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sedie, si erano seduti accanto: Bicetta teneva, fra le sue, la larga mano fattasi ossuta, di suo padre e lo guardava, con occhi pieni di una pietà filiale. Così invecchiato, così consumato, il suo papà che nei suoi ricordi, era rimasto con la figura di un colosso, di un colosso bonario, in Roma, quando ella avea otto anni!
— Ed ora sei guarito? Sei veramente guarito?
— Non mi sento guarito, Bicetta mia — e un pallido, amaro sorriso gli passò sulle labbra. — Il tifo è una malattia orribile: non se ne guarisce mai completamente. Si vive: ecco tutto.
— Ma che ti senti, papà, che ti senti? Dillo alla tua Bicetta — e lo abbracciò, di nuovo, più stretto, con uno scoramento grande.
— Lascia, figlia cara: non dar retta ai lamenti inutili. Oggi sono qui, con te, e mi sento bene, ed è una gran giornata, pel tuo papà...
— E perchè non restate, un pochetto, qui, con noi, compare Cesare? — entrò nella conversazione, la sora Tuta, dal suo posto. Poichè ella era venuta dalla cucina nel tinello, quietamente e si era seduta, presso la porta, con le mani sotto il gran grembiule oscuro.
— O comare mia buona, così lo potessi! — esclamò con voce velata di emozione, Cesare Pietrangeli. — Con voi, col compare Marcuccio, con la mia Bicetta... Ma, se mi credete, non posso...
— Avete lavoro, in Roma, compare?
— Ne cerco... — egli rispose, a voce dimessa, a occhi bassi.
— Vi è scarsezza, è vero?
— Nulla, nulla vi è, per noi, che siamo tornati, comare mia — egli disse, amarissimamente — Tutto è stato preso, da chi è rimasto... e se lo tengono...
Un soffio di tristezza si era diffuso, adesso, nella tranquilla stanza, in quella casa di campagna, lontana dal tumulto e dalla febbre della città. Le due donne, la giovanissima e l’anziana si erano, fatte pensose e mute.