Il secolo che muore/Capitolo XII

Capitolo XII

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Capitolo XII.

SI SPEGNE UN AMORE

Ma la madre e il padre della Eponina, che stillavano essi? Di qui non si esce; delle due cose l’una: od eglino non erano buoni come ci narrò il libro, o chi lo scrisse ha commesso un solenne svarione dimenticandoli fin qui. Ecco come stanno le cose. Marcello ritraeva assai della indole del suo omonimo romano: impetuoso ed avventato, per la veemenza della passione si spossava: uomo egli era da tagliare i nodi, non già da scioglierli. Percosso da tante e sì diverse sventure, non sapeva contro chi rifarsela, però dallo estremo furore trapassando allo estremo sgomento diventò taciturno intenebrito; ne perse il sonno, il cibo gli increbbe, wentì screpolarglisi la esistenza: cominciò a vedere [p. 184 modifica] mezzi gli oggetti circostanti; anco negli orecchi gli parve molestarlo un perpetuo tintinnio; gli si mise addosso una febbriciattola sottile come la pioggerella, che inganna il villano e lo infradicia fino all’osso. Però Isabella in tale stato non lo poteva lasciare. E quanto ad Arria non ci era da farne caso, ingolfata ogni di più nel mare magno della beghineria: quantunque ella vivesse in questo mondo, e qui dovesse avere gli affetti come aveva i bisogni, ella mandava tutto nell’altro: a modo di chi recapita le sue masserizie fuori di casa quando è in procinto di mutarla. Comunque giovanissima, ella aveva ridotto l’anima a carta pecora dove l’apatia andava scrivendo: «Che cosa importa affaticarci? A che giovano i pianti? Gli omei a che? Tanto non può cadere un capello senza il permesso di Dio! Tutto sta nelle mani della Provvidenza.» Ma non è così, neanche per gli iniqui che lo danno ad intendere. Perchè allora, a che andate amplificando la virtù della preghiera? Orazioni e preci che ritraggono troppo l’amore terreno, onde possano arrivare fino al cielo. Piglia un libro di preghiere e sincerati da te, se sostituendo al nome di Gesù quello dello innamorato, la tua figliuola non trova una bellissima lettera erotica uscita dalla fucina allora, da consegnarsi alla pollastriera perchè la porti; simili preghiere temperate al fuoco dell’amor terreno paiono frecce scoccate contro il cielo: [p. 185 modifica] finchè la forza che le spinse in alto dura, vanno in su, ma poi ricascano sul capo all’arciere che le saettò.

Aggiungi altresì che ad Isabella davano pensiero anche gli altri figliuoli: ella non avrebbe saputo dire per lo appunto in che l’affliggessero, e non pertanto sentiva una oppressione foriera di calamità; stringendoli al seno le pareva che i palpiti del cuor loro non corrispondessero a quelli del suo; i loro occhi ormai non sostenevano più il lampeggiare delle pupille materne; o col tenere le palpebre abbassate, ovvero torcendole altrove, essi le difendevano dal raggio materno, a mo’ che gli infermi di oftalmia le riparano dai raggi solari. Inoltre, dove si fosse ridotta la figliuola la signora Isabella non sapeva, e se, come si buccinava, a. Vienna, prima le voci della guerra vicina, e poi la guerra dichiarata l’avevano distolta da imprendere un viaggio forse inutile e certamente pericoloso.

Intanto le cose non erano state ferme fra Eponina e Ludovico; mutabile il cielo, che ci pende sul capo, ma quello dello amore mutabilissimo. Ogni volta più rade venivano a Ludovico le notizie da casa, e con le notizie più scarsi gli invii di danari. I danari recapitatigli per via del locandiere non rese ad Eponina come avrebbe desiderato: anzi, mentre stabiliva fermamente non accettarne più da lei, la necessità rise, ed entrata furtiva in casa la superbia, le [p. 186 modifica] diede di gambetto facendole battere uno sconcio stramazzone per terra. La superbia perfidiò un pezzo a non volersi confessare per vinta, ma quantunque continuasse la lotta, il di sopra alla necessità non potè ripigliarlo più mai. Non possedendo modo di procurarci i consueti svaghi della vita gioconda, ne conoscendone altri, o se li conosceva non allietandosene, tirava giù sbadigli a canto fermo; però le antiche consuetudini invece di attutirsi per lo scarso alimento, riarsero.

Di tanto essendosi accorta Eponina, generosa e innamorata, ci portò rimedio peggiore del male, perchè prese a buttargli là i danari con la pala, e per quanto gli desse non le pareva avergli dato abbastanza.

E’ ci hanno amori che girano attorno con la bisaccia, ed io ne conosco parecchi, ma cotesti sono amori da strapazzo, generati da un frate cercatore e da Venere pandemia sul termine di una via; quello di Eponina era degli amori che, dal turcasso in fuori, procedono ignudi; quindi dove riporre i danari non sanno. Ora, leva e non metti, ogni gran monte scema, ne era gran monte quello di Eponina; mise fondo a tutto il danaro; ed ormai non le avanzava se non parte dei gioielli, doni dei parenti, o degli amici.

Intanto le avvenne di sapere quello che tanto desiderava e rifuggiva ad un punto conoscere, voglio [p. 187 modifica] dire la cagione della fuga di Ludovico da Milano e la ripugnanza di lui a condurla per moglie. Certo giorno, entrata nella camera di Ludovico, mentre questi si trovava assente, vide Gaspero intento a mettere in sesto gli abiti del padrone: costui nello spazzolarli ne aveva lasciato cadere una lettera, la quale, senza che ei se ne accorgesse, erasi ficcata sotto il divano; ond’ella con bel garbo mandò per certa sua faccenda Gaspero fuori di casa, e raccolta la lettera lesse:

«Amato figlio,

Milano, ecc.

«Mi si spezza il cuore pensando che non ti posso scrivere altro che notizie desolate. L’ebreo Zinfi non intende rendere indietro i biglietti falsi che tu gli desti in pagamento della cambiale scaduta, se non a patto che tu gli assicuri il buon fine delle altre che verranno a scadenza. Dio mio! O come mai hai potuto creare tanti debiti? Capisco bene che tu, povero figliuolo, dei cento che ti obbligasti a rendere, forse hai ricevuto cinquanta; ma costui tiene il coltello pel manico: per cagione di cotesti sciagurati biglietti ci tocca lasciarci sgozzare senza gemere un ohi!

«Per tranquillarlo gli ho offerto tutto quanto mi resta; ne il saperti così ignudo di ogni ben di Dio è quello che più mi angustia; non mi dà [p. 188 modifica] tregua il giorno, non mi lascia chiudere occhio la notte il pensiero che, detratti i pesi che ci gravitano sopra, questi miei beni non basteranno a saldare i tuoi debiti. Causa poi di angustia acutissima sta nel doverti dire che te non posso aiutare in nulla; e per me mi trovo ridotta agli estremi: tutte le biancherie di casa sarebbero appena sufficienti a metterti insieme cento lire. Oggi farò cuore di rocca (o Dio! al solo pensarci mi sento accapponare le carni) per condurmi dalla duchessa Zelmi nostra cugina: mi aprirò con lei: confido che non rifiuterà sovvenirmi in tanta stretta, e allora ti fornirò di danari: procura starti più che puoi allo stecchetto; che ormai non so più a quale santo votarmi. Ora tocchiamo un altro tasto; tu sai, figlio mio, come per non darti pena io non mossi mai opposizione al tuo amore per la figliuola della sig.a Isabella; ma ora da te stesso comprenderai come ti sia chiusa la porta a farla tua moglie: lascio la condizione diversa, e il broncio dei parenti, e le censure degli amici di casa.... questo ed altro metto da parte, e domando: è egli decente che tu conduca nella tua onoratissima casa la sorella dell’uomo che ti ha tradito, dandoti in pagamento della tua cambiale biglietti falsi, ed esponendoti alla infamia per delitto non tuo? Molto più, che prevedo un fiero tracollo per la Ditta Boncompagni e Comp., e per consenso [p. 189 modifica] andarle dietro gli Onesti. E tu apprendi, figlio mio, che chi cammina sui trabiccoli finisce sempre col fiaccarsi le gambe. Mi duole davvero con tutta l’anima per cotesta fanciulla bella quanto virtuosa, e piena di talento come di bontà;.... ma ahimè! soffrirò e morire è la sorte della massima parte di noi altre figliuole di Eva. Ella, dove potesse consolarsi, troverà ricompensa a sollevare la sua casa, cavando costrutto dalla sua portentosa capacità di cantante, mentre veruno aiuto recherebbe alla tua, ecc.»

