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cato, di cui brucia l’anima sua materna. Don Filippo che tiene appoggiato il gomito sulla tavola, ha la mano sugli occhi, come raccolto. Carolina aspetta che egli le dica il pensiero in cui è preso, pensiero di biasimo, o di consiglio, o di conforto. Il silenzio si prolunga, in quella grande stanza, alle cui pareti rivestite di cupo damasco rosso, pendono dei quadri antichi di soggetto religioso. Don Filippo abbassa la mano che covriva i suoi occhi: forse in quel tempo ha pregato. Egli scorge, innanzi a sè, quella madre trafitta nel cuore, simile a Colei che vide a morire Suo figlio sulla croce, quella madre che ha emesso solo un grido, ha chiamato solo un nome, e questo l’ha fatta novellamente sanguinare.
— Non siamo in confessione, Carolina — egli si volge a lei, serio e dolce — ma voi dovete dirmi tutto. Lo promettete, Carolina?
— Lo prometto — ella risponde, fiocamente.
— La vostra disperazione è essa giusta? Non la ingrandisce la vostra fantasia?
— Ho perduto una figliuola, monsignore. E ne avevo una sola.
— Essa non è morta.
— Se fosse morta, Loreta, pura, casta e intatta come era, l’avrei pianta, ma mi sarei rassegnata al volere di Dio. Ma ella vive, disonorata, nel peccato.
— Non si può, Carolina, riparare l’onore?
— No. È irreparabile.
— So che l’uomo che l’ha sedotta, è morto, è vero?
— Loreta non è stata sedotta da Carletto Valli. Doveano sposarsi. Ma la guerra è scoppiata ed essa, essa, ha voluto darsi a lui. Dopo... molto dopo, Carletto Valli è morto, al fronte.
Adesso, ella ha trovato la forza di questa fosca confessione e parla nitidamente, guardando altrove, abbassando gli occhi, per sfuggire agli occhi di don Filippo che, pure, sono carichi di pietà.
— Dopo questa morte... adesso, come vive la vostra Loreta?