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talmente. Forse, è così. Già le ombre serali penetrano dalle grandi vetrate dei balconi e quasi annegano i colori e le linee dell’ambiente e la figura del sacerdote, quando egli suona un campanello: un domestico schiude il gran battente dell’alta porta, solleva la doppia tenda di velluto e damasco, gira il commutatore della luce elettrica e dà la buona sera a monsignor vescovo, con quella voce misurata dei sacrestani, che vivono da anni in chiesa. E il domestico è appunto, vestito di nero, con una stretta cravatta bianca attorno al solino bianco, piccolo, esiguo, vecchio, ma meno di monsignor vescovo, che egli serve da quarant’anni. Il suo padrone è anche magro, ma non è alto: ha un viso piccolo e fine, tagliato da mille rughe, due vividissimi occhi e mentre quasi tutta la testa ha una calvizie lucida, una coroncina di riccioli bianchi viene, dalla nuca, sin dietro le orecchie.

— Vi è qualcuno che aspetta, Domenico?

— La signora Leoni, monsignore. Sapeva che recitavate Vespro e non ha voluto farsi annunziare.

— Fatela entrare, la signora Leoni — e un piccolo sospiro esce dalle labbra del vescovo.

Carolina Leoni entra, col suo passo leggiero, nelle sue semplici vesti oscure: sta, quasi, per inginocchiarsi per baciare l’anello vescovile, ove mette le sue luci tenui violacee l’ametista, ma don Filippo la solleva, subito e la benedice, accennandole di sedersi, dirimpetto a lui. Ella obbedisce. Solo cinque anni sono trascorsi dacchè, in un crepuscolo di aprile, il fantasma della guerra è apparso, sempre più minacciante sciagura, a Carolina Leoni: ma il travaglio di questi cinque anni, ha devastato quella dolce e fine figura di donna. Non è vecchia, non è stanca, non è malata: ma sembra che la vecchiaia, la stanchezza, la malattia, si sieno aggravate su lei e vi abbiano lasciato le loro divoratrici orme indelebili, Non sono rossi e gonfi, i suoi begli occhi di pervinca, non è contratta la sua piccola bocca appassita,