E qui raccomandazioni, e consigli, e precauzioni solite a suggerirsi, come sarebbe di chiudere bene la stalla quando sono fuggiti i buoi.

Eponina rimise la lettera al posto dove l’aveva raccattata, poi, agguantandosi alla parete per non cadere, tornò nella sua camera, dove si gettò boccone sul letto. Sul principio, per quanto si sforzasse, ella non riuscì a connettere due pensieri insieme: sentivasi il cervello indolenzito come le avessero dato un fiero picchio sul capo: dopo trascorsa molta ora, un remolino d’idee rotte e confuse prese a turbinarle nella mente, il quale ella non riusciva a dominare. Alla fine, quando se l’aspettava meno, ecco divamparle l’intelletto nella limpidezza consueta a mo’ che le legna verdi fanno, donde dopo molto fumo guizza fuori la fiamma.

Se per me si volessero riferire tutti i pensieri [p. 190 modifica] di cotesta anima travagliata, mi verrebbero meno l’olio e il lucignolo; basti dire ch’essi giravano e rigiravano dentro questo cerchio:

«Che fai? che pensi? ella mulinava fra se; egli è venuto il tempo di recarti in mano la tua anima e scaraventarla come un sasso contro il Creatore, il quale ci plasmò così perchè ci sentissimo morire? No; — la lapide mortuaria è lo scudo dei poltroni. Io non getterò le armi sul campo, lo vo’ serbare quanto più posso di fiato per poter dire in faccia all’eterno tiranno: — Tiranno, e modello di quanti furono e saranno tiranni, per requie tua e pace dell’universo disperdi la tua divinità in brani negli orrori dell’Erebo e della notte: fa di disfarti: soffia sulla tua luce, e spegnila, poichè tu non la sapesti accendere tranne per illuminare delitti e sventure. Pari nella desolazione alla Niobe antica, a me non fia dato sottrarre veruno innocente al tuo saettare maligno: non importa: trafiggi! Le ferite che farai attesteranno la tua immanità: le margini di quelle come altrettante bocche aperte ti urleranno una osanna di maledizione. Io morderò il granito della macina sotto la quale mi stritoli; io mi industrierò che una scheggia delle mie ossa infrante ti entri negli occhi e ti faccia lacrimare. Questo artefice infinito del dolore provi anche egli una volta che sia dolore. Dunque rimango, e rimanendo, che farò io di cotesta povera creatura di cui [p. 191 modifica] la vita ho intrecciato dentro la mia? — Pongo per fondamento ad ogni mai risoluzione che se egli non conviene a me, nemmeno io convengo più a lui. La contessa si affanna pel decoro della sua casa; io popolana mi arrabatto di più per quello della mia persona: ella bada al di fuori; io al di dentro: a lei fra il parere e l’essere piace più il parere; a me preme il parere quanto l’essere. La nobil donna senza addarsene sofistica, e trova suo pro nello ingannarsi. Supposto vero che mio fratello Omobuono abbia dato in pagamento dei pagherò di Ludovico biglietti falsi, egli è chiarito ch’egli glieli abbia dati consapevole della loro falsità? Egli banchiere può riscontrare uno per uno i biglietti che riscuote? Non paga egli un cassiere preposto a questa bisogna? È il primo banchiere a cui vennero consegnati biglietti falsi? Tutto giorno non succede? — E poi, o che cosa fantastica costei? Renda ella i biglietti ad Omobuono, ed Omobuono le renderà i pagherò di Ludovico: nè credito nè debito da una parte e dall’altra: faranno patta quando la signora contessa voglia: ma no.... perchè rimarrà sempre a estinguersi il debito verso il giudeo Zinfi. O signora, se infamia ci è qui dentro, sa ella in che cosa consista? Consiste nel mandare a male il patrimonio avito; nel commettere spese che non si possono sopportare; nel contrarre debiti che non si sa come pngare. E quando con infiniti [p. 192 modifica] stenti giungessero lor signori a saldare il giudeo Zinfi, o come rimarrebbero essi? Costretti a limosinare dai nobili parenti un tozzo che verrebbe loro negato, o, se non negato, largito duro, a spizzico e con rinfaccio. Chiamasi nobiltà questa? Ricchezza e bei costumi formano nobiltà: quella senza questi è veste senza fodera, questi senza quella sono fodera senza veste. Giacchè questa povera anima di nobile mi si è rannicchiata in grembo, io la ristuccherò, la invernicerò e metterò a nuovo, le fornirò danari, stato e fortuna, affetti e mente; non istà in poter mio negare o concedere. Vedremo accomodarlo nella carriera diplomatica; onde fare grande cammino per questa via bastano vizi eleganti, orecchio fino, capacità di giocare una partita di amore come una partita agli scarti per attrappare fra un bacio e un altro una confidenza politica. Nobilissime spie galleggianti sopra gli acquitrini del disprezzo pubblico, in grazia di quattro croci o sei che si mettono sotto le braccia a modo di sughero. Signor conte, signora contessa, non vi pare provveduto così al decoro della casa vostra? Credo di sì. Si lascino pertanto servire. Via questo amore da me. È presto detto, ma ti basterà l’animo per farlo? Perchè no? Quando un topo s’insinua dentro un armadio, si agguanta per la coda e si sbalestra fuori del balcone; e non potrò adoperare così con lo amore, che mi si è fatto canchero nel cuore?» [p. 193 modifica]

Appunto perchè egli è un cancro tu non lo potrai svellere, o lo svellerai tirandoti dietro il cuore. L’amore di sopra alle spalle della superbia sogguarda tutto quanto questa tratteggia sopra la lavagna, e ride: quando ella ha finito, stende la mano e ne cancella ogni cosa.

In questo proponimento pertanto ella calmava l’interno scompiglio, e colta la occasione opportuna, disse a Ludovico:

— E’ parmi tempo che noi dobbiamo pensare di proposito a partirci da Vienna: la guerra sta per rompersi, e però non giudico sicura la più lunga dimora in questo paese; la corrispondenza interrotta; impossibile, finchè dura la guerra, trovare occupazione utile; restabilita la pace si sa, dopo lo incendio rimangono le ceneri: ogni giorno lo scarso peculio si assottiglia; stremato che sia, come rinnovarlo?

E molte altre cose in proposito ella aggiunse tutte savie e discrete, per cui Ludovico accettò di stianto il partito che gli veniva posto dinanzi: bisogna però dire che egli ci aveva le sue buone ragioni particolari, le quali erano che da Milano, dopo l’ultima, non aveva più ricevuto lettere, e poi perchè perduti mille fiorini alla bisca non sapeva come pagarli; onde pareva a lui, come a tutti coloro che, o stanno per corrompersi, o sono corrotti, che la vergogna trasportata altrove fosse evitata, come se questa non salga teco in carrozza [p. 194 modifica] e teco scenda in locanda, ti si assida a mensa e ti rincalzi a letto.

