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Guido — disse, lento, l’avo, scrutando severamente suo nipote.

— No. Ma con l’aiuto del dizionario, ho tradotto, parola per parola, questa lettera di amore... Quanto tempo vi ho messo! Ma sono riescito a tutto comprendere... — e si lasciava andare, a una divagazione.

— Ah! — esclamò, soltanto, don Francesco, le cui sovracciglia sempre più si univano, sovra un suo malo pensiero.

Guido Soria, inconscio, seguitava a divagare.

— Anche l’altra lettera, quella della madre, l’ultima, che egli portava addosso, ho tradotto... Quella sua madre, era folle di amore, pel figlio... Come mamma mia...

— Già — consentì, il vecchio, come se avesse masticato, con le sue dure gengive quella parola.

— Lo baciava sugli occhi... — divagò, ancora, il nepote — Come mamma mia...

— Già — mordette, con le sue gengive senza denti, la parola, il vecchio.

— Quegli occhi, sono restati aperti, dopo la morte, nonno — disse il nipote, con un senso di sgomento, da fanciullo — Aperti... anche sotterra, nonno...

E parve che tremassero le sue labbra e battessero le sue palpebre.

— Porta via tutto — disse, rudemente, il vecchio, buttando il taccuino e gli altri oggetti, al nepote — Va via. Ho sonno. Buona notte.

Senza benedirlo, come ogni volta, il vecchio chiuse gli occhi, girò la testa dall’altra parte, restò immoto.

— Buona notte, nonno — rispose, umilmente, tristemente, il nepote, raccogliendo i suoi trofei di guerra, andandosene, con passo incerto e con spalle curve.

Rientrò, nella sua stanza: richiuse la sua porta: fu solo. E depose i pochi oggetti di Hans Flugy, sul suo scrittoio. Quasi magicamente, il taccuino si riaprì e i visi, belli, lieti, amorosi, riapparvero.