, guarda con disprezzo il volto smorto, di suo marito e gli dice, duramente:
— Posso pagarteli, i tuoi mobili, e il letto, e le casseruole, anche, se ti serve questo denaro... Li cerco a Checco, i denari, e te li do, e la finiamo!
— Mariuccia! — egli grida, esasperato, infine.
La donna si scuote, un momento: diventa meno aspra: soggiunge, lentamente:
— Forse sei senza lavoro... forse puoi aver bisogno di denaro... La roba era tua...
— Sono senza lavoro — egli risponde, piano — ma non ho bisogno di denaro. Sono stato malato circa un anno... due volte, il tifo. E, allora, mi hanno dato una discreta somma... Ho ancora qualche lira... Non mi devi dar nulla. Non devi chieder nulla, a lui... niente di niente!
— Checco mi dà tutto quello che voglio — ella risponde, superba.
— Guadagna quello che vuole, Checco. E non abbiamo figli, grazie a Dio... E se volessi, potrei portare il cappello. Sono io, che non voglio. Minente sono e minente voglio restare — ed è superbissima, nella sua trivialità.
Oppresso, Cesare Pietrangeli, mormora:
— Io sono stato un buon marito, Mariuccia.
— È vero. Ma la guerra ti ha portato via.
— Non è colpa mia. Io ti ho voluto bene anche da lontano, anche in guerra, anche malato, Mariuccia...
E l’uomo la guarda con occhi appassionati e supplici: ella torce lo sguardo e non risponde.
— Anche tu, Mariuccia, mi hai voluto bene, tanti anni... — egli soggiunge, appassionatamente.
— Sì... — ella annuisce, riflettendo. — Poi, te ne sei andato in guerra...
— Non è colpa mia...
— ... e io mi sono messa con Checco — ella conclude, brutalmente.
— Avevi promesso... avevi giurato... ti ricordi?
— Mi ricordo, sì. Poi, ho mancato. Migliaia di donne hanno mancato e i mariti, non le hanno ritrovate più. Che vuoi? La donna è di carne...
— È di carne... — egli ripete, come una eco.
— E come si sono rassegnati gli altri mariti, ti rassegnerai tu pure. Non ti sei trovata un’amante, al fronte?
— Che dici, Mariuccia, che dici? — egli esclama, dolorante.
— Be’... te la troverai adesso...
Ma lo guarda, di nuovo, fisamente, e lo vede così invecchiato, così consunto, così esausto, che non prosegue. Egli non risponde alla frase cinica. Dice:
— Tu gli vuoi bene, a Checco?
— Gli voglio bene.
— Egli te ne vuole molto, del bene?
— Moltissimo. Ed è geloso assai, Checco: e anche manesco. Così...
— Che vuoi dire. Mariuccia?
— Che sono in ritardo, a casa: e che avrò una brutta scena, rientrando. Se si accorge di qualche cosa, piovono gli schiaffi...
— Io non ti ho mai battuta, Mariuccia — egli esclama, appassionato.
— Checco è un altro uomo — risponde, con orgoglio, Mariuccia. — E te ne prego, Cesare, non mi aspettare più, non mi fermare più.
— ...
— Tanto, ci siamo salutati: abbiamo parlato. Che dobbiamo dirci più? Niente.
— Niente... — Cesare ripete, a bassa voce.
— Contentami, eh, Cesare? Non ci venire, più, da queste parti. Checco può saperlo... E da te, proprio, non lo sopporterebbe.
— Oh da me! — egli protesta, amarissimamente.
— Ci conto, Cesare. Buona sera.
— Buona sera — egli risponde, inconsciente. Mariuccia, infine, riprende la sua strada, sui suoi tacchetti alti, che battono egualmente sul selciato: svolta, laggiù, in una delle traverse dei Prati e scompare. Cesare Pietrangeli la segue con lo sguardo: poi si ritrae sotto gli alberi, si va ad appoggiare al parapetto dell’alto muraglione, sotto il quale viene dalla campagna Flaminia, il Tevere e va, va, verso l’Urbe, per traversarla e, poi andarsene alla campagna e al mare. Fermo, Cesare Pietrangeli, guarda le acque fluenti senza vederle, ripete a sè stesso, prima confusamente e poi più precisamente, tutto il suo dialogo con sua moglie Mariuccia: e ne rivede il volto, nelle sue sempre malvagie espressioni, ne ode la voce, sempre acerba. Il tempo passa. È notte. Alcune parole, più salienti, di quel dialogo, si fissane nelle mente di Cesare. Non ne partiranno più. Adesso, egli si accorge di esser solo e fermo, a quel parapetto: si accorge del Tevere che viene dalla campagna e va alla città e al mare. Egli si ricorda, a un tratto che, laggiù, laggiù, in aperta campagna, dove la via Angelica sbocca verso ponte Milvio, la sponda del Tevere, terra e sabbia, è in un molle declivio, tanto che, monello, talvolta, egli scivolava in acqua, ridendo, risalendo subito, a terra, poco più lontano, perchè non ha mai saputo nuotare. Egli si avvia, passo passo, solo, nella notte, verso quel molle declivio, donde così bene ci si lascia andare nel fiume.
Non è più verso un assente, verso un lontano, che Guido Soria tende le braccia, chiamando con ansia segreta: Costantini, Costantini! Colui che gli fu accanto, per lunga pezza, in guerra, e divise, con lui, i pericoli, le insidie e ogni privazione e ogni stento, il caporale Costantini, venuto dalla Marca di Ancona, colui che servì Guido Soria con zelo e con fedeltà, dandogli prova di un umile attaccamento, è giunto al suo urgente e misterioso richiamo: ed è nelle sue braccia. Come a un amico, come a un fratello, vedendolo apparire, Guido è corso a lui, gli ha buttato le braccia al collo, e Giacomo Costantini è impacciato, ma sorridente, ma ridente e seguita a dire:
— Signor tenente, che onore.... che piacere, signor tenente....
— Sei qui, infine, Costantini....
E Guido si stacca da lui e lo squadra, nel grosso volto sano e rubizzo, nella persona massiccia, atticciata, pulitamente vestita, con una bianca camicia di bucato.
— E stai bene, anche, mio Costantini, molto bene, veggo! — gli sorride amicalmente.
— Anche lei, mio signor tenente, sta bene.
— Eh no, no, io non sto bene, amico mio — risponde, improvvisamente mutato di aspetto e di voce, Guido Soria.
— Ma che ha, signor tenente? È stato malato? È convalescente? Un po’ smagritello, certo.... Ancora stanco, è vero?
Costantini sogguarda colui a cui gli piace seguitare a dare il titolo di tenente, e questo titolo militare gli riempe la bocca, pronunziandolo. Non solo gli sembra dimagrito, il suo tenente, che era stato così bello e florido e lieto, in guerra, ma gli appare invecchiato e triste.
— I miei nervi soffrono, Costantini.... — mormora Soria, sedendosi e facendo cenno di sedere all’altro.
— Eh si sa, si sa, signor tenente! Quattro anni di guerra, contano, contano assai! E tanti giovini, come lei, creda, sono ammalazzati e stanchissimi, e non arrivano a tirarsi su, di nuovo: pare quasi che ne abbiano fatto dieci di anni, di guerra!
— Ma tu, Costantini, stai benone!
— Oh io, signor tenente, sono così rozzo, tagliato con l’accetta, non ho nervi, io! Ma lei, un signore vero, si spiega che lei patisca ancora, di tutte quelle maledette cose della guerra.
— Io non patisco che di una sola, orrida cosa — risponde, impetuosamente, Guido Soria.
Ma si contiene e soggiunse:
— A te non piaceva la guerra e avevi ragione: io ne ero pazzo e avevo torto.
— Lei non poteva, non può aver torto, mio signor tenente — protesta, Costantini. — Poveraccio come ero, avendo a casa la madre vecchia e la moglie giovane, e Rosetta, Rosettina, la mia figliuolina, io mi struggevo, dentro, per la guerra, perchè i miei hanno sofferto la fame, e lo sapevo, e non potevo far nulla per loro.... Ho detto mai nulla? Mi struggevo, ecco! Non mi sono battuto, forse, perchè si doveva fare? Sempre pensavo alla mia Rosettina, ma mi sono battuto.
— Benissimo, ti sei battuto, Costantini! — risponde, alterato, Guido Soria.
— E lei, e lei, signor tenente? Due medaglie è vero: ma una sola gliene dovean dare, quella di oro.
— Ho invano cercato la morte, in quella infame guerra — dice Guido Soria, spalancando in viso, a Costantini, due occhi allucinati.
— Signor tenente!
— Se fossi morto, Costantini, tu mi avresti pietosamente sepellito, è vero? Come quell’altro? Se ha sepoltura, quell’altro, si deve alla tua carità... Tu eri caritatevole e io spietato!
Giacomo Costantini ascolta, guarda, stupito. Guido Soria, e comincia a intendere, sgomento, quale sia il male da cui è divorato il suo tenente.
— Lo sepellisti, sì; ma non arrivasti a chiudere i suoi poveri occhi chiari, aperti... — vaneggia, parlando con una voce sommessa, Guido Soria. — Avrebbero voluto ancora guardare lo spettacolo del mondo, quegli occhi così giovini....
Ascolta, Costantini e il suo buon viso colorito, s’impallidisce.
— Vuoi rivedere, Costantini, quegli occhi? — dice, anche più sommessamente, Soria, guardandosi attorno. — Li ho, qui....
Cresce lo sgomento del bravo marchigiano, mentre Guido Soria, con una chiavetta sospesa alla catenella del suo orologio, schiude un cassetto della sua scrivania e ne prende quello che, in un giorno lontano, egli chiamò il suo trofeo di guerra. È il taccuino di raso azzurro cupo ricamato a fili di argento, ove sono inserite le due miniature, quella del luogotenente austriaco Hans Flugy e della sua bionda e rosea fidanzata Lotti Rabitsch: il portafogli di pelle bruna, ove erano conservate le due ultime lettere, una di Lotti, la dolce e tenera Lotti, e una della madre del luogotenente, Yetta Flugy, che congedandosi baciava gli occhi del suo figliuolo: il largo anello di oro, l’anello di promessa, con le parole in italiano: Amor nel cor: e, infine, il libretto militare e la targhetta, nome, cognome, filiazione, età, paese, reggimento: bottino di guerra! Soria spinge questi oggetti verso Costantini, perchè li guardi, perchè li osservi: e il marchigiano fissa il viso sereno, innocente, e gli occhi traspiranti ingenua bontà, dell’ufficiale austriaco.