— E dove, Eponina mia, ti parrebbe che noi avessimo a condurci? con mal celata ansietà domandava Lodovico.

— Io ci lio pensato su, e giudico che sarà il meglio metterci addirittura in cammino per Pietroburgo.

— A Pietroburgo? Misericordia! E con quale viatico ci metteremo in cammino?

— Di questo non ti dare pensiero, Ludovico, ci provvederò io.

— E a Pietroburgo come faremo a camparci?

— Non te ne dare pensiero, provveder© io dando lezioni di cauto e di suono.

— Ma come ti auguri formarti da un punto all’altro la clientela? Non conosciamo il paese, non conosciamo la lingua.

— Chi ti ha detto che io non conosco la lingua russa? Io la parlo e la scrivo.

— E dove tu l’hai appresa, burlona?

— Io l’ho appresa qui nelle serate che mi lasciavi sola; sul primo mi metteva paura, ma poi l’ho rinvenuta alla prova facile a ritenersi, quanto soave a favellarsi; che vuoi tu che io ti dica? La tedesca mi è riuscita due cotanti più dura.

E queste furono trafitte all’orgoglio di Ludovico, il quale rispose: [p. 195 modifica]

— Come è così, mi stringo nelle spalle; ma quello che dobbiamo fare facciamolo presto, che lo indugio potrebbe pigliar vizio.

— Anco domani, se ti piace.

— E domani sia.

Eponina accontatasi coll’onesto Hans, il quale non rifiniva accertarla che le passioni dei campi di battaglia erano fermate dai gabellini alle porte: diversi i guerrieri dai borghesi quanto le campane da cui le suona: continuasse a starsene dentro il suo albergo tranquilla: quando ce ne fosse stato il bisogno le avrebbe prestato egli stesso sicurtà gratis et amore Dei. Tuttavia, stando la giovine ferma a partire, volentieri si tolse il carico affidatogli dall’Eponina di vendere le gioie al suo maggiore interesse.

Il buon viennese, uso a camminare lungo le frontiere della onestà senza mai sconfinarle, come i topi che girano sull’orlo dei barattoli e non ci cascano dentro, se ne andò difilato da certo suo amico gioielliere, affinchè gli stimasse le gioie, informandolo qualmente un forastiero albergato nella sua locanda, ridotto al verde, volesse disfarsene per cavarne danari.

Il gioielliere, nel presagio di averle ad acquistare, egli ci disse sopra parole più che non ne ha un leggìo; e poi conchiuse stimandole un buon terzo meno del giusto loro valore. Allora l’onesto [p. 196 modifica] locandiere, dopo un monte di ringraziamenti, riprese le gioie e disse che per cotesto prezzo era intenzionato accollarsele egli per conservarle un pezzo, onde se il proprietario volesse riscattarle si il potesse, previo rimborso del capitale e degli interessi. Il gioielliere gli rispose con un risolino soave quanto il filo di un rasoio, aggiungendo:

— Compare, voi siete quel fiore di galantuomo, che siete.

L’onesto tedesco si recò a scrupolo avvantaggiarsi di un kreutzer sul valore delle gioie; esso tenne più dicevole abbrivare il conto, perchè le riprese dell’albergo sarebbero diminuite di certo; il quale danno era chiaro come l’acqua che egli lo avrebbe patito per colpa degli italiani, imperciocchè tutti questi subbugli non nascevano per lo appunto dal costoro intestarsi a contrastare ai tedeschi il pacifico possesso della Lombardia e della Venezia? Ora la signora Eponina era amabilissima dama, ma a fin di conto italiana e nemica.

— Oh! a proposito! esclamava Eponina mentre ripiegava una sottoveste di Ludovico per assettarla dentro la valigia, bisogna portare i passaporti all’ambasciata russa perchè ci appongano il visto.

— Certo, soggiunse Ludovico, non possiamo farne a meno. [p. 197 modifica]

— Ma ora cho ci penso su, riprese Eponina, mi sembra che sarà opportuno per mille ragioni rinnovare alla legazione italiana il nostro passaporto in nome di ambedue, dandoci la qualità di marito e moglie

— Io veramente non ci vedrei questa necessità, perchè tu sai che su tale proposito il mio partito è preso.

— Non dubitare, Ludovico... in ciò ci troviamo d’accordo più che non credi... lo faccio nel tuo stesso interesse... perchè comprenderai come il titolo di marito onesti la compagnia che tu mi tieni... e a me il titolo di moglie agevolerà lo accesso nelle famiglie. Lo sai? La nostra società beve grosso sull’essere, per rifarsi sul parere. Ancora, noi andiamo in paese di gente vana della sua nobilea, quindi il titolo di contessa mi servirà di salvocondotto presso di loro. Però rimane inteso e stabilito fra noi che noi non siamo, nè saremo mai marito e moglie.

Proprio sul punto di mettere il piè sul limitare per partire, Eponina stringe pel braccio Ludovico, e tiratolo indietro lo fissa negli occhi e gli domanda:

— Lodovico, non celare niente alla tua amica, lasci verun debito a Vienna?

— Io? E che debiti ho da avere? rispose Ludovico facendosi rosso fino alla radice dei capelli. [p. 198 modifica]

— Tu non mi dici il vero, Ludovico; perchè ti periti ad aprirti meco? Non sono e sarò sempre la tua migliore amica nel mondo?

— Ma a te che preme se io mi abbia o no debiti?

— Poichè tu mi presti il tuo nome, finche lo porto mi preme che sia onorato; e la tua fama è la mia; quando te lo renderò, ne farai quello che vuoi: per ora no.

E questa fu una nuova trafitta al cuore di Ludovico, che confuso e umiliato ebbe a confessare che lasciava un debito di giuoco di mille fiorini con tale che per giudizio universale lo aveva giuntato, avendo reputazione di baro emerito.

— Questa era buona ragione per non giuocarci, ma non pagarlo è pessima: mi duole che in simile congiuntura non possiamo sprovvederci di danaro: aspetta un momento che vedrò di provvedere anco a questo imbarazzo. Il tuo creditore come si chiama?

Ludovico glielo disse, ed ella condottasi a trovare l’onesto Hans locandiere, lo chiamò a parte e sì gli disse:

— Mio buon signore, il conte, costretto a partire su due piedi, lascia dietro di sè un debito di giuoco.

L’onesto locandiere, presentendo una domanda d’imprestito, levò le spalle mormorando:

— Oh! di questi debiti veruno si dà pensiero; quando se ne ha, si pagano. [p. 199 modifica]

— Ma il vincitore è un cavaliere; certo barone Kircher, ebreo.

— Buono, per Dio! Gli è un truffatore di cartello. Parta pure il signor conte senza scrupolo di coscienza.

— No signore; ciò non permette al signor conte la sua illibatezza: voglia, caro signore, essermi cortese di vedere il signor Kircher e dirgli che il conte non si parte da Vienna come i suoi antenati di Egitto, sebbene il paragone non sia per lo appunto preciso. Sia discreto, e non passeranno mesi che riceverà per mezzo suo i mille fiorini, se pure gli basterà il cuore di pigliarli.

