Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 260 — |
— E che cosa, mai te lo impediva, allora, quale grande cosa, Camillo?
E l’interrogazione diventava più precisa e più pressante.
— Io non ho mai finito di volerti bene, Magda cara — egli aggiunse, eludendo la domanda.
— Lo so, Camillo — ella disse, mettendogli una mano sul braccio, con l’antico gesto di carezza fraterna.
— E tu, mi ami sempre, sorella mia? — Moles chiese, scrutandola intensamente.
— Come prima, come sempre, Camillo. Io non amo che due persone: te, Camillo e colui che mi ha lasciato.
— Tu ami ancora Mario Falcone? — egli le domandò, sempre più tenendola sotto l’acuto suo sguardo.
— Io lo amo sempre. E non finirò mai di amarlo, Camillo.
— Non finirai mai di amarlo? — egli ripetette, lentamente, come se parlasse a sè stesso, constatando una verità preclara.
— Nessuna cosa e nessuna persona mi potrebbe farlo amare, per un istante, di meno, Mario Falcone, mio marito, morto in guerra e di cui porterò il cordoglio, tutta la vita — ella proclamò, a un tratto, con voce alta.
— Ah! — egli rispose, senz’altro.
Un silenzio: pensieri, sentimenti, conflitto di sentimenti e di pensieri, ma senza parole. E, da questo tumulto interiore, la richiesta netta e precisa:
— Perchè non mi hai mandato, in Roma, tutto quello che è restato, di lui, Camillo?
Egli corrugò la fronte:
— Volevo portartelo io stesso, Magda, rientrando a Roma.
— Poichè ritardavi, dovevi mandarmelo — ella soggiunse, nettamente.
— È vero. Ti chieggo scusa. Credeva sempre di partire, verso Roma.
— Io sono la sua vedova: e quella roba è mia