— È lui, non è vero, Costantini?
— È lui, sì, signor tenente — risponde l’altro, sempre preso da quel ritratto.
— Quegli occhi, Costantini, non ti pare che guardino... che guardino... che parlino? — e Guido Soria si affanna nel respiro e scuote il capo, e le due mani, persino, si agitano.
— Sì... sono parlanti — conviene, piano, il caporale, soggiogato da quella immagine.
— È a me, a me, che parlano, amico, quegli occhi, a me che l’ho ucciso! — grida, trambasciato, Guido Soria.
— Signor tenente, si calmi, si calmi!
Ma Guido Soria non ascolta, non si calma; la sua ambascia, adesso, innanzi a quell’unico memore testimonio, esplode, si dilata, invade tutto.
— Costantini, io non lo so, che dicono, quegli occhi, ma ho paura, ho vergogna, ho rimorso, ho dolore, innanzi ad essi!
— Non li guardi, tenente!
— Li veggo, anche se non li guardo. Mi seguono, dove vado... mi appariscono, ovunque... E sono così dolci, Costantini... sono così teneri...
— Doveva essere un buon ragazzo, quell’austriaco... diverso dagli altri... ve ne era, certo, qualcuno buono... chi sa... — borbotta, sconvolto, il marchigiano.
— Un fanciullo, un fanciullo ignaro di male... E io l’ho ucciso, così, barbaramente...
— Era la guerra, signor tenente!
— Parola stupida e crudele... Io l’ho ucciso...
— Era un nemico...
— Era un uomo, come me: e aveva diritto di vivere la sua vita: e io, ferocemente, gliel’ho tolta!
Costantini non sa più cosa opporre allo strazio segreto di quella coscienza, che si è, adesso, fatto palese, innanzi a lui. Egli tace, guardando spaurito il suo tenente, che è molto più malato nell’animo che nel corpo: e il brav’uomo curva la testa, innanzi a quella crisi terribile. Guido Soria si leva dal suo posto, si avvicina a Costantini, gli mette le due mani sulle spalle, lo fissa intensamente negli occhi e con voce sorda, gli dice:
— Costantini, tu che sei stato sempre buono, in guerra, tu che ti sei tolto il pane di bocca, per darlo ai prigionieri, tu che hai dato sepoltura a Hans Flugy, e hai messo sulla sua fossa la croce di Cristo, dimmi, che cosa dicono gli occhi di quel morto?
— Ma io non lo so.... io non posso saperlo.... io sono un ignorante....
— Non lo sa la tua mente, ma lo indovina il tuo cuore.... Tu sei stato pietoso.... Tu puoi leggere in quegli occhi.... Guardali, guardali!
— Ma che vuole mai da me, signor tenente? Io mi confondo.... io perdo la testa!
— Per amor mio, se mi hai voluto bene, Costantini, guarda, guarda, indovina, leggi!
E con una mano di ferro curva, novellamente, la testa del buon marchigiano, sulla delicata miniatura, ove è l’immagine giovanile e innocente di colui che fu ucciso. Aggiogato, soggiogato, Giacomo Costantini veramente scruta in quegli occhi e con tutte le sue semplici forze spirituali, cerca d’indovinare che cosa mai possano esprimere: dopo due o tre minuti di esame, si solleva e dice, come in sogno:
— Mi pare....
— Che ti pare?
— Mi pare che dicano, a lei, signor tenente: «Che ti avevo fatto?» E che soggiungano: «Io non ti avevo fatto niente».
Un alto grido sgorga dal petto di Guido Soria, innanzi a questa rivelazione:
— È questo, è questo, che dicono! Che mi aveva fatto? Egli non mi aveva fatto niente! Niente... niente... niente...
E cade col capo convulso sulla scrivania, e piange, e singhiozza su quel ritratto di ucciso: Giacomo Costantini cerca di sollevarlo, lo prende fra le braccia, gli asciuga le lacrime, con un grosso fazzoletto bianco, di cotone. Fra i più lenti singhiozzi, a occhi socchiusi, Guido Soria ripete, con una strana voce, che non pare la sua:
— «Che ti avevo fatto? Io non ti avevo fatto niente...»
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Preoccupata, Carmela Soria, non risponde più a Giacomo Costantini, dopo la breve perorazione che egli ha fatta, un po’ impacciato nelle parole e nelle frasi, nascondendo appena una certa ansia. Rispettoso, il marchigiano rigira nelle mani il suo cappello moscio.
— Voi credete — rompe il suo silenzio, la piccola madre — che questo viaggio possa far bene a mio figlio Guido?
— Signora, i viaggi fanno sempre bene ai malati di nervi... Il mio caro tenente è sofferente...
— Sempre più sofferente... — osserva, pensosa, la madre.
— Non solo lui, signora, tanti, tanti altri! Chi si è salvato dalla morte, chi non è stato ferito o malato di tifo, è malato di nervi... Alcuni malatissimi... Se sapesse, signora cara...
— Che volete dire, Costantini? — ella balbetta, tremante.
— Nulla, nulla, non si allarmi, non è il caso... Il mio tenente è vigoroso, risanerà... Lo lasci partire...
— Ma perchè poi, io dico, andare nell’antica zona di guerra? Perchè andare dove ha patito, dove ha preso il suo malore?
— Forse, è il solo modo di guarire. Più di un medico lo ha detto: e me lo hanno riferito. E, poi, il tenente lo desidera tanto...
— E perchè mai, Costantini, egli lo desidera tanto? — chiede, preoccupatissima, la piccola madre.
— È così, signora: un forte desiderio: forse un capriccio: ma un capriccio che si deve soddisfare...
— Io, solo, lassù, non lo mando... — soggiunge Carmela Soria. — Non sta bene: non sta niente bene. Come viaggerà, solo? Non posso andare, io, con lui?
— Oh no! Non è cosa per lei, signora Soria! — e un sorriso stentato, è sulla bocca del brav’uomo.
— Ma solo, no, solo no!
— Vado io, se permette, con lui.
— Voi, Costantini?
— Io, sì, sì...
— Mio buon Costantini — dice, commossa, la piccola madre. — Ma voi avrete al paese vostro, a casa vostra, del lavoro da fare, degli obblighi...
— È vero, ma per il mio tenente, posso lasciare, per un po’, la fatica e la famiglia.
— Già siete lontano da una settimana, mi pare...
— Sì: ma ero stato chiamato con tanta urgenza, dal tenente... E, poi, signora, perchè mi ha mandato tanto denaro? Neanche la metà, era necessaria!
— Ma voi di che vi occupate, a Corinaldo?
— Abbiamo un’antica merceria, del mio papà che è morto e della mia vecchia mamma, che è ancor viva: e ci siamo dentro, mia moglie ed io, e ne viviamo, tutti...
— Avete figliuoli?
— Certo. Due: la mia Rosetta che ha nove anni, adesso; e un maschietto, di tre anni, che mi è nato durante la guerra.
— E siete contento del vostro stato, Costantini?
— Eh sì, sono contento... È un piccolo stato... ma basta a noi tutti... Siamo così facilmente contenti, signora...
— E la merceria può andare avanti, senza voi?
— Certissimo! Ghita, mia moglie, è brava assai, lavora volentieri, è capace... Ha sofferto zitta, zitta, poverina, durante la guerra...
— E vi ha lasciato venir via, ora, senza lagnarsi?
— Lagnarsi? Se sono stato chiamato dal mio tenente? Ma Ghita lo ama, quanto me, il tenente! La sua fotografia è sul canterano, vicino alla statuetta della Madonna...
— Costantini, io lo lascio andare, con voi, il mio Guido — conclude, sospirando, la piccola madre. — Se è per la sua salute... Me lo custodirete bene, è vero?
— Non dubiti, signora. Io lo riporto, qui, guarito, guaritissimo.
— Starete molto?
— Non so... non so bene... vedrà il tenente — è la vaga risposta.
— Dove andate?
— Là... dove fummo in trincea... — è sempre più vaga la risposta.
— Siete stati in varii posti, in trincea...
— Sì. Dove vorrà andare il tenente — e non soggiunge altro.
Ancora, congedando Giacomo Costantini, Carmela Soria gli raccomanda suo figlio, Guido: ancora il marchigiano risponde che lo riporterà a casa guarito. Ma, quando è solo, Costantini crolla il capo, malinconicamente. La settimana che egli ha trascorsa, in Roma, accanto al suo antico ufficiale, lo ha profondamente turbato: e non gli riesce di vincere la sua agitazione, poichè egli assiste, ogni volta, al triste disordine dello spirito di Guido Soria, ora in preda a una pesante tristezza, ora in un eccitamento volubile, ora in un languore morboso. Col suo grosso buon senso e con la sua sensibilità primitiva, Giacomo Costantini tenta combattere, volta a volta, tutte queste espressioni di un cocente tormento d’anima: e, forse, vi arriva, in qualche momento, con un breve miracolo, che compie il suo affetto: ma, più spesso, non è che un muto e pietoso testimone di quella crisi morale, in cui pare che naufraghi l’anima di Guido Soria. È una doppia malattia, forse, quella, cioè un urto nervoso che ha squilibrato quei nervi giovanili e un ribrezzo spirituale dell’atto commesso, in un istante di furore bellico, di furore sanguinario? Non sa dirselo, quel buon diavolaccio di Giacomo Costantini: egli vede che il male è potente, che questo male vibra e palpita in ogni moto di Guido Soria: e che la sua presenza lo ha fatto tutto riversare nelle parole e nei gesti. Accanto al suo tenente, egli almanacca quale mirabile rimedio possa ridare la pace a quella coscienza trafitta dal rimorso, ridare l’equilibrio a quell’organismo, uscito dai suoi cardini naturali. E un giorno, a un tratto, egli ha avuto un senso di viva repulsione: Guido Soria gli ha detto che vuole andare all’antico fronte, all’antica trincea, di estrema avanguardia, a ritrovare il piccolo cimitero di Valdivia, ove è sepolto, da due anni, il luogotenente austriaco Hans Flugy. Repulsione di creatura buona e onesta: ma il suo tenente ha così insistito, ora esclamando, ora supplicando, ha avuto, negli occhi, una espressione così delirante di desiderio, ha tante volte ripetuto che solo quella visita potrebbe salvarlo, che Giacomo Costantini ha superato il suo ribrezzo e ha acconsentito a questo singolare viaggio.