L’onesto Hans, liberato dalla minaccia di un imprestito, rispose:

— Eh! il cuore gli basterebbe per pigliarne anco centomila: viva tranquilla, che lo persuaderò ad aspettare senza aprir bocca... Poi, come se dicesse a sè, continuava: che brava gente son questi italiani! Per me l’ho sempre detto! quando se ne incontra uno, ci sentiamo ricreare come dal primo fiato di primavera. Peccato che non ci vogliano lasciare possedere in pace la Lombardia e la Venezia! Peccato che li dobbiamo persuadere a legnate sul capo! Allo italiano per essere paragonato al pane non gli manca altro che lasciarsi fare come lui a morsi senza dire nulla. [p. 200 modifica]

Giunti a Pietroburgo, si acconciarono di casa assai decentemente, e siccome Eponina sapeva che mentre il grano cresce spesso l’asino muore, così si diede subito attorno per rintracciare talune persone da lei conosciute a Milano e a Torino, dame e cavalieri che andavano per la maggiore, e di che tinta! Anco da Vienna si era procacciata copia di commendatizie per gente di alto affare, sicchè dopo pochi giorni si trovò a navigare in pieno mare col vento in poppa. — Accolta, blandita, portata in palmo di mano, Eponina, arrendevole ai consigli altrui e per farsi conoscere ad un tratto, promise che avrebbe cantato in certa accademia, la quale sotto il patrocinio della imperatrice si dava a benefizio delle madri impotenti ad allattare i propri nati. L’augusta donna, penetrandosi della frequente richiesta di figliuoli mossa dall’augusto imperatore suo marito, per diffondere le delizie del suo paterno dominio da Varsavia fino al Kamchatka, si metteva in quattro ad assicurargliene la produzione.

Però Eponina giuocava una grossa posta, non per colpa sua, bensì a cagione degli amici, che con lodi superlative la levavano a’ cielo, e forse un po’ più in su: per buona ventura ella non pure vinse, ma stravinse. [p. 201 modifica]

Non mai accadde ai petti russi sentirsi investiti da tanta dolcezza; a onda sopra onda scorreva sopra loro il piacere. Principi e borghesi, uomini e donne, preti e soldati manifestavano la intensità del giubilo in guisa, che tu gli avresti reputati tanti apostoli che uscissero dal cenacolo1: non acclamazioni, ma urli: moti irrequieti delle membra; un battere palma a palma da levarsi le galle alla pelle; un abbracciarsi e un baciarsi per tenerezza; chi si rizzava su di stianto come uno stollo da pagliaio; chi si abbandonava a braccia aperte sopra la seggiola: poi cominciò un gettito di fiori di ogni ragione, côlti non già per le aiuole dei giardini, bensì sopra i cappelli delle signore: non tessuti dalle mani della natura, ma da quelle delle crestaie: e più infervorandosi per far più presto gittarono cuffie, gittarono piume, gittarono ventagli, e borse, e fazzoletti, e pendenti, e perfino.... lo dico o lo taccio? E perfino una parrucca. — Chi si trovò presente al caso non rinvenne nell’antica o nella moderna storia successo da poterglisi paragonare: non le convulsionarie di S. Medardo, non quelle che curò Boerhave nell’ospedale di Harlem; non gli Abderitani, che per tre giorni durarono matti; non le scapigliate baccanti furenti pei gioghi di Citerone; forse ci si [p. 202 modifica] sarebbero accostati i Coribanti, i quali tutti, fuori di se dai salti, dai gridi e dallo strepito delle lancie, degli scudi e dei tamburi percossi in onore di Ati castrato, si castravano. Chi se ne intende afferma che di riscontro a cotesto smodato entusiasmo potrebbe stare unicamente la frenesia da cui (secondochè raccontano le Gazzette ufficiali) si sentono presi gli italiani ogni qualvolta contemplano le sembianze auguste di Vittorio Emanuele loro re; conciossiacosachè la frenesia costituisca il grado supremo della pazzia, anzi a modo che il pantheon conteneva tutti gli Dei, ella comprenda in se tutte le varie infermità dello intelletto umano, come sarebbe a dire: lo sragionamento, la mania, la monomania, la demenza, la imbecillità, la stoltezza, la stupidità, la scioccheria; Signore! quante mai cose, giusta l’opinione delle Gazzette ufficiali, ha virtù di suscitare negli intelletti degli uomini italiani la sembianza augusta del re! — E dico intelletti umani, perchè è noto che la natura, fra tutti gli animali, concesse ai soli uomini la privativa di diventare matti.

La imperatrice volle vedere Eponina ed avendola trovata come valorosa, modesta e bella, tremante di emozione si tolse un ricchissimo braccialetto dal polso e lo allacciò a quello della giovane; e siccome questa, avendo presa la mano alla donna scettrata, con atto umile gliela voleva baciare, la [p. 203 modifica] imperatrice non lo sofferse, ma postele le mani sopra le spalle, si trattenne alquanto a contemplarla; poi la baciò in fronte e le disse:

— Benedetta tu sia fra le donne del tuo paese e del nostro.

Ed Eponina in ischietta favella russa le rispose:

— Benedetta sii tu, madre di popoli e gloria di prosapia di eroi.

La imperatrice nel sentire lo idioma russo sulle labbra di Eponina rimase estatica: se la Corte russa non andasse illustre per esempio perenne di castità, e se Eponina non fosse stata femmina, quasi quasi ci era da temere che l’avrebbe inalzata di punto in bianco all’alto ufficio di favorito.

Veramente dai tempi nei quali Atea re degli Sciti, udendo sonare il flauto a Ismenia, disse: «per me gli preferisco il nitrire del mio cavallo,» a quelli di adesso, pei russi gran tratto ci corre. I francesi un giorno dispensatori del biasimo e della lode dissero per gbiribizzo: stropiccia un russo e ci troverai sotto un cosacco, ed il frizzo durò finchè il mondo si accorse i francesi giudicare ordinariamente come Minos, con la coda. Noi, meno presuntuosi e più giusti, diciamo che i russi non possiedono per ora quei supremi intelletti che soglionsi chiamare Genii: però il Brulow nella pittura e il Pouskine nella poesia ai tempi nostri furono giudicati eccelienti; e il primo sopra il secondo assai, e così [p. 204 modifica] credo ancora io. I tedeschi si vantano dirittamente popolo per arti, scienze e lettere a moltissimi primo, secondo a veruno; ma per sentire il bello, quanto a me, pongo innanzi a lui il russo. Di vero il tedesco armato di compasso e di scalpello procede al calcolo ed alla notomia dei suoni, dei colori, dei disegni e degli affetti: per lui vuoisi conseguire l’estro e la ispirazione per via di regole matematiche; quindi accade sovente ai tedeschi che, mentre essi credono aliare pel cielo della poesia, danno senza accorgersene un tuffo nella metafìsica. Quando il poeta tedesco cava la materia dei canti dai concetti usciti dal cuore del popolo commosso, allora ritrae cose piene di palpito umano; se diversamente lo desume della propria fantasia, egli crea un fantasma corruscante di tutti i colori dell’iride, ma nebbia pur sempre. Ne vuoi la riprova? Piglia ad esempio i due Fausti di Goethe; la leggenda popolare gli porse il primo; però tu qui vedi, senti e ti addolori: il secondo è una splendidissima emicrania poetica: un brulichio irrequieto di atomi luminosi traverso i raggi del sole, nù più ne meno della musica del Meyerbeer. Metti eziandio il Goetz di Berlichingen a confronto col Tasso, e ti verrà confermata la esperienza. L’arte non crea, l’arte abbellisce; la creazione è lampo di Dio ripercosso dall’intelletto umano. Non fate pagare gabella alla ispirazione, non la frugate, non vi confondete a [p. 205 modifica] guardare che cosa ella si porti sotto; esponete le fibre del vostro cuore o del vostro cervello al soffio della passione, ed esse vibreranno armoniche come le corde dell’arpa eolia. Conservate l’anima giovane, accogliete religiosamente le impressioni magnanime ed amorose, onde ci calchino bene l’orma, e molto sentendo riuscirete a fare sentire molto. Il russo si trova in simile stato; perocchè in lui la natura non sia corrosa dal costume pravo; nè tanto è barbaro da non comprendere le opere grandi della natura e dell’arte, nè tanto è incivilito da rimanere indifferente a tutto pel fradicio della corruzione. La Russia con molti vizi di meno, con alcune virtù di più di noi, oltre le miniere del rame, dell’oro, della malachite, possiede nel suo grembo un’altra miniera inesplorata fin qui, ma forse più copiosa di tutte, quella dei portentosi artisti e dei poeti, e dubito forte che a quest’ora in lei sia nato il conquistatore eletto a mutare la faccia del mondo.

