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— Il più ricordevole, l’inobliabile giorno — rispose, profondamente, il nepote.

— Lo consacrasti, è vero, il tuo atto di vendetta e di punizione, alla tua patria oppressa da quei nemici, a tuo nonno che fu morente, in campo?

— Così, lo consacrai — dichiarò, profondamente. Guido Soria.

Dieci anni di meno mostrava don Francesco Soria, ravvivato dal suo intenso, ostinato, inplacabile odio patriottico e il suo magro corpo si agitava, sotto gli scialli, le sue mani segnavano col breve gesto, le sue parole. Il nepote, invece, aveva quel suo atteggiamento, come rassegnato a qualche cosa molto penosa: e sovra tutto, quella sua aria distaccata, distante, che lo intristiva, che lo invecchiava, egli che era stato così pronto, vispo, lieto.

— Questo scelleratissimo austriaco voleva ucciderti, è vero?

— ... l’ho creduto, nonno — e la voce era velata di un velo singolare.

— Le vostre due trincee erano molto lontane. Guido?

— Eh non tanto, nonno mio! — proruppe, più forte, il nepote — Quando egli veniva fuori, due o tre volte al giorno, e mi guardava, poteva prendermi di mira e uccidermi... Così ho, io, mirato e ucciso lui.

— Quando partisti, Guido, ricordati, lo dicemmo: Mors tua... Mors tua...

E attese, dal nepote, l’altra metà della truce frase. Ma essa non fu pronunziata. Il giovine pareva oppresso dai ricordi.

— L’austriaco era armato? Parla, Guido!

— ... Franceschi, il mio attendente, dagli occhi acutissimi, mi disse che l’altro era armato e che io eco minacciato.

— Vedi, vedi!

— ... in quell’estremo pomeriggio, quando egli esci, per la terza volta, proprio come se spiasse il momento propizio per uccidermi, Franceschi mi