— Senza di te, non vado, Costantini: e se non vado, che ne sarà, di me?
— Vengo, vengo con lei....
— Tu solo sai dove è....
— Sì.
— Tu solo ti rammenti la strada; tu solo puoi condurmi.
— Sì.
— Tu devi convincere mia madre.... Non sa nulla. Ma mi lascerà andare.
— Lo farò, signor tenente.
— Credi, che il ritornare, colà, mi ridarà la pace...?
— Lo credo.
— Un sol giorno, una sola ora, un sol minuto... mi basterà.
E, da capo:
— Tu sai, è vero, dove è? Tu ti ricordi la via?
— Sì.
Questo dialogo penoso, cruccioso, si è ripetuto, per tre o quattro giorni: dialogo in cui Giacomo Costantini ha risposto come un automa, incapace di contraddire il suo tenente, che egli vede in preda a un freddo delirio, un delirio senza febbre. Ma quando è solo, la sera, Costantini, nella stanza dell’alberguccio ove è alloggiato, presso la stazione, egli si mette a pensare, a riflettere, a ricordare, Valdivia. Valdivia! Era terra austriaca, era un paesello austriaco, ma era ruinato e la chiesa di santa Margherita era diruta e il cimiteretto, dietro la chiesa, aperto a tutti, un lembo di terra, con qualche croce; e adesso, adesso, che sarà accaduto, colà? Vi saranno le traccie del villaggio, della chiesetta, del piccolo camposanto? Vi avranno ricostruite le case, nella primavera, nell’estate? Valdivia! Per dove ci si arriva, adesso, che tutto è mutato, col treno, fin dove, con l’automobile, con la vettura? Non ci prende sonno, Costantini, a questi dubbii: e non si riconosce più, perchè si sente già incerto, nervoso, come il suo tenente, lui, così sano e così pacifico, nella sua dimessa vita. Qualche sera, prima di rientrare, ha passato un’oretta in una osteria di un anconetano, in via Volturno, a berci sopra un buon bicchier di vino, per potersi addormire presto, rientrando alla locanda. Non fu mai nemico del vino, Giacomo Costantini.
Adesso, prima di partire, con un’attenzione tenace, Guido Soria studia l’itinerario del suo singolare viaggio: e si consulta, ogni tanto, col suo antico caporale, tanta è la incertezza: vi è un estremo punto di arrivo, col treno, ma è ancor lontano dalla meta, che è oltre la vecchia frontiera, e il nome di Valdivia non è in nessuna carta geografica, in nessuna guida, nè, italiana, nè di prima, tedesca. E cresce, in lui, un sospetto triste che quanto era il paesaggio di guerra, quello in cui egli ha vissuto, tanto tempo, e in cui l’ira felina ha reso omicida la sua mano, paesaggio mutato dagli eventi, dagli elementi, dalla mano dell’uomo, sia diventato irriconoscibile... Ha udito, da qualche suo compagno di armi, che è stato all’antico fronte, che ne è tornato, questa impressione curiosa e dolorosa, il non ritrovare, il non riconoscere, stupirsi, rammaricarsi, tornare indietro, deluso...
— Troveremo Valdivia, Costantini? — egli domanda, talvolta, uscendo dal suo lungo silenzio, nel treno che va, che va, verso la meta nota e adesso ignota, meta che era reale e che forse, ora, non esiste più.
— Speriamo, speriamo, signor tenente!
Non voleva viaggiare, Costantini, in prima classe, col suo ufficiale: voleva andare in terza classe, dove è sempre andato, per non esservene una quarta, egli soggiunge, scherzando: ma Guido Soria lo ha costretto, prima con breve parola, poi con uno sguardo quasi supplice, a tenergli compagnia. Le ore del treno sono molto lunghe: Soria tace, fuma guarda dal cristallo dello sportello, la campagna che fugge, avendo dirimpetto Costantini, che non apre bocca, se non è interrogato, che è molto imbarazzato, in quella prima classe, che non osa fumare, che sonnecchia e, poi, si scuote, vergognoso di essersi addormentato.
— Vi sarà, ancora, il piccolo cimitero? Era molto piccolo: potrà essere sparito, coi suoi morti, Costantini. Dimmi, ti ricordi, era molto piccolo?
— Eh sì, sì, era molto piccolo...
— Mi dicesti... allora, mi dicesti, che vi erano sepolti altri morti, dei nostri?
— Sì, varii...
— Quanti, quanti? Quante croci?
— Otto o dieci, mi pare...
— Le nuove? Quelle militari? Poichè vi dovevano essere le croci vecchie, dei paesani di Valdivia...
— Non ho badato — risponde Costantini, avvilito dalle funebri domande.
— Molto piccolo, il cimitero — mormora Guido Soria, senza badare all’altro. — Può essere scomparso.
Va, va, il treno, sale in collina, traversa le rocce traforate, si eleva, tutto cangia, intorno, altri volti, altra parlata, nelle stazioni. Soria di nulla si accorge, sommerso nella sua vita interiore.
— Come hai scritto, sulla croce? — chiede, improvvisamente, a Costantini.
Costui si scuote, si smarrisce, un momento.
— Volevo sapere quello che hai scritto, sulla croce — replica, ostinato, Guido.
— Quello che lei mi ha dato, sovra una carta. Ho copiato parola per parola.
— Sovra una targhetta di legno? Era solida? Hai scritto con un inchiostro indelebile?
— Era solida e ho scritto con un inchiostro indelebile.
— Bene attaccata alla croce?
— Con doppio fil di ferro.
— Ah!
In un’alba autunnale, già un po’ fredda, il treno sta per giungere all’ultimo suo limite ferroviario. Guido Soria è pallidissimo, perchè non ha chiuso occhio, tutta la notte, sul cuscino da viaggio, sotto il suo plaid: ma i suoi occhi sono vivaci e guardano, fuori, impazienti. Lentamente, il marchigiano si sveglia da un sonno pieno, in cui ha dormito, tutta la notte, anche russando un poco.
— Troveremo, troveremo Valdivia? — è, ancora, l’assillante inchiesta di Guido Soria.
Costantini riflette, un istante:
— Avremmo dovuto condurre con noi Franceschi.
Soria trasalisce, si arretra come se avesse visto uno spettro ed esclama, fra la paura e il disgusto:
— Franceschi, no... Franceschi, mai... è un complice, capisci? Mi ha detto, quel giorno, di guardarmi... mi ha gridato di sparare... mi ha dato il fucile...
— Era un soldato, Franceschi: e, l’altro, era un nemico... — dice, piano, Costantini. — E questa era la guerra...
— Che mi aveva fatto, l’altro? Niente, mi aveva fatto. E Franceschi mi ha ingannato, mi ha spinto al delitto...
Eccitatissimo, Guido Soria; per fortuna, sono restati soli, nel treno in arrivo.
— Franceschi era sanguinario: e tu eri buono, Costantini. Dio ti premierà della tua bontà...
Mai, da che lo conosce, Giacomo Costantini, ha udito nominar Dio, da Guido Soria.
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Il calessino trabalza sulle pietre della via, scende nei solchi scavati dai carri nel fango disseccato, e, ogni tanto, i due viaggiatori sono urtati, un contro l’altro. Il giovanotto che conduce il cavalluccio magro, ma muscoloso e vispo, ha alzato il bavero del suo mantello e ha il berretto abbassato sugli occhi. Discesi dall’automobile all’ultimo paese della Valsugana, non hanno trovato altro mezzo di trasporto, per andare ai campi di battaglia, intorno a Strigno, che questo calessino stretto e incomodo: ma il cavalluccio cammina bene e, pare che il giovanotto conosca la via. Il nome di Valdivia nulla gli ha detto: e in cambio, egli ne ha pronunciato un altro: ma, parlando, ha fatto comprendere che sapeva dove andare. Si trotta da più di un’ora: e i due, guardando, continuamente, innanzi, intorno, spingendo lo sguardo all’orizzonte, non riconoscono una sola linea del paesaggio che attraversano. La campagna conserva tutte le tracce del flagello di ferro, di fuoco e di sangue che l’ha bruciata, isterilita sino al profondo: e se una nuova, spontanea vegetazione, qua e là, riveste di verde le zolle, la terra rimane nera, tutta detriti di metalli, di carbone spento, di cenere: e se su qualche albero scapitozzato, un ramicello fresco è cresciuto, i grandi rami sono brulli e contorti. Ogni tanto, qualche grosso, informe mucchio di pietre appare: appare un muretto sbocconcellato: appare un tetto sfondato sovra qualche muro cadente: nessun campanile all’orizzonte. I due uomini, ogni tanto, scambiano una triste occhiata, senza parole: e si rimettono a scrutare, intorno, per raccapezzarsi, per rifare nella loro memoria e nella presente realtà, il posto dove vissero tanto tempo della loro vita di guerra, dove patirono tanti disagi e dove il tedio tinse di bigio le loro anime intorpidite. Interrogano, adesso, molto spesso, il cocchiere: egli crolla il capo, fa schioccare la frusta e fa camminare più presto il suo cavalluccio. La delusione dei due uomini è sconfortante. Perchè sono venuti, quassù, così da lontano, con una così folle speranza? Dove si trovano? Dove vanno? Dove è un indizio, una pista, un sentiero?
— Ah se ci fosse Franceschi! — gli scappa detto, di nuovo, a Giacomo Costantini.
— Taci, taci... — è la sorda risposta di Guido Soria.