Intanto che Lodovico ed Eponina si limavano di agonia intorno agli ultimi cento franchi, il dono della imperatrice scese sopra di loro come rugiada al cespite dell’erba inaridita; ond’è che Eponina, senza metterci tempo fra mezzo, chiamata a sè persona amica, s’informava da lei quali per opinione sua fossero i mercanti di gioie più accreditati della città, desiderando ella commettere un assortimento

ioie per fare degno corredo al magnifico [p. 206 modifica]

braccialetto, dono della imperatrice: l’amico rispose Pietroburgo andare piena di gioiellieri, principalissi mi due, Anania Caieky e Ivano Rotting, ebreo il primo, cristiano il secondo, e questi fornitore di Corte. Eponina, com’era naturale, scelse l’ebreo, e pregò l’amico suo di avvisarlo che le andasse a casa. Anania, sentendo che ci era da tirare la rezzola con la speranza di averne un grosso barbio, andò a tiro di ale, ed introdotto da Eponina, prese ad adorarla con le smancerie servili che gli ebrei sogliono praticare molto per naturale vilezza e più per eredità di abiezione: certo di avere a sostenere le parti di venditore nel prossimo contratto, incominciò a dissertare intorno la scarsità sempre crescente di brillanti di acqua pura; la più parte di quelli che entrano greggi in commercio, dopo lavorati si scoprono verdastri, senza raggio, e non vale il pregio spedirli in Olanda a farli lavorare a forma dei trovati moderni; vado o mando alle fiere di Brodi, di Nini-Nowogorod, e non mi riesce rinvenire nulla di buono: qualche cosa di mediocre arriva in Siberia dall’Asia, ma la terra classica dei diamanti, checchè ne dicano, sarà sempre l’India; peccato che i Rajah non li vendano, e gli inglesi quando gli agguantano li fanno vedere traverso una gabbia, come il Koke-noor alla esposizione di Londra! Pertanto difficile oggi trovare diamanti nell’India, caro ad acquistarli, pericoloso estrarli di costà. — Quale [p. 207 modifica] però non fu la sua maraviglia, per non dire spavento, quando Eponina, troncatagli ad un tratto la parola, lo chiarì com’ella non intendesse comprare, bensì vendere. Si tacque confuso, come uomo che si accorga avere sbagliato sentiero; e attese poi con industre precauzione a dare indietro non disdicendo addirittura il detto, cliè sarebbe stato un cucire la toppa nera col filo bianco, ma ponendo innanzi una filastrocca di argomenti, i quali, comunque procedessero paralleli ai primi, tuttavia avevano virtù di disfarli.

Eponina per tagliar corto gli mostrò il braccialetto, alla vista del quale le grinze della fronte di Anania si spianarono, lo invase tanta dolcezza, che lo sforzò ad esclamare suo malgrado: magnifici! Non ci era caso, mal giorno correva per Anania; si sarebbe morso la lingua, ma parola detta e sasso gettato non si possono più tirare indietro: però, più per debito di coscienza ebrea che con isperanza di rimediare, aggiunse: magnifici diamanti invero, se non pendessero alquanto allo scuro, onde scapitano metà prezzo.... per lo meno.... a dire due terzi non sarebbe troppo....

— Che dite mai? gridò Eponina, levando le mani al cielo come vinta da orrore; ma non sapete, che sono un dono di S. M. la imperatrice? Ardireste voi tacciare di spilorceria S. M.? Vi attentereste a calunniare le sue auguste braccia, come quelle [p. 208 modifica] che sarebbero state contaminate dal contatto di diamanti scuri, di verun pregio, da bottegaie, anzi da pescivendolo?

Anania, spaventato, apriva e chiudeva la bocca senza susurrare parola; pareva un pesce rosso chiuso dentro una caraifa; di un tratto si appose il monile alla fronte, poi alle labbra, lo baciò divotamente, e ripigliati gli spiriti favellò:

— Tutto quello che viene dalla imperatrice e dall’imperatore è sacro; ma come l’eterno Dio lassù nei cieli è circondato di stelle più o meno sfolgoreggianti di luce, e senza offesa di lui possiamo osservare che Venere scintilla più di Saturno, così S. M. può possedere nei suoi tesori diamanti di pregio minore o maggiore, nà credo mi sia impedito rilevarlo senz’oltraggio.... piuttosto, cara lei, mi pare... se non isbaglio.... altrimenti mi rimetto, che lei non faccia troppo onore a S. M. vendendo subito il dono di tanto augusta persona.

Per questa volta toccò ad Eponina a riparare la botta, e la riparò male; presa a soqquadro rispose:

— Necessità non ha legge.

L’ebreo allora, chiappata la mosca a volo, disse: — Cagna di cristiana, dunque il bisogno ti strozza; questo però fra se; di fuori raddoppiava venerazioni ed ossequi. Adesso incomincia un lungo batostare tra il di più della pretensione e il meno dell’offerta; l’ebreo non voleva crescere un centesimo [p. 209 modifica] dai quindicimila fraiiclii, e ne rubava mezzi. Eponina uggita della fastidiosa tenzone conchiuse:

— Orsù! Voi mi darete ventimila franchi dei diamanti; mi lascerete il cerchio di oro, nel quale sostituirete ai diamanti tanti bei cristalli di quarzo: sostituzione, bene inteso, che pei cristalli quanto per la mano di opera voi farete a vostre spese, oltre i ventimila franchi, che mi hanno a venire in tasca senza alcun defalco; e con patto che prima d’incastonare i cristalli, voi me li farete esaminare e scegliere.

— Mi possano, cara lei, cascare gli occhi che ho davanti; possa non più vedere i tabernacoli di Isdraele, se quello che mi domanda non supera di un terzo il valore dei diamanti. Ella, mia padrona reverita, se in bellezza supera Ester, nella sagacità potrebbe dare venti punti ai sessanta alla regina Saba; ma creda, per vita mia, se Anania facesse affari come propone lei, diventerebbe più povero di Giob. Le parrebbe giusto che, dopo tanti anni di fatica, avessi a trovarmi ad avere edificato sopra l’arena del Giordano? Lascio considerarlo a lei.

— Basta così, signore Anania; pregovi a volermi scusare il disturbo, mi volgerò al signore Ivano Rotting, che spero trovare più ragionevole di voi: se m’ingannassi, in qualche altro modo provvedere.

— Mia signora, si accomodi; solo vo’ dirle una [p. 210 modifica] cosa che desidererei mi fosse creduta senza giuramento; dov’ella pensasse che per essere Anania circonciso e il signor Ivano battezzato, lo troverà più arrendevole di me, ella sbaglia, e di grosso: circoncisione o battesimo non genera differenza nel mercante: sopra la professione che ognuno di loro professa, ce ne ha una terza, comune ad ambidue loro.

— Mio degno Anania, io penso che voi possiate avere ragione; ma a provare non si rimette nulla.

— E veda, proseguiva l’ebreo, circa ai cristalli io la potrei servire unicamente, che possiedo i più bei quarzi di cristallo che sieno stati mai raccolti nell’Aitai: ci vuole occhio esperto di molto a distinguerli anco messi accanto ai diamanti genuini; e questo, mi sembra, non dovere riuscire indifferente alla mia signora.

— Eh! fino a un certo punto non dico di no. — E così dicendo Eponina si levò in piedi in atto di accompagnare Anania, il quale andando lemme lemme lasciò cadere queste parole per terra, rade, ad una ad una, perchè facessero più romore.

