Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 258 — |
— Ma essa annulla tutto il passato, sergente Martinengo — ribatte, recisamente, il capitano Moles.
— È vero. Ho detto male, sventura, signor capitano. È una sciagura, per noi tutti. Io era ferito, per la seconda volta, quando mi presero: ferito alla spalla, più gravemente, di quando perdemmo il tenente Capece....
E coi suoi buoni occhi, carichi di una nobile tristezza, il sergente Giovanni Martinengo guarda il capitano Moles. Costui fa un cenno con la mano, quasi a far dileguare un ricordo: ma la sua voce è meno cattiva:
— Andate pure, sergente Martinengo.
Per quella mattina, l’inchiesta è finita. Sarà ripresa il giorno seguente. Il tenente Dellacasa raccoglie le sue carte, per fare, nel pomeriggio, il verbale di questo interrogatorio.
— A udir costoro — dice il capitano Moles, amaro — nessuno di essi è fuggito, o ha tradito. Tutti si battevano.... tutti erano in avanguardia.... tutti eran valorosi.
— Per varii, signor capitano, sembra vero — osserva, pensoso, il tenente Dellacasa.
— Siete ottimista, tenente.
— Forse. Che vuole? A me il caso della prigionia in guerra, mi sembra, come la morte, come la ferita, come lo scampo, un caso, non altro....
— A me fa schifo, tenente.
— E che avrebbe lei fatto, se questa sciagura le fosse capitata?
— Mi sarei tirato un colpo di rivoltella, il minuto seguente. Come il tenente Capece. Ferito gravemente e prigioniero, si liberò dalle medicature e si lasciò morire.
Fu nel pomeriggio del medesimo giorno che, all’albergo di Trieste ove risiedeva, da due mesi, il capitano Camillo Moles seppe, da un cameriere che una signora chiedeva di parlargli: e mentre egli era per uscire dalla sua camera, per discendere al salone, la signora che aveva seguito il