Ma come se il nome del fiero soldato avesse, a un tratto, fatto diradare, miracolosamente, il velo fitto che era, intorno, a un tratto, la mano di Guido Soria stringe rudemente, come se fosse ferro, il braccio di Costantini: egli dice, violentemente:
— Ecco, ecco, ecco!
— Dove? Dove?
È a sinistra. Si accorgono di essere esciti dal fondo della valle e di ascendere verso un’altura, non devastata, non brulla, un’altura che si fa collina, e le sue prode sono erbose, e più lontano è qualche macchia di verde, sfumata, forse il primo gruppo di alberi di un boschetto o di una boscaglia.
— Sono là, sono là dietro, le nostre trincee... — fiochissime parole di Guido Soria, che si è rigettato indietro, nel calessino, come abbattuto da quello spettacolo.
Giacomo Costantini è in piedi, volto verso la collina a cui si dirige, per il sentiero piuttosto ripido, con passo più lento, il cavalluccio. Egli fa solecchio, con la mano; poi si rimette a sedere.
— Sì, lassù, sono le nostre antiche trincee. Che si fa, signor tenente?
— Andiamo alla nostra vecchia tana?
— Scendiamo dal calesse e andiamo verso Valdivia? Dica, signor tenente...
— Non so... non so nulla — è la risposta debole e scolorita dell’altro.
Costantini sogguarda Guido Soria: non lo ha mai visto così affranto, testa china, spalle curve, braccia e mani prosciolte. Il marchigiano leva gli occhi al cielo, sospira:
— Non si sente bene, tenente? Vuol fermare il calesse? Vuol discendere, un poco? Far due passi?
— Scendiamo pure.
E si leva, un po’ incerto, scende, Guido Soria, un po’ vacillante, quasi cadente addosso a Costantini, che è lì davanti, per sostenerlo. Fanno due o tre passi, insieme: è lì presso un tronco di albero, abbattuto e abbruciacchiato. Guido Soria vi si lascia cadere. Giacomo Costantini è innanzi a lui, zitto, aspettando, paziente, celando la sua inquietudine che è, addesso, grandissima.
— Il viaggio ha stancato i suoi nervi? L’abbiamo fatto con tanta furia... Ecco che lei soffre...
— Io sono un vile — dichiara, improvvisamente, l’altro, levando il capo.
— Signor tenente!
— Sono un vile, non vi è altro da dire — replica Soria.
— Signor tenente, lei fa disperare il suo povero Costantini! Mi consideri... mi compatisca... Io non so che cosa dirle... — e una sincera angoscia preme il brav’uomo.
Guido Soria non gli risponde. Adesso guarda il paesaggio silente, talvolta attraversato da un soffio di vento autunnale. Tende la mano, a indicare:
— Là, là, in alto, in fondo, a sinistra, i tre alberi, ti rammenti, Costantini? I tre alberi nostri, dietro ai quali noi spiavamo il nemico? I tre alberi, donde, sotto le pietre, scaturiva la piccola sorgente?
Adesso, parla forte, concitato. Si alza in piedi, quasi si dirige dove indica.
— Andiamoci, andiamoci... — dice Costantini, un po’ rincorato.
— È ad uno di questi tre alberi, che egli è stato poggiato: aveva la testa alta contro il tronco, la mano aperta sull’erba: e l’anello, al dito... Come era pesante, quella mano... e rigido, quel dito! Ma io ho avuto l’anello...
Parla come allucinato, in una lugubre allucinazione. Ed è più che pallido, è esangue, come se tutto il suo sangue fosse corso al cuore. Il suo compagno frena a stento le lacrime: gli sembra, anche lui, di vivere in un sogno pauroso, lui, l’onesto merciaio di Corinaldo, in quella campagna deserta, solo, con quel suo antico ufficiale, che è malato, che è malato di non si sa quale malattia, che dice e fa cose paurose... Poco distante, sulla serpa del calessino, il giovane cocchiere sonnecchia e il cavalluccio bruca l’erba ancora fresca.
— Vogliamo andar via, signor tenente? Tornare a casa?
— Conducimi al cimitero — comanda, nettamente, Soria, con un occhiata cattiva.
— Non le farà male? Ha la forza di andarvi? — è la timida osservazione dell’altro.
— Non sono un vile, Costantini — dice Soria, a denti stretti.
Costantini si sente preso da una vertigine. La sua semplice mente non resiste a quella sconcertante altalena di pensieri, di parole e di gesti, per cui sobbalza in aria e precipita a terra, lo spirito di Guido Soria. È già pentito di aver assunto quel così difficile incarico di Carmela Soria, accompagnare il figliuolo in questo periglioso viaggio, di cui la buona e ingenua madre non conosce il truce segreto. Perchè non è, Costantini, a casa sua, nella sua merceria, a vendere quaderni di scuola ai bambini, filo da rammendare alle donne e cromatina per le scarpe, agli uomini? Che ci fa, qui, in questa solitudine, in questo gran silenzio, accanto a un uomo che è in preda a un’esaltazione spaventosa?
— Costantini, andiamo a cercare la fossa del luogotenente Hans Flugy, che io ho giustamente ucciso, usando del mio diritto, perchè eravamo in guerra, ed egli era mio nemico — proclama, forte, Soria.
Il compagno è novellamente scosso, sino al profondo. Ma ciò che dice il suo ufficiale è così rispondente al pensiero del caporale, che, d’un tratto, costui riprende coraggio e si avvia. Camminano, in silenzio: tutta la topografia si rifà, nella mente di Costantini: egli svolta per il piccolo sentiero, una scorciatoia, poi riprende la strada maestra: l’altro gli va accanto, con passo eguale, come a una passeggiata igienica. Sembra, adesso, dominato dalla indifferenza. Anzi, a un certo momento, accende una sigaretta, con atti consueti. Hanno camminato una ventina di minuti: e si delinea, in fondo all’orizzonte, il piccolo campanile della chiesetta di Valdivia.
— Ci siamo, signor tenente....
— Avanza un poco, Costantini: io ti seguo, più piano. Quando hai trovato il cimitero e la tomba, torna indietro, a dirmelo — e tutto è tranquillo, nelle parole e nel tono. Guido Soria pare penetrato di una gelida indifferenza.
È a un duecento passi dalla chiesetta, dedicata a santa Margherita da Cortona, che Guido Soria è fermo, aspettando il ritorno di Costantini. La chiesetta è tutta scalcinata, nella sua rustica facciata; una parte del tetto è sfondata, manca un battente alla grezza porta: ma essa è in piedi. E se pure le mura del campaniletto hanno dei buchi e delle breccie, esso è ancora ritto, nella chiara luce mattinale, sotto un cielo azzurrino. Aspetta, Soria: Costantini tarda. Accende una seconda sigaretta: ma non è giunto a far due boccate, che vede spuntare qualcuno da dietro la chiesetta, e dirigersi verso lui. Istintivamente, gitta la sigaretta, fa qualche passo indietro. Interroga, con gli occhi, colui che è andato a ritrovare il cimiteretto e la fossa dell’austriaco:
— Che pietà, signor tenente... Non può immaginare... una pietà grande... Debbono avere sparato, sul camposanto, e tutta la terra è smossa, è scavata, è ammucchiata, e si vedono frammenti di croci... pietre ed erbacce... Già, il villaggio non esiste più e non si celebra, in chiesà... Nessuno deve essere più tornato, da queste parti...
— Allora, andiamocene — dice Soria, voltando le spalle.
— La fossa del luogotenente austriaco è intatta. La sola intatta — dice Costantini.
— Ah! — e questa interiezione è, improvvisamente, un gemito, un lamento, un singhiozzo.
E, senza altro, con andare precipitoso Guido Soria fa i dugento passi che lo separano dalla chiesetta, vi gira dietro, seguito da Costantini, che è tutto tremante di emozione.
— Dove, dove, Costantini?
Costui attraversa quel campicello dei morti, tutto devastato dalla mitraglia che, meglio guardando, è ancora mescolata alla terra, coi suoi detriti: non vi è più segno di fosse: e una o due croci, ancora, pendono, scardinate, qua e là, mentre altre sono abbattute e in pezzi, fra i solchi, fra i mucchi di terra e di pietre. Soria segue l’altro, a occhi bassi; l’altro, adesso, si è fermato, in un angolo estremo del cimiteretto distrutto. Colà, la fossa di Hans Flugy ha conservato il suo grossolano disegno di terra: e vi è cresciuta l’erba, in primavera e, adesso, l’erba v’ingiallisce sovra, per l’autunno. La croce è ritta, in cima alla fossa, rimasta al suo posto, con la sua targhetta attaccata col fil di ferro, al punto dove i due bracci della croce s’incontrano. La pietà pel morto del caporale Giacomo Costantini ha avuto il suo compenso, L’austriaco, il nemico, in nome della fraternità umana, della carità umana, dorme, lì sotto, il suo ultimo sonno, col segno di Cristo sulla zolla che lo ricovre. E senza dire una parola, Guido Soria crolla, di tutta la sua persona, su quella fossa e vi resta tramortito.
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Bussa alla porta Costantini, con dita leggiere: teme di svegliare Guido Soria, che ha passata la notte nella stanzuccia del lindo albergo di Bassano, dopo un viaggio lento, penoso, nel più denso silenzio. Ma, entrando, si avvede subito, che il suo tenente non ha toccato il letto: pure il giovine è in piedi, in mezzo alla stanza, ha l’occhio limpido, i lineamenti composti.
— Buongiorno, Costantini. Hai preso il tuo caffè?
— Grazie: l’ho preso — risponde l’altro, un po’ meravigliato.
— Siedi, amico mio. Ti debbo parlare. È tempo che ci separiamo. Ti ho trattenuto e tu hai la tua casa e il tuo lavoro che ti aspettano. So quello che ti debbo. La vita ti debbo, Costantini: poichè se fossi stato solo, l’altro giorno, a Valdivia, sarei morto sulla fossa di Hans Flugy. Tu mi hai salvato. Io voglio abbracciarti e baciarti, come il mio salvatore.
E abbraccia e bacia lo stupefatto suo compagno.