— Ivano... gioielliere di Corte... è sicuro che ha fornito il monile... la indiscrezione dorme a letto con lui... ogni giorno egli si ubbriaca di acquavite... Anania tiene le labbra chiuse più di un sepolcro.

Vedendosi giunto sopra la soglia della stanza senza che cotesto parole avessero fatto breccia, vi [p. 211 modifica] si fermò aill’improvviso; solo volgendo il capo con le spalle disse:

— Vadano ventimila franchi da mia mano e il braccialetto, ma libero da ogni altra spesa o fattura.

— Non si fa nulla: ho bisogno che il monile mi rimanga.

Anania ripose il capo nella prima posizione e si spinse avanti due passi; di là senza neppure darsi lo incomodo di voltarsi, soggiunse:

— Dove andò il brigantino vada la barca; le rimanga il braccialetto, ma tocchi a lei la spesa dei cristalli e della incastonatura...

E siccome Eponina, non rispondeva, egli ci appose per glossa: E questo lavoro, cara signora, eseguirò io per un prezzo da convenirsi.... quasi per nulla, veda... duemila franchi tutto compreso... cristalli... legatura... ripulitura.

Ed Eponina zitta; onde l’ebreo, spaurito che ella si fosse partita dalla stanza, riggiravasi tutto di un pezzo sopra i calcagni, come ventarola del camino ad un sbuffo di libeccio.

— Dunque, cara lei, come vuole; che non possa rivedere la famiglia se con lei guadagno tanto da fare gli azimi per Pasqua.

— S’intende, Anania, per famiglia la vostra, e per vostri gli occhi che avete nella fronte; basta così, conosco le espressioni maligne del vostro [p. 212 modifica] odio impotente, e le disprezzo: odiate e tremate: intanto procurate osservare la promessa e portatemi a far vedere cristalli di primissima qualità.

— Viva tranquilla... glielo aveva detto ancora io che era cosa della massima importanza; chi non se ne intende non li distinguerà nè manco scoperti, i periti non li potranno conoscere sotto i rabeschi delle trine di Malines...

— Ai ventimila franchi ne aggiungerete duemila che terrò in pegno della esecuzione dell’obbligo vostro.

— Pare, cara signora, che lei non si fidi?

— Eh! non pare, è.

— Fidati fu un galantuomo, e non ti fidare galantuomo più di lui; peccato che non sia mia figliuola! Scusi, di che paese è vostra signoria?

— D’Italia.

— Per vita mia, me ne era accorto.

— Pur troppo; noi vi pratichiamo in Italia assai più che non si dovrebbe, e però riteniamo del fare vostro più che non si vorrebbe; nè a vero dire gli ebrei sieno banchieri o mercanti, noi sperimentiamo peggiori.

— O chi reputate i peggiori?

— Gli ebrei politici, ma non solo in Italia, bensì credo anche nella Russia, massime in Polonia.

— Finiamo il nostro affare.

— Finiamolo. [p. 213 modifica] Eponina dai ventimila franchi tirò fuori tanta somma quanta, tenuto conto da piazza a piazza, potesse formare il valore di mille fiorini austriaci, e mediante rimessa spiccata a nome del conte Ludovico Anafesti, la spedì all’onesto locandiere di Vienna con la commissione di pagare l’ebreo Kircher. Ancora fece trarre, sempre a nome di Ludovico, sopra il banchiere Bellinspilli di Milano, una cambiale di dodicimila franchi all’ordine della contessa Anafesti: la cambiale ella accompagnò con una lettera, mediante la quale si fingeva che Ludovico l’avvisasse della sua presente dimora a Pietroburgo; in breve le avrebbe spedito altro denaro: del debito con lo Zinfi non si pigliasse travaglio: la fortuna placata avergli adesso aperto una strada dove potersi avvantaggiare con onore, negoziando sopra i valori pubblici, dietro la scorta di persona, in compagnia della quale non poteva perdere. Le molte occupazioni obbligarlo a valersi, per la corrispondenza, dell’opera di un segretario; però non aombrasse, se vedeva la lettera scritta con carattere diverso dal suo. Indirizzasse la risposta sotto fascia al signor conte Caroti aggiunto alla legazione italiana a Pietroburgo, e conchiudeva con un geroglifico, che ritraeva bene abbastanza le iniziali di Ludovico Anafesti.

E già Eponina, sagacissima donna, avendo rinnvato la conoscenza del conte Caroti, ottenne [p. 214 modifica] licenza di fare indirizzare a lui le lettere da Milano, con promessa di consegnarle tutte quante a lei: anzi, annuente il conte, s’impossessò di alcuni quaderni di carta con la impronta della legazione italiana, sopra la quale ella scrisse la lettera che si fingeva Ludovico spedisse alla madre: e ciò al fine di meglio colorire la cosa.

L’onesto locandiere di Vienna rispose puntualissimo e presto, chiudendo dentro la sua lettera ampia ricevuta del barone ebreo per saldo, fino e quietanza di ogni suo avere, pretensione, ecc. fino al presente giorno; ed aggiungeva: «Non creda però, mia signora amabile, ch’io glieli abbia dati tutti, che anzi mi andava proprio il sangue a catinelle per quelli che io gli ho dato. Avendolo avuto a me, io gli ho discorso così: Barone, non ti ho chiamato già per dirti che sei un ladiro, perchè questo lo sai da te, ed è un pezzo: non per leggerti la sentenza che ti condanna alla galera, perchè io non sono giudice, ma locandiere, ed arrostisco polli, non uomini: non per ribadirti l’anello intorno al collo del piede, perchè di mio mestiere io non faccio il magnano; bensì per parteciparti una notizia altrettanto gradita quanto inaspettata: immagina che invece di darti querela criminale per una truffa commessa, io ti pagassi il danaro che hai rubato al gioco a quel signore italiano di nome conte Ludovico Anafesti, quanti [p. 215 modifica] me ne ritorneresti indietro per mancia? — Il barone ha risposto: parole sono piume: sabato non è, e la borsa non ci è. — Ed io — Certo il giorno che corre oggi è giovedì, ma la borsa io la tengo. Basta, tu taci; proporrò io. Contentati di cinquecento franchi. — Egli: — E poi voi dite: queste sono proposizioni da ebrei! Tu mi vuoi strangolare... e mi do facoltà di sopprimere il resto. — Barone, rammentati, che se io ti mettessi l’ossa in un sacco non ti darei il tuo avere; via, non mi far perdere tempo, e scrivimi la ricevuta. — Egli da capo: — Anzi, io non la scriverò; o perchè il conte vuol pagarmi? — Che so io? Gusti fradici; i negri non condiscono la insalata con l’assa fetida? — Non è così, ripicchiava costui; il conte pei suoi particolari interessi ha bisogno di una mia ricevuta. — Tu svagelli, barone, la tua ricevuta non sarebbe buona ad altro che a farti spalancare le porte della galera a vita, senza mandato di giudice: or su, piglia seicento franchi, e vattene. ~ I cavalieri, insisteva il barone, quando vogliono mantenere il loro punto, hanno da pagare a saldo e a danaro il debito del gioco. — Sicuro, quando è vinto, non già quando è rubato. — Breve, si è contentato di seicento franchi; però dai mille fiorini sono giusto avanzati 1000 franchi, i quali, detratti gli interessi fino al presente giorno, io le ho segnato a credito come rileverà dal suo conto qui annesso. Con altri 7 od [p. 216 modifica] 800 fiorini, vostra signoria potrà riscattare le sue gioie, che le ho serbate e le serberò sempre, — cioè, finche gli interessi non rodano il capitale..... perchè veda, mia rispettabile signora, sebbene locandiere, ho un cuore da Cesare, e mi sono fatto a dire: — Giovanni! La giovane, si vede chiaro, è affezionata alle sue gioie come quelle che le hanno a venire da persone amate... padre, madre, zii, zie, e così di seguito: assicurato sei; tienle in mano; bisogna farle trovare alla signora quando venga a cercarle, e tu glie le restituirai previo rimborso di capitale e interessi; e se qualche cosa ella ti vorrà dare di mancia, guarda bene di non metterti sul superbo, e rammentati che italiani e tedeschi sono fatti a posta per istare d’accordo come pane e cacio, ecc., ecc.»

