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don Filippo e la sua immensa afflizione, traspare a traverso la sua austerità. — La guerra ha tolto molti servi a Dio. Le nostre belle file sacerdotali sono disperse. Anche lo spirito religioso è sperduto. Tante chiese vuote di fedeli! Giulio, Giulio, tu non speri poter restare, con noi, poter ritornare, a noi?
— Non lo spero.
— Che farai, dopo?
— Non lo so.
— Tornerai dai tuoi?
— Non tornerò. Nel mio paese, mia madre e mia sorella morrebbero di dolore, se vi tornassi spretato.
— Sei povero, è vero?
— Sono povero.
— Come vivrai?
— Non so.
— Sai lavorare?
— Ero contadino, piccolo, come era mio padre. Ma è lontano questo tempo.
— Sei gracile, malfermo in salute. Che ne sarà di te?
— Non so; andrò lontano...
— E dove?
— Chi sa! Qualunque esilio servirà a nascondermi...
— Non ci vedremo più, dunque. Sono molto vecchio e stanco e molto tribolato. Ha voluto il Signore che la maggior tribolazione mi venisse da te. Così sia.
Giulio Lanfranchi fissa i suoi occhi disperati in quelli del suo vescovo. Vorrebbe, forse, parlare: ma le sue labbra restano chiuse, sulla sua disperazione.
— Io pregherò per te, Giulio — dice don Filippo, a bassa voce, con una infinita tristezza.
E senz’altra parola, senz’altro cenno, senza neppure un saluto, va via il prete senza fede, il sacerdote senza Dio, al suo ignoto e disperato destino.