— Credilo, non dimenticherò mai il tuo affetto e il tuo sacrificio. Farò per te quello che mi chiederai: e se nulla mi chiedi, penserò io alla tua miglior sorte. Ma, ora, Costantini, dobbiamo separarci.
— A Roma, ci separeremo, mio signor tenente.
— No, qui.
— Io debbo riaccompagnarla a Roma.
— Andrai tu, a Roma e poi a casa tua. Io, no.
— Ho promesso di ricondurla a sua madre.
— Non mi ricondurrai. Mancherai alla tua promessa.
— Signor tenente!
— Questa è la mia volontà.
— Ma che vuol fare, che vuol fare, lei?
— Fare un viaggio, un lungo viaggio.
— Un lungo viaggio? E dove?
— È inutile il dirtelo, amico mio.
— Signor tenente, se ho meritato da lei qualche cosa, se crede che io debba avere un compenso, la prego tanto, non mi lasci all’oscuro di quello che ella vuol fare... Io le voglio bene, lei lo sa, lo sa!
— Hai ragione, Costantini. Ascolta, dunque. Io mi parto di qui e vado in Austria. Vado nel paese di Hans Flugy, a cercare della sua casa e dei suoi genitori. Ho, qui, se non lo sai, tutte le notizie. Se non vi sono più, i suoi vecchi, li cercherò altrove. Debbo entrare nella casa che abitano, salutarli, sedermi e dir loro qualche cosa, che debbono conoscere. Quando li avrò trovati e mi avranno udito, e mi avranno risposto, mi accommiaterò da loro e cercherò ove sia la fidanzata di Hans Flugy, Lotti Rabitsch. A lei, anche debbo dir qualche cosa e aspettare la sua risposta. Chi sa quanto tempo, quante ricerche ci vorranno, perchè io compia tutto questo! Dopo, andrò a cercare gli amici di Hans Flugy, quelli della sua infanzia, della sua giovinezza, i suoi commilitoni: ovunque egli abbia vissuto, io andrò. Seguirò tutte quante le sue tracce... E Valdivia mi rivedrà, più tardi, me solo... alla fine del viaggio...
Giacomo Costantini tace e guarda Guido Soria, con inconsolabile tristezza.
— Io vivo col mio morto, Costantini: io vivrò con lui, sino all’ultima mia ora. — E il gesto e la parola di Guido Soria, chiudono intorno a lui, il tempo, lo spazile gli eventi. E Costantini pensa che vi è, in Roma, un’altra madre che ha perduto suo figlio.
Il capitano Camillo Moles giunge in Roma alle sette di sera. Il suo servizio militare è compiuto: ma egli indossa ancora l’uniforme, fregiata dei nastrini che rammentano la sua storia di guerra e i compensi avuti» al suo valore di soldato. Ha, con sè, due grosse valigie e una cassetta militare. Escito sul piazzale della stazione, ove vociano i conduttori degli omnibus dei piccoli alberghi, mentre quelli degli alberghi di lusso, superbi, nulla offrono, in attesa dei loro grandi clienti, l’ufficiale fa cenno a quello del Grand Hótel e gli dice il suo nome. È atteso: egli ha telegrafato due giorni prima, perchè gli si conservi una camera. Sale nell’omnibus e in pochi minuti è nel vestibolo del sontuoso albergo, ove già tutti i lumi sono accesi, in quella sera di precoce primavera. L’andirivieni è discreto, poichè il largo ritmo della vita civile, quattro mesi dopo l’armistizio, è ancora fievole, come se la gente ancora non si potesse abituare alla pace. E, sovra tutto, quelli che vanno e vengono sono militari, ufficialoni gravi e imponenti, ufficialetti brillanti e lieti, a cui, oramai, la divisa non rappresenta più un rude dovere, un latente pericolo, ma è, per alcuni, un fiero vanto e per altri, un vanitoso ornamento. Camillo Moles, mentre aspetta che il segretario gli dia il numero della sua stanza, non si guarda attorno, non cerca nessuno, ma non si nasconde, neanche, da nessuno. È in Roma, è nella sua città, dove ha vissuto, pensato, operato, sino alla chiamata in guerra: e vi ha parenti amici e clienti: ma egli sa bene che nessuno di costoro lo cercherà, e se qualcuno di costoro, tra amici e clienti, lo incontrasse, non lo riconoscerebbe. Così, avviandosi verso l’ascensore, saluta militarmente un colonnello sconosciuto con cui s’incontra, risponde al saluto di un tenentino agghindato che gli passa accanto, e se ne va, con le sue valigie e la sua cassetta militare, nella stanza che gli hanno serbata, al Grand Hótel e in uno dei lati più silenziosi della vasta casa. È solo: è nella sua città: ma egli non si è diretto alla sua casa di via Boncompagni, quella che egli abitava, da cinque anni prima della guerra e che è rimasta, sempre, la sua casa, ove sua moglie, Barberina Moles, ha sempre dimorato, durante i quattro anni di guerra, salvo ad assentarsene, a partirne, continuamente, ora con una scusa, ora con un’altra, e a starne lontana, per molto tempo. Adesso, Barberina Moles è in Roma, ad attenderlo, in via Boncompagni, scrivendogli a Trieste lettere amorose e pressanti, perchè egli rientri, infine, «presso la sua donna, che lo aspetta, con tutti i suoi più ardenti e più mordenti baci», ed egli ha risposto, due o tre volte, con letterine brevi, con biglietti, dicendo che è sul partire da Trieste e che, a ogni modo, avvertirà con uno, con due telegrammi, del suo arrivo. Barbarina Moles è in via Boncompagni, aspettando i due telegrammi. Neppure Camillo Moles si è diretto alla dimora di sua sorella vedova, Magda Falcone, che si è ridotta a vivere in un appartamentino della vecchia via Giulia, in un palazzo antico, che è dei Falcone, dove ancora vivono certi larghi parenti Falcone, gente di vecchio stile, alta borghesia romana antiquata, dimora ove Magda Falcone trascorre, lontana dal centro, la sua lenta e monotona vita. Neppure Magda sa dell’arrivo di suo fratello: nelle sue lettere, a Trieste, ella prega, supplica Camillo di avvertirla, ella vuole rivederlo subito, vuole andargli incontro alla stazione e vi è una viva inquietudine nelle sue più semplici parole e ogni tanto, in una piccola frase allusiva, apparisce l’idea del perdono. A questa idea e a questa parola, Camillo Moles non ha mai risposto, nelle corte lettere a sua sorella, come se non avesse letto, o non ci avesse badato: le dice che sarà prestissimo di ritorno, che, del resto, per accontentarla, le farà uno o forse due telegrammi, per dirle il giorno e l’ora del suo arrivo in Roma. Ma Camillo Moles, partendo da Trieste per Roma, non ha telegrafato nè a Barberina, sua moglie, in via Boncompagni, nè a Magda Falcone, sua sorella, in via Giulia. Ed esse nulla sanno, in quella sera di aprile, del suo arrivo. Egli è solo, passeggiero ignoto, in quel grande albergo, come uno straniero venuto di molto lontano e che, domani, ripartirà, solo ed ignoto, per un paese lontano: egli apre appena una delle sue valigie, tirandone fuori quanto serve a chi, arrivato da un viaggio lungo, resterà soltanto un giorno, o, forse, solo una notte, in quel paese, mettendosi, poi, di nuovo in viaggio, non accolto al suo arrivo da nessun volto amato, non salutato, alla sua novella dipartita, da un volto amico.... E tutti i suoi gesti successivi, l’escire di camera e di albergo, per recarsi, dirimpetto, a un restaurant, per pranzare, per fumare, per leggere un giornale, per rientrare in albergo, nella sua camera, sono quelli del viandante sconosciuto, che è avvezzo alla solitudine e al silenzio. Egli passeggia, avanti e indietro, in quella stanza che è lunga e stretta; ma non pare agitato: è, piuttosto un esercizio solito, che l’ufficiale ha, forse, appreso nel tempo di guerra, al fronte, ove, spesso, le lunghe serate erano vuote e le ore della notte sembravano troppo lunghe. Prima di andare a letto, egli apre la cassetta militare, ove sono raccolti indumenti e oggetti, che gli sono serviti in guerra: egli ne prende due lettere, che vi sono deposte, sovra le vesti e la biancheria. Seduto presso il tavolino egli legge, con lentezza, queste due lettere. O, piuttosto, le rilegge. Sono due lettere di Barberina Moles, sua moglie, a Mario Falcone, suo cognato, che è morto in guerra. Tutte le altre lettere consimili, le ha portate via e le ha generosamente bruciate, la sua santa sorella Magda, senza accorgersi che due di esse erano rimaste nelle mani di Camillo. Questa novella lettura, in quella tacita stanza di albergo, dura qualche minuto: giacchè il lettore si ferma, ogni tanto e pensa. Ma nessuna espressione è nel viso di Camillo Moles, anche quando ha riposte le lettere nelle buste e le ha posate sul comodino, accanto al suo letto. Poco dopo, la luce si spegne, perchè il viandante sconosciuto chiama a sè il sonno, necessario a chi deve, forse, partire l’indomani, per un altro lungo viaggio.
Difatti, il capitano Camillo Moles si leva presto; fa un’accurata toilette, prende la sua prima colazione, chiude la sua cassetta militare, chiude la sola valigia che avea aperta, le raccoglie insieme, bene in vista; le due lettere che eran sul comodino, sono nella tasca interna della sua giubba. Distratto, due volte, con la mano, si assicura che le ha messe in tasca. Ed esce dalla camera dell’albergo, camminando col suo passo militare, eguale, verso la sua casa, in via Boncompagtii. Vi è poca gente, in quella via di lusso di Roma, ove nei villini, negli alberghi, tutti dormono fino a tardi. Anche in via Boncompagni, s’incontra solamente con qualche raro viandante. Sono le nove, quando Camillo Moles entra nel suo portone e schiude la porta a cristalli della portineria. Sulle prime, Caterina, la portinaia, non lo riconosce e lo guarda, stranita: quando lo riconosce, ha un movimento di tale meraviglia, che le fa balbettare:
— È lei, capitano... è lei...