O bontà somma di locandiere viennese! Imparino gli italiani a seguirlo fin lì, più oltre no, che correrebbero rischio di traboccare nel sublime. Quando le faccende della curia romana comincieranno a ravviarsi, io per me credo fermamente che il collegio amplissimo dei locandieri, tavernieri, osti e consorti opererà da pari suo promuovendo la santificazione del locandiere viennese — o per lo meno la sua beatificazione.

Dopo questa, a qualche settimana di distanza, sopraggiunse la lettera della contessa al suo figliuolo. «Incominciava da congratularsi con la [p. 217 modifica] fortuna e con lui. Con la fortuna, perchè alla fine cessando i suoi rigori si fosse mossa a favorire Lodovico; con questo, perchè attendendo alacre e diligente ai negozi si dimostrasse degno degli inusitati favori. Lodava il figlio della discretezza adoperata a celarle il nome del suo compagno negli affari di Borsa, ma mordendo all’amo apprestatole da Eponina, aggiungeva averlo indovinato (ella immaginò qualche segretario della legazione; forse il ministro stesso). Continuava poi, la cugina duchessa averla così accomodata di danari, ma pochi, come quella che si versava a posta sua nella penuria a cagione delle prodigalità commesse nel passato carnevale: prometteva di più in seguito; però arrivati come manna i dodicimila franchi, mentre quelli della duchessa soli non sarieno bastati a tranquillare le avare improntitudini dello Zinfi; aggiunti i suoi, lo avevano persuaso a starsi fermo nel convincimento di avere ad essere saldato: però dichiarava che, stante il caro del denaro, quanto a interessi non poteva contentarsi al 6 per cento. — Alla quale proposta, aggiungeva la contessa, non ho potuto astenermi da osservargli: — Ma voi avete imprestato danaro al mio figliuolo incominciando a contare dal sessanta, sicchè il sei su sessanta fa giusto il 10 per cento. — Egli, cavandosi la berretta, ha risposto: che con donne, massime con le signore, non voleva avere [p. 218 modifica] discussioni, e mi ha lasciata in asso; ond’io prego Dio con tutto il fervore dell’anima affinchè comandi alla fortuna di proseguirti propizia, per liberarci dalle branche del demonio... voleva dire dell’usuraio ebreo. Dicano quanto sanno i Salomoni della scienza, per me perfidio a sostenere che i giudei entrarono nella vera terra promessa allora soltanto che furono abolite le leggi sopra l’usura. Adesso noi dobbiamo 50 mila franchi di capitale allo Zinfi; 10 mila alla duchessa; e rimangono fuori gli 80 mila dei pagherò nelle mani di quel furfante matricolato dell’Onesti, di contro ai quali stanno i pagherò falsi, che egli ti diede. Speriamo da questo lato non sia per venirci danno; però ne dubito: quante volte ci penso mi trema il cuore come una foglia. Dunque il debito ora somma a franchi 62 mila, più i maledetti interessi, che non dormono mai giorno, nè notte, e mangiano sempre; altri debiti non ci avrebbero ad essere; almeno io non ne ho, e così spero sarà di te. Dunque lavora, guadagna ed attendi a fare di ogni pruno siepe, seppure non vuoi rimanerti pulito come il palmo della mano. Alla buona duchessa nostra cugina, udendo e vedendo che tu ti sei dato al buono, sono venute le lacrime agli occhi; povera donna, ella ti vuole proprio bene! Mi ha raccomandato più volte che io ti scriva: — tu cerchi ad aiutarti quanto puoi, ella attendere notte e giorno a trovar modo di levarti di pena; [p. 219 modifica] anzi a restituire alla tua nobilissima casa (che è pure la sua) l’antico splendore. Tirando a indovinare, io immagino che ella mulini qualche partito per te, proprio coi fiocchi. Dove mai mi apponessi, badiamo bene, veh! per quanto possa riuscire fruttuoso, non vo’ letame plebeo in casa. A negozio fatto bisogna piegare il capo, ma a negozio da farsi, se non ci troviamo tutte le nostre convenienze, diamo di frego; nella quale risoluzione io mi sono tanto più confermata, che la esperienza mi ha fatto toccare con mano che la plebe o il popolo, per quanto tu lo stropicci, non piglia mai il lustro, eccetto sulle sopraccarte: gli è fiato perso, nonostante il sao anfanare, non giungerà mai a quella rettitudine di sensi e alla gentilezza di modi, retaggio proprio di noi altri nobili2. Quando mi scrivi, io ti prego di sapermi dire che ne sia di quella povera creatura della Onesti. Ella non merita il destino a cui la riservano le tristizie dei suoi parenti: mi era adattata a tenermela per nuora: adesso poi mi è impossibile: deve sentirlo ella stessa: procura usarle ogni più urbano e gentile riguardo: come gentildonna te ne prego, come madre te lo comando: proteggila, assistila in tutto, anche prima di me...» Dopo averla letta, Eponina si ripose la lettera in sono esclamando: [p. 220 modifica]

— È la solita storia; il pranzo squisito al condannato quando lo mettono in cappella.

— Cara Eponina mia, senti, tu mi hai a fare un piacere, e non mi dire di no: stasera sono invitato al Club della Neva, ed ho promesso di trovarmici; tu sai che lo frequentano principi e boiardi, insomma gente che va per la maggiore: colà si giuoca alla grossa, ed io non vorrei scomparire.... forse potrei rifarmi dei tanti che ho perduto: — oh! che la disdetta non deva cessare mai?

Appena l’alba spunta le tiene dietro l’aurora, dopo l’aurora corre il sole; così del pari il crepuscolo non si ferma un istante: di vermiglio, paonazzo e poi nero d’inferno. Nella medesima guisa l’anima dell’uomo si affretta a salire, o a scendere; le buone qualità sopra i naturali viziati si posano meno dei colombi su la cuspide dei campanili. Ludovico di pudibondo eccolo in breve diventato impudente ed impronto, e spera riuscire nello intento, avendo saputo la vendita fatta da Eponina dei diamanti donatile dall’imperatrice. Ora la giovane rispose con la sua voce soave alla domanda molesta:

— Vico mio, con tutto il cuore se potessi: ma vedi, ho spedito fuori tutto il denaro: mille fiorini mandai in tuo nome a Vienna per pagare il debito di gioco che tu ci lasciasti con l’ebreo Kircher..... [p. 221 modifica]

Ludovico senti darsi nuova trafìtta nel cuore, e, senza attendere che Eponina aggiungesse altre parole, tutto arruffato andò via sbuffando.

Veruno usuraio sentì mai pungersi dall’aculeo della cupidità di accumulare danari come adesso Eponina, onde deliberò aprirsene con certo principe russo, conosciuto da lei per lo passato a Milano, il quale pareva averle posto straordinario affetto, e veramente era così: — questi, o acconsentisse al vero, o per zelo dei pregiudizi della Corte e della nobilea, la dissuase da dare lezioni a pago; stesse al suo posto; non le mancherebbero inviti di prendere parte ad accademie in casa dei magnati. S. M. la imperatrice la chiamerebbe ai concerti di palazzo, e la munificenza russa non patire che chi la letizia con le sue virtù, si allontani senza segno notabile del proprio gradimento. Eponina si attenne a cotesto consiglio. Ora il conte Ludovico talvolta fa invitato insieme ad Eponina, e più spesso no, o per inavvertenza, o perchè lo considerassero appendice inutile della giovane artista; un gambo di fiore; ed anche ciò era trafitta al suo cuore vano. Nè quando accompagnava Eponina soleva gioire di più, che senza glielo dicessero, gli facevano comprendere la sua essere la parte dell’ombrello che, entrati noi portone, si chiude e mettesi da parte per ripigliarlo poi quando si esce di casa. La sua vita, a canto a quella di Eponina, ignudo com’era [p. 222 modifica] d’ingegno e ricco di vizi, insaccato fino agli occhi di orgoglio, ricordava la passeggiata favolosa della pentola di terra cotta a braccetto pei manichi con la pentola di ferro; egli ci si trovava a suo bell’ agio, presso a poco come Regolo dentro la botte cartaginese.

