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dote sente, in sè, risollevarsi le sue energie, che erano avvilite dalla tristezza: il gran contatto lo ridona a sè stesso, oltre il male, e oltre il dolore, in un’atmosfera ove tutto si placa, tutto si esalta. È, forse, passata un’ora, quando Domenico il domestico, riappare dalla portiera, annunziando che è, in anticamera, don Giulio Lanfranchi.

— Venga, venga — e il vecchio vescovo sorride, all’idea di riveder il figliuolo suo spirituale.

— Giulio, Giulio, perchè hai tardato tanto? — gli rimprovera affettuosamente, mentre il giovine prete s’inchina, gli bacia la mano, si rialza e sta in piedi, finchè il suo vescovo gli fa cenno di sedere.

— Mi scuso tanto, monsignore — egli risponde, senz’altro.

— Ti ho fatto cercare, sai, nelle tue chiese di prima: san Camillo, santa Maria degli Angeli... Non ti avevano mai più visto.

— Difatti, non vi sono stato — e non soggiunge motto.

— Ti hanno trattenuto, è vero, come tanti altri, sotto le armi?

— Sì, monsignore: tre o quattro mesi.

— Vi era bisogno, lo so, negli ospedali...

— Sono rimasto agli ufficii dello Stato Civile di guerra: eravamo in molti a fare elenchi, più o meno precisi.

— Grande fatica, Giulio: centinaia di migliaia di morti... — sospirò profondamente il vescovo.

— Sì, varie centinaia di migliaia — e non va oltre.

— E, dopo, che hai fatto, figliuol mio?

— Sono stato a casa, a Città della Pieve.

— È giusto, dovevi essere stanco.

— Stanchissimo, mortalmente stanco, monsignore — e, per la prima volta, un velo di emozione, è nella sua risposta.

— Caro figliuolo mio! Ti sarai riposato bene, nel tuo grazioso paese, fra i tuoi.

— Mia madre e mia sorella...

— Buone donne, me le ricordo, Giulio, quando

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