— Sono io, Caterina, buongiorno...
E fa per avviarsi verso le scale.
— Signor capitano... la signora non vi è...
— È fuori Roma?
— No... sì... no, mi sbaglio, è uscita molto presto, stamane...
— Ah!
— ... ma starà poco, a ritornare...
— Come lo sapete? Ve lo ha detto?
— Sì, sì, ora mi ricordo... L’aspettava... Doveva giungere un telegramma...
— Sono giunto io.
E tutto il dialogo è fatto, con una confusione massima di Caterina, la portinaia, e con naturalezza e indifferenza, da parte del capitano Moles,
— Vi sarà una cameriera, sopra?
— .... la cameriera, fa anche da cuoca.... Capirà, una signora sola.... È fuori per la spesa, la cameriera.
— Allora, avete la chiave?
— Ho la chiave, certo.
— Datemela, Caterina.
E in questo momento che Caterina, fissando l’uomo, ha un senso misterioso di paura.
— Caterina, la chiave.
— Eccola — obbedisce lei, un po’ tremante.
— Vorrei fare una sorpresa a mia moglie — dice, con semplicità, Camillo Moles. — Quando ella rientra, volete non dirle che sono sopra?
Di nuovo, Caterina si sgomenta. Ma il capitano Moles è così quieto, così naturale, che ella scaccia la sua sensazione. Anzi, le sembra che Moles abbia sorriso, un istante. Sì, ha sorriso!
— Chi sa che gioia, la signora, quando rivedrà il suo signore....
— Non ditele che sono sopra: sarà graziosissimo. — E questa volta, egli sorride veramente.
— Ci conti, ci conti, capitano.
Il capitano Camillo Moles se ne va verso le scale, le sale col suo passo militaresco, sino al terzo piano, apre la porta della sua casa ed entra. I pianerottoli di quel palazzo sono lunghi e stretti e vi si aprono tre porte: due di un grande appartamento, uno di un più piccolo quartino. Vi è una ringhiera di ferro, appoggiandosi alla quale si scorge tutto il giro delle scale, sino giù, al portone. Barberina Moles rientra tre quarti d’ora dopo, che suo marito Camillo è penetrato nell’appartamento. Indossa un vestito di lana color nocciuola, già primaverile, sovra una camicetta di seta bianca, il cui ondulante colletto si apre sul colletto della giacca: ha un cappellino di velluto nero. Il marito, Camillo Moles, deve averla veduta arrivare, da qualche parte, perchè ha schiuso la porta ed è uscito sul pianerottolo. Ora, egli si appoggia alla ringhiera e chiama, a gran voce:
— Barberina!
La donna trabalza, riconosce la voce e la persona, precipita la sua ascesa, per giungere più presto, manda un bacio, con le dita.
— Sgualdrina! — grida, a gran voce, Camillo Moles.
E poichè la donna è quasi alla fine della scala, rimpetto a lui, egli prende mira con la sua rivoltella e le spara tre colpi, un dopo l’altro. Tre volte la colpisce: nella gola, nel braccio, nel petto: la donna si abbatte sull’ultimo scalino; boccheggia; un fiotto di sangue esce dalla ferita della gola: muore. Il capitano Camillo Moles, senza voltarsi, rientra in casa, socchiudendo la porta, alle sue spalle. Nè dà alcun segno di collera o di dolore, andando nel suo studio, sedendosi al suo posto abituale; e aspettando.
La stanza che Giorgio Ardore ha occupata sino al suo diciannovesimo anno e ne è uscito, per la sua chiamata in guerra, senza tornarvi mai più, è rimasta come egli l ha lasciata. Essa è chiara, e ha l’aspetto gaio. Quando Giorgio Ardore compì quindici anni, sua madre gli donò, per questa stanza, tutto un mobilio nuovo e moderno: mobili in legno laccato lucidamente di bianco e tapezzati di una stoffa color avorio, su cui si distendono, tessute, delle coroncine di rose e dei fascetti di fioratisi, colori tenui: e alle pareti, una stoffa di fondo unito, di grigio argento anch’essa e di una delicata tinta; e, dapertutto, ai balconi, sui piani dei mobili, dei leggieri lini candidi, incrostati di merletti: e ogni oggetto, o di cristallo o di argento, tutto lucente, tutto attirante e riflettente la luce. Era, forse, un po’ femminile, questa stanza; ma il giovanotto, a poco a poco, vi aveva impresso il suo segno virile, i suoi libri da studio, rilegati a colori forti, la sua scatola di sigarette aperta, la sua cartella di pelle bruna, incisa in rosso, bleu e oro, i suoi panni maschili, sparsi, qua e là, il suo armadio socchiuso, donde si vedeva la fila delle sue cravatte, sospese a un nastro. Elegante, raffinata, quella camera da letto, con il suo vasello di fiori sulla scrivania, ove si bagnava, sempre, un mazzolino di fiori freschi, e un altro vasello, a capo letto, con altri fiorellini, innanzi al ritratto di sua madre, Marta Ardore. Così, anche l’effigie materna vegliava sul sonno del più giovane suo figliuolo, mentre, nella casa istessa, la madre istessa, poco lontana, si addormentava, dopo aver pregato per lui. Nulla, adunque, era mutato nella camera del ventenne Giorgio, che era morto in guerra, con la carotide tagliata dalla mitraglia, svenato. Pareva che egli ne fosse venuto via il giorno prima. Il candido letto era rifatto, sotto la sua coltre di seta avorio, a fiorellini rosei e cilestrini: sul tappeto, innanzi al letto, erano, in ordine, le sue pantofole di cuoio di Russia: sulla sedia, ai piedi del letto, il pyjama che egli aveva indossato, l’ultima notte che vi aveva dormito: sulla scrivania, anche il nitido calamaio di porcellana bianca, era pieno dell’inchiostro violetto, che Giorgio Ardore adoperava, nello scrivere: la sua penna era lì, appoggiata, quasi pronta a esser presa, per scrivere. Tutto pareva vivo e pronto, nella stanza di quel ventenne, che era morto sgozzato al fronte, sei mesi dopo la sua chiamata alle armi, due mesi prima dell’armistizio. Una mano vivente, aveva a poco a poco, aggiunto, qualche cosa, in quella stanza del morto: vale a dire tutte le sue fotografie, da quando era infante, sino, forse, alla sua partenza, che non doveva aver ritorno. Ecco, il bimbo di quattro anni, ancora con la gonnelluccia femminile, tutto ricciuto, con la sua aria di bambinello Gesù; poi, a sei anni, coi suoi calzoncini di velluto nero e il giustacuore di velluto e il gran colletto di merletto arrovesciato, simile a uno dei figliuoli del re Edoardo, nel famoso quadro: eccolo vestito da marinaretto, di scuro, e da marinaretto, di bianco, sempre snello e pure muscoloso, sempre grazioso e pure con quella sua decisione, nello sguardo, tutta maschile, eccolo in alcune istantanee, col fratello grande, così più grande di lui, Fausto Ardore, con la sua imponente madre Marta, ma che, accanto a lui, è sempre irradiata da un sorriso interiore... Tutti questi ritratti sono messi accuratamente in cornici, sono disposti, qua e là, in modo che lo sguardo, girando intorno, ne incontri sempre qualcuno. In una più grande cornice, sono raccolti: un ricciolo di capelli castani a riflessi cuprei: una immagine, sacra, rappresentante un giovanetto innanzi alla Sacra Mensa e un’altra, che rappresenta il verso della prima, con le parole, in caratteri dorati: Ricordo della prima comunione di Giorgio Ardore, tredici giugno 1910: vi è unito un nastro bianco a frangie dorate, che il comunicando portava al braccio, in quella memorabile giornata. Non vi era, prima della morte di Giorgio Ardore, il pianoforte, in quella stanza: ma la stessa mano ve lo ha fatto trasportare, dopo, in un angolo. Vi è sopra, la stessa stoffa, che lo covriva, allora quando con le sue mani fini e agili, sfiorando elegantemente i tasti, egli suonava, in sordina, arie antiche italiane e ritmi di vecchie danze obliate. È aperto, appunto, sul leggìo, un albo, ove è la dolce e spasimante musica: Tre giorni son che Nina... E l’ultima che egli ha suonato, prima di partire. Sotto quelle mani, la bianca e nera tastiera, non darà più armonie, è muta per sempre. Vi è, sul letto bianco, ove egli non dormirà più, un quadro arcaico, quasi stilizzato, di origine germanica, forse, in cui un guerriero tutto vestito di ferro, a cavallo, punta una lunghissima lancia, nella gola del vinto dragone. È san Giorgio, protettore del ventenne. Il santo che vinse il dragone, non potette salvare il giovine Giorgio, da quell’affamato dragone, divoratore di uomini, che è la guerra.
Tutta vestita di opaca lana nera, con una cuffia di crespo nero sui capelli bianchissimi, non avendo, sulla sua persona, altro oggetto di colore, che il sottil cerchio di oro, all’anulare della mano sinistra, la fede matrimoniale, curve le spalle che erano state erette, sino a che il suo ventenne partisse per il fronte, curva la testa, pendenti le labbra, spento l’occhio, con un aspetto di senilità impressionante, poichè ella non ha ancora sessantanni, Marta Ardore passa quasi tutta la sua giornata, nella camera di colui che le fu ucciso, inopinatamente, in guerra, tagliata in due la maggior vena del collo e giacque, svenato. Ella vi si reca, ogni mattina, appena levata di letto e vestita, come faceva quando era vivo: e non bussa, perchè egli non vi è più ed ella ha un gesto di solinga disperazione, nello schiudere la porta. La stanza è chiara ed è gaia: ma è anche funebre. Pare una stanza di una vezzosa e capricciosa fanciulla, o quella di un simpatico, elegante, brillante giovanotto, ma è la cappella votiva a un morto di venti anni.
— Mia creatura, mio fanciullo, mio fiore... — lo saluta, disperatamente, in sè stessa, la madre, Marta Ardore. E certe volte, si sorprende a salutarlo, ad alta voce.
