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imparammo a venerare, e esaltare, per la sua misericordia, per la sua saggezza, per la sua clemenza? No. Non è quello, non è quello, è un altro, è lo Spirito del Male, è Satanasso, che è nel Cielo!

— Eretico, eretico, taci, o debbo maledirti! — grida, solenne, il vescovo, con gli occhi fissi, sul crocifisso, tremando in ogni vena, di santo dolore e di santo sdegno.

Con gli occhi sperduti, Giulio Lanfranchi si guarda, intorno: vacilla: crolla, innanzi al suo vescovo: gli abbraccia le ginocchia: balbetta:

— Perdonatemi... perdonatemi... Non volevo venire: vi fuggivo... mi avete chiamato... perdonatemi... non dovevo parlare...

— Levati, — ordina, severamente, don Filippo Morcaldi. — Non è più il tuo padrino, che t’interroga. Sei sempre negli ordini: e io sono il tuo capo religioso. Rispondi. Perchè, non reggendoti l’animo fiacco, non domandasti di lasciare il fronte?

— Credetti di poter ritrovare la mia forza.

— Chiedesti soccorso alla preghiera, alla penitenza, ti accostasti ai Sacramenti, per aver ausilio?

— Tutto ho fatto, ve l’ho detto. Per la vostr’anima che io venero, vi giuro che tutto ho fatto.

— Le assistenze ai malati, ai feriti, ai morenti, le hai tu compite come dovevi? Hai saputo consolare, far morire rassegnati, in Cristo, costoro?

— Sì, padre mio. Questo rimorso non mi trafigge. Sormontando ogni mia debolezza, vincendo ogni mia confusione, ricacciando in fondo all’anima ogni dubbio desolante, facendo tacere ogni mia ribellione, io ho ispirato, nei malati, nei feriti, nei morenti, la fede che mi sfuggiva, lo ho mentito, sapendo di mentire, purchè essi soffrissero in pace, morissero in pace.

Un silenzio lungo.

— E, adesso, che intendi fare? — chiede, severamente, il vescovo.

— Mi considero già fuori della Chiesa — risponde, reciso, il prete Lanfranchi.

— Molti, come te, ci hanno lasciati — continua