Con mani esperte e caute, ella si dà a fare la pulizia di quella camera, dove nessuno più vive, ma dove entra la polvere, e mobili e oggetti si deteriorano. Ella fatica come una cameriera, anzi, più umilmente, come una domestica: ansima, ogni tanto e si deve fermare. Tutti i mobili sono spolverati e spazzolati: tutti gli oggetti sono strofinati e rilucono gli argenti e i cristalli. Ella mette dei fiori freschi nel vasello di Murano della scrivania, togliendone quegli appassiti, cambiando l’acqua, con cure minuziose. A ogni due o tre movimenti stanchi ma tenaci, della sua persona, ella s’incontra con una fotografia del suo figliuolo, tante ve ne sono, sparse, dapertutto. Ella sogguarda quel viso d’infante, di ragazzetto, di fanciullo: e gli rivolge un motto disperato di tenerezza, in sè stessa. «Figliolino mio.... mio fiorellino.... mio bianco agnello....» E soggiunge, gridando: «Agnello mio sgozzato....» E, sempre, si ode sfuggire questo, a gran voce. Con le sue mani, ella stira la coltre di seta sul letto rifatto, guarda l’origliere di fine tela bianca, come se ancora vi potesse scorgere, addormentata nel pacifico sonno, la testa di Giorgio, dai capelli arruffati, o come se la testa del figliuolo sveglio, si levasse, fresca, ridente, a salutarla: quell’origliere l’allucina ed ella talvolta vi cade sopra, col capo, vi affonda il viso, vi soffoca la sua voce e il suo respiro, qualche rara e bruciante lacrima sgorga dai suoi occhi e bagna l’origliere. Quando si leva, decide di mutarlo, poichè essa lo ha intriso del suo scarso pianto. E si allontana, per poco, da quella funebre stanza, chiudendone bene la porta alle sue spalle. Marta Ardore compie tutte le altre funzioni della sua vita di donna e di padrona di casa, in un ordine lento e preciso e in un continuo silenzio. Ella è sola, nella sua casa di Roma: e per parlare ai suoi familiari o ad altri, adopera il minor numero di parole possibili. Si scorge subito che il suo spirito è altrove, mentre ella è presente e parla e agisce. Subito si comprende che tutto è automatico, in lei, nella sua vita esteriore e che vive in lei un portentoso segreto di amore e di disperazione, di cui solo le gramaglie, solo la sua precoce senilità, solo il suo sguardo fisso a terra, come sovra una tomba, quella di suo figlio o la sua, solo il suo profondo silenzio, sono i documenti palesi. Anche questo amore e questa disperazione, sono custoditi gelosamente. E questa custodia gelosa, è da tutti rispettata: e se un estraneo, per caso, nomina colui che è morto, in guerra, vede le palpebre di Marta Ardore abbassarsi sul suo sguardo, non altro: e farsi marmoree le linee di quel volto: e, in lei, senza parole, tutto chiede il silenzio, intorno alla sciagura incomparabile che l’ha colpita. Colui che ha parlato vorrebbe, quasi, scusarsi di averlo fatto. Nella giornata, Marta Ardore, ha sempre qualche ragione, per ritornare nella stanza di suo figlio Giorgio: e vi si trattiene, talvolta, ferma, là in mezzo, parendole di essere una smemorata, di non ricordarsi più, perchè sia venuta: e si tormenta: ma, a un tratto, comprende che ella è venuta, per venirci: e si commisera, in sè stessa, dei pretesti che cerca. Ma la dimora più lunga, è quella della sera, dopo pranzo: in quelle ore in cui, quasi sempre, il suo figliuolo Giorgio preferiva restare in compagnia di sua madre, a leggere, a fumare e a sognare, mutamente, a trarre qualche armonia dal pianoforte. Marta Ardore accende la luce, in quella stanza: e si siede, accanto alla scrivania, guardandosi intorno, ogni tanto: tocca qualche libro, di suo figlio, di quelli che egli preferiva e ne fa scorrere le pagine, senza leggerle: tocca la sua grande scatola di cristallo dì rocca, ove egli aveva la sua provvista di sigarette, ella ve ne mette sempre, gittando via le disseccate: tocca un suo portasigarette di oro, che il suo Giorgio non volle portare al fronte per paura che glielo rubassero... Si leva, va al pianoforte, mette la mano sulla tastiera, traendone qualche vago suono e legge il grande ultimo grido, paisielliano: Svegliatemi Ninetta! L’ora scorre: ella si leva, assume, in un solo sguardo, tutto ciò che è in quella stanza, se ne impregna, per la millesima volta e se ne va, serrando la porta, come faceva quando Giorgio era andato a letto, ella lo aveva benedetto e poteva chiudere la sua giornata. Anche adesso, lo nomina in sè stessa, coi vezzeggiativi più dolci e più straziati e lo benedice: ma egli è stato ucciso in guerra, il suo letto è vuoto e la porta si è richiusa sovra una stanza deserta.
Prima di rientrare nella sua stanza, ove, quasi sempre, l’insonnia l’aspetta, o lo stanco dormiveglia, Marta Ardore va a vedere, in una recondita stanza del suo appartamento, che cosa faccia Antonia Scalese, il cui unico figliuolo Gianni, cresciuto senza padre, è morto in guerra, con tre palle di mitragliatrice, nel corpo. Antonia Scalese fa sempre lo stesso. Tutta vestita di nero, ma sorridente, e talvolta, ridente, è distesa, lunga, per terra. Giace sul fianco, con la guancia e l’orecchio sovra un mattone del pavimento. Antonia Scalese parla con suo figlio, e le pare che suo figlio le risponda, di sotto al mattone.
— Gianni mio.... Come va che non ho tue lettere?... Mi hai scritto ieri? Allora l’avrò domani?... È lunga, la lettera? Sei un gran buon figlio, Gianni, Gianni....
E ride, ride, Antonia Scalese. E riprende, con la guancia e l’orecchio, sul mattone:
— Ma che mi dici, di questo tuo ritorno?... Presto, dici? Che significa, presto?... Non puoi precisare.... Ma torni, è vero, torni?... Oh che risate, voglio fare, col mio Gianni!
Questa è la sua follia. Povera, abbandonata, orfana di suo figlio, Marta Ardore l’ha raccolta in sua casa, per pietà e la custodisce, e la cura, insieme alla domestica Francesca. È una folle spasimante, ma dolce e ridente, Antonia Scalese. Potrebbe guarire, dice il medico, crollando il capo, solo se rivedesse il figliuolo. Così, non guarirà mai. Ma questa pazza non dà noia, in fondo alla casa vasta e vuota, in una stanzetta modesta, in cui passa le ore, lunga per terra, chiamando suo figlio e parlandogli, e udendone le risposte, sorridente, ridente. Così, sino alla morte. Guarda, la madre folle, Marta Ardore e ha solo un gesto di rassegnata desolazione. Poi, anche più disfatta, se ne va, passo passo, verso la sua camera.
Nella camera ove si ritira Marta Ardore, e che ella abita da molti anni, non vi sono che due traccie di Giorgio Ardore. Sono sul largo comodino da notte, presso il letto di Marta, sovra una tovaglietta bianca ricamata: la prima, è una fotografia, una istantanea, presa a Viareggio, sulla spiaggia, ove Giorgio Ardore è sotto il braccio di sua madre, come aveva la infantile abitudine di andare, per la via (diceva «tu mi sostieni e io ti sostengo») e tutto è luce, luce di sole, in quella fotografia e i due, la madre e il figliuolo, sereni, uniti, paiono indissolubilmente uniti. L’altra traccia, è l’ultima cartolina inviata dal fronte di guerra, da Giorgio a sua madre e dopo due giorni dalla sua data, mentre la sua madre la riceveva, egli è stato ucciso. Essa l’ha fatta custodire in una cornicetta nera, di ebano. Si comincia a leggere: Mammà... E ogni sera, prima del suo così incerto, così travagliato sonno, ella fissa quella fotografia, piena di sole e rilegge in quella cartolina filiale, l’estrema parola del figlio. Nel letto, all’oscuro, con gli occhi aperti, ella cerca rammentarsi la voce di Giorgio, quando la chiamava e quella fresca bocca che aveva un movimento speciale:
— Mammà... mammà...
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— Signora, signora, vi è il capitano! — viene a dire, frettolosa e sorpresa, la servente di Marta Ardore alla sua padrona.
— Quale capitano, Francesca?
— Il suo figliuolo, il capitano Fausto.
— Vi era bisogno di annunziarlo?
— ... ma, signora... io non sapevo... — si confonde, sempre più, Francesca.
— Entra, Fausto — chiama il figliuolo, la madre che è giunta sulla soglia dell’anticamera, dove egli aspetta di essere introdotto.
Marta camminando lenta e Fausto seguendola, un passo indietro, entrano in salotto: ella si colloca nel suo seggiolone, egli resta ritto, innanzi a lei, guardandola fisamente. Non l’ha più vista, dal tragico giorno, in cui è venuto ad annunciarle la morte del suo ventenne, Giorgio, che ha versato tutto il suo sangue, dalla gola tagliata: e, al feroce, ferino urlo materno, Fausto Ardore è fuggito. Così lungo tempo! Adesso Marta gli tende la mano: essa è diventata tremula, senile, come il viso, come la persona. Fausto, chinandosi molto, bacia quella mano con reverenza. E, rialzandosi, l’ufficiale si siede, poco distante, con la compostezza di un militare, che sia in visita di cerimonia. presso una dama di alto riguardo. Ma egli non può ritogliere lo sguardo dal viso materno, dalla persona materna e nota tutte le stimmate, e vede il mortale deperimento di quella figura, volta verso la morte, anzi tempo, desiosa di morte: è in lui una immensa pietà, ma il silenzio della madre gli dà la misura della corazza d’orgoglio, in cui ella custodisce e difende il suo dolore.
— Ben trovata, madre.
— Benvenuto, Fausto.
— Come stai, madre?
— Quale mi vedi. Vivo.
Tacciono, ambedue, a occhi bassi.
— E tu, Fausto?
— Vivo.
— Sei qui, ora?
— Riparto domani.
— Ah!
— La mia fatica, mi richiama, lassù.
— Non so che sia, la tua fatica.
Egli esita un istante, a rispondere.
— Vi è un grande ufficio: siamo in molti ufficiali, a lavorarvi.
Ella non insiste. Egli riprende, come deciso:
— Stabiliamo, con le ricerche, con i documenti, la Stato Civile della guerra.
— Il numero dei morti, è vero? — e la domanda, è di una ironia spasimante.
— Sì, madre.
— Quanti?
— Non sai la cifra? Non vuoi dirla?
E il figliuolo rivede il viso fiero e ode lo sdegno dell’antica avversaria.
— Centomila? Più di centomila morti?
— Cinquecentomila — egli dichiara, precisamente.
— Oh! oh! — ella esclama e si cela il volto fra le palme. Poi, si scuote e si fa ansiosa: — E i feriti, i mutilati, gli stroncati?
— Un milione, madre.
— È atroce, è atroce! — e si nasconde gli occhi come se le apparisse l’orrendo spettacolo.
— È una strage disumana, — egli confessa, nitidamente.
Marta lo sogguarda: ma non esprime la sua sorpresa.
— Fosti comandato, al tuo ufficio? — ella interroga, con autorità.
— L’ho chiesto io.
— E perchè, Fausto? — Marta chiede, imperiosa.
— Per convincermi, coi miei occhi mortali, che la guerra è una strage disumana.
— Ne sei, ora, convinto? — sempre più imperiosa, Marta.
— Sì, madre — egli dice, umilmente, aprendo le braccia, in atto di dedizione.
E colui che fu l’antico avversario di sua madre, si curva, prende la mano senile, la bacia di nuovo: gli pare che essa tremi troppo, sotto il suo bacio.
Un lungo silenzio.
— Vuoi vedere la sua stanza, Fausto?
— No, madre. Non posso.
— Hai tu visitato la sua tomba?
— No, madre. Non ho potuto.
— E perchè? Perchè? — ella chiede, impetuosamente.
— Son venuto a dirtelo.
— Che vuoi dirmi? Che cosa? — così ribolle la passione materna.
— Io parto, domani: debbo salutarti, oggi. Non so quando ti rivedrò.... Non so che sarà di me. Quindi, debbo parlarti e tu devi ascoltarmi. Non ci rivedremo, forse, più, madre....
— Dio dispone, Fausto. Parla.
— Ti ricordi che io mi assunsi il terribile incarico di dirti, che Giorgio, il nostro Giorgio che mi era più che fratello, figliuolo, era stato ucciso, in guerra, a venti anni?
— Mi ricordo.
— Ti ricordi il tuo urlo di orrore che era a me rivolto, ti ricordi il balenìo furente dei tuoi occhi folli, che era a me rivolto? Madre, madre, finchè io viva, ovunque io vada, in ogni tempo e in ogni paese, io udrò il tuo urlo che mi accusava, vedrò la folgore del tuo sguardo, che mi volea fulminare! Rispondi: è vero, che in quel momento ti facevo orrore?
— È vero — ella dichiara, franca.
— È vero che mi hai maledetto?
— Sì, ti ho maledetto.
— Lo so. Lo so. Non ero più tuo figlio, allora: ero l’apostolo infiammato della guerra, colui che l’aveva invocata, propiziata, esaltata, negli scritti, nella parola, tra le genti ignare e timide, e l’anima mia rovente di apostolo, aveva acceso tutte le anime ingenue, e tutti i cuori semplici, e centinaia e migliaia di persone, eran diventati miei discepoli, e costoro e tanti altri, avevano, con me, data la grande spinta, lanciato il nostro paese, nella terribile ventura... Ed ero io, quel giorno, il più straziante il più tragico della nostra vita, che ti venivo ad annunziare, la morte di colui che era tutto il nostro prezioso bene, Giorgio, Giorgio, il figlio, il fratello, unico bene nostro... E mi hai maledetto! Io ho letto più oltre, nel tuo pensiero, madre, in quel giorno...
— Che hai letto? Dillo! — è concitatissima, Marta.
— Tu hai pensato che io, complice della guerra, ho ucciso mio fratello.
— Così ho pensato — ella afferma, sordamente.
— Tu mi hai chiamato, nella tua anima sanguinante, con un altro nome, con quello del primo fratricida: Caino.
— Sì, così ti ho chiamato: Caino — afferma ancora sordamente, Marta Ardore.
— Pensi tu, egualmente, adesso, madre? Sono io, sempre, per te, un assassino? Mi chiami tu, sempre, Caino?
Marta Ardore abbassa la testa, tacita: poi, leva il capo, guarda il Cielo e risponde, breve:
— Iddio sa.
— Ebbene, madre, poichè ti lascio al tuo inconsolabile dolore e me ne vado, col mio dolore inconsolabile, ti voglio dire una parola ultima e la più vera. Tu avevi ragione, nel tuo infinito sgomento e nel tuo infinito ribrezzo della guerra; e io, pazzo, cieco, avevo torto, facendomene strumento e volontà, e trascinando la volontà altrui
— . . .
— Avevo torto. E non lo sapevo. E ora lo so. Ed è vero che la mia delirante parola, ha ucciso mio fratello. È vero che io sono Caino. Tutto il sangue di mio fratello, è sulla mia coscienza.
— . . .
— E non solo il suo sangue, madre! Tutto il sangue di mezzo milione di morti e lo strazio di mezzo milione di madri! Esse mi hanno maledetto, maledetto, e la loro maledizione ha ucciso Giorgio!
— Tu taci, madre e non vuoi, oggi, giudicarmi. Ma io mi sono giudicato e mi sono condannato. Lo sai, io ho avuto una fede immensa, nella bellezza di un’idea, l’idea di guerra: ed essa è divampata in me, questa fede, come una fiaccola, come un focolare di calore e di luce: e l’ho vista ascendere all’orizzonte, questa luce, e dilatarvisi, e splendere, come null’altra luce, splendere di bellezza, di sacrificio, di eroismo: e l’ho creduta così nobile e così pura, questa idea di guerra, da tutto travolgere...
— . . .
— E tutto, invece, era flagello, distruzione e putredine — egli grida, pallido di una emozione indicibile. — E il flagello, la distruzione e la putredine, sono serviti all’ambizione sfrenata alla bieca prepotenza, alla turpe cupidigia... Madre, madre, tu non sai, non puoi sapere, tu sei chiusa nel tuo dolore, tu sei chiusa nella tua casa, con le tue lacrime che non scorrono, con i tuoi gemiti che tu soffochi: e non sai quello che è fuori, la lurida vita, la sporca vita, la nauseante vita, la vita su cui io vorrei sputare l’anima mia, esalandola...
E si affoga la voce nella strozza a Fausto Ardore, e i suoi occhi furenti cercano, intorno, la nauseante vita, per sputarvi, sopra, t’anima sua.
— Madre — egli riprende, quasi senza fiato. — Tu hai vinto e io sono perduto.
— Fausto, io ho vinto e sono perduta.
E madre e figlio, Marta e Fausto Ardore si guardano, in volto, soli, ognuno con la sua disperazione, inetti a consolarsi, inetti a vivere.
La notte sgrana le sue ore sulla casa ove vivono, deserte per sempre dei loro figliuoli, Marta Ardore e Antonia Scalese. Sono ore d’immota e cruda insonnia, ove ritornano i più assillanti ricordi: ore di travaglioso dormiveglia, ove ancora il pensiero inquieto si avvolge e si svolge e si aggroviglia, novellamente, senza tregua: ore di pesante sonno, donde l’anima si scuote, si sveglia, balza fuori, a un oscuro richiamo. Posa suil’origliere la testa di Antonia Scalese e, senza più il sorriso, senza più il riso della follìa, tutta si scorge la devastazione mortale di quella fibra materna, e il suo rapido cammino alla morte: si aggrava il sonno, come una pietra, su lei, ma, a un tratto ella sussulta, si leva, nella oscurità, nella solitudine, urla:
— Gianni, tu sei morto? È vero, che sei morto? Gianni, Gianni, per pietà, dimmi, se sei morto?
Ed è buttata a terra, seminuda, scarmigliata, rotolandosi sul pavimento, contro i mattoni, battendovi la testa, origliando, ricadendo nella nera pazzia:
— Caro.... caro! Sei vivo, più che mai, e mi ami e mi baci, e verrai, anche, è vero verrai da mamma tua....
In terra ella resta, morendo di freddo, non sentendo il freddo, non volendo tornare a letto, dove, nel sonno, qualcuno le dice che il suo Gianni è morto: trema, ride, coi capelli sugli occhi e le carni che rabbrividiscono...
È seduta, non coricata, nel suo letto, Marta Ardore, sorretta da una pila di cuscini: l’insonnia le ha pietrificato le stanche palpebre aperte ed essa guarda, nella tenebra fonda. Le riappaiono le memorie più inaspettate, più distanti, più profondate nei recessi del passato. Non ha pianto, ella, forse, in sua giovinezza, dinnanzi a un povero piccolo quadretto, ove era riprodotta una puerile scena triste? Un cielo nubiloso e basso, bigio, quasi livido: una campagna oscura: e, qui davanti, una bianca agnella che, levata la testa, bela verso il cielo: e ha, innanzi per terra, il suo agnellino, morto. Non le parve, allora, di udire il belato doloroso della bianca pecora, che aveva il suo caprettino stecchito, a sè davanti? Non somiglia, forse, ella, a quella misera agnella, a cui è morto il piccolo agnello, Giorgio, Giorgio? L’ora notturna si fa alta e il dormiveglia, infine, fa fluttuare la mente di Marta Ardore: e il suo pensiero non si cheta, e va verso Fausto che è partito, vinto, disfatto, sentendo la sua coscienza indelebilmente macchiata dal sangue di suo fratello, peccato che non si cancella, rimorso che non si prescrive, ed ella non ha tentato neppure di consolarlo, poichè era vano, poichè era inutile. Altissima notte: sonno plumbeo su Marta Ardore. E, a un tratto, un sobbalzo e un grido lacerante:
— Signore, quanto tempo ancora, ho da vivere, così? Signore, quanti anni, quanti giorni, quante ore?
FINE.