Eponina certo ebbe a provare gli effetti della generosità russa, ma non corrisposero alla sua aspettativa, la quale, per la passione che la rodeva, era diventata improntissima; arrogi che quel vendere continuo di gioie per sostituirvi cristalli, con sicuro scapito d’interesse e con eventuale perdita della reputazione, se fosse venuto a scoprirsi, forte la infastidiva: ne punto la tranquillava l’esempio del marchese Massimo D’Azeglio, che il giorno stesso nel quale gli venne ricapitata per parte del Sultano la decorazione in brillanti della medijdieè la vendè di rincorsa, surrogando, com’ella costumava, alle gemme cristalli, imperciocchè quanto di leggieri era permesso ad uno degli archimandriti della mandria moderata d’Italia, non si concede a un semplice mortale. La facoltà di non sentire o non curare il proprio decoro è privilegio esclusivo dei signori. Difatti vendonsi dal Governo titoli di nobilea, come dallo speziale cerotti per apporli sulle ulcere e nasconderle alla vista di chi passa.

Intanto Eponina i denari raccolti spendeva sottilmente per Ludovico e per sè; gli altri tutti [p. 223 modifica] rimetteva nella consueta guisa alla contessa, la quale rispondeva con lettere sempre uguali, come gli Oremus, piene zeppe di lodi e di promesse; ma siccome queste non vedeva mai Ludovico, così Eponina, maravigliando della indifferenza di lui circa il silenzio materno, un bel giorno gli disse:

— O Vico, e di tua madre non hai notizia alcuna?

— Da lei diretto nessuna, ma se capita qui qualche lombardo io ne faccio ricerca, e così m’avviene sapere di tratto in tratto che ella è viva e sana, che Dio la benedica. Mi sembra che, tacendo, mia madre operi da quella discreta gentildonna ch’è. O che vuoi tu ch’ella mi scrivesse? Miserie; ciò intristisce, e non leva un ragnatele dal buco: quando potrà mandarmi un po’ di danaro, mi scriverà.

E questo disse con tale una perfetta intonazione di gelo, così nell’anima come nella voce e nel sembiante, che Eponina ebbe a pensare: va’, tu se’ proprio della pezza donde si fanno le giubbe ai diplomatici!

Ora accadde che, avendo Eponina in certa veglia incontrato il signor Mario di Candia, cantante di quella eccellenza che tutto il mondo sa, seco lui si trattenesse a lungo, ed ella restasse incantata non solo pei modi squisitamente gentileschi, ma sì eziandio per la espressione delle doti che onorano la nostra umana natura. Più che altro, com’era da credere, favellarono di musica, ed egli le lasciò [p. 224 modifica] intendere che si reputerebbe sommamente onorato di unire la propria alla voce di lei; e da cotesta sera Eponina si risolvè di presentarsi sul teatro. Nel presagio di levare via di un tratto, o almeno in brevissimo tempo, i debiti di Ludovico, ella raggiava di contentezza, sicchè tornando a casa ella non si potè tenere da fargli motto di cotesto suo proponimento; ma con sua non piccola maraviglia ella lo trovò renitente; sicchè dopo un batostare da una parte e dall’altra, egli alla ricisa le disse: avrebbe desiderato che ella rimanesse lontana dalle scene, ma poichè ci voleva andare ad ogni modo, nè egli la poteva impedire, egli intendeva che lo facesse con tutto altro nome che col suo.

— Perchè, egli aggiungeva, vedi, non te ne avere a male, ma, capisci, la contessa mia madre e tutta la mia nobile casata non vorrei che un giorno mi movessero rimprovero di non avere conservato nel suo pieno decoro il nostro nome.

— Ah! Dio volesse che il tuo nome non fosse caduto in peggiori mani delle mie. Queste parole scoppiarono ratte come fulmine dalle labbra di Eponina, e quando le volle ritenere era fuori di sua balia poterlo fare; però si affrettava aggiungere: — Nondimeno, andando sul teatro, procurerò non valermi del tuo nome.

Essendo ricorsa Eponina al patrocinio del suo amico principe Platow, per riuscire più [p. 225 modifica] agevolmente nello intento, qui pure incontrava contrasto; anzi il principe risentito, nel mezzo del colloquio esclamò:

— Io non mi posso capacitare, mia signora, come ella si sia intestata così di andare sul teatro.

— Perchè ho bisogno... moltissimo bisogno di danaro.

Allora il principe, con gesto di disgusto, riprese:

— Non vi avrei mai creduto così avara; scusate, ciò vi fa torto.

Parve Eponina a coteste parole proprio un apparecchio elettrico di cui avessero girato la chiave: afferrò il braccio del principe, e squassatoglielo forte, gli stridè fra i denti:

— Sappi, russo... sappiate, signor principe, che il danaro, il molto danaro mi fa bisogno per pagare debiti di onore e questi debiti non ho fatto io.... intendete bene, non ho fatto io... e l’onore che voglio salvare non è il mio, intendete bene, non è il mio.

Il russo sbalordito dalla terribile esaltazione di lei, le chiese umilissima scusa e la pregò di lasciarsi condurre per suo maggiore vantaggio. Eponina facilmente placabile glielo concesse, anzi, cólto il destro, come per aderire ai suoi consigli, gli confessava farle scrupolo non mediocre esporre sul teatro il nome Anafesti, nobilissimo in Italia se [p. 226 modifica] altri fa mai. Il principe, che era orgoglioso della sua nobiltà una volta e mezzo più del pavone della sua coda, lodò abbondantemente cotesto scrupolo, sicchè alla osservazione che Eponina le mosse alquanto indispettita:

— E sì, che senza biasimo potè salire sopra le scene il signor Mario, ch’è marchese, gentile sangue italiano dalla Spagna trasfuso nella Sardegna... rispose interrompendo:

— Sì, sì; ma un fiore non fa primavera, ed è desiderabile che questi esempi cessino, piuttostochè si rinnovino.

Venne pertanto statuito fra loro che ella avrebbe segnato la scrittura col nome di Eponina marchesa di S. Prudenziano; il principe poi, avendone tenuto proposito col signor Mario, convenne con lui non esser bene andarsi a profferire; il principe si desse d’attorno per fare nascere, crescere e divampare il desiderio di sentir cantare sopra il teatro di Pietroburgo la celebre italiana, marchesa di S. Prudenziano: egli dal canto suo non si rimarrebbe da movere i mantici nella Direzione del teatro, per accendere la voglia di mettere sopra le scene la Semiramide del Rossini ed ottenere a qualunque prezzo che Eponina ci sosterrebbe la parte di Arsace; tanto più volentieri dare egli di mano a cotesto accordo, perchè ella ne avrebbe aumentata, se pure era possibile, la sua reputazione, e la [p. 227 modifica] Direzione ne avrebbe tirato una ripresa superiore ad ogni previsione.

E poichè, come ammonivano gli antichi, con quei di Creta bisogna cretizzare, così i negoziatori di Eponina si mostrarono alieni da impegnarla una stagione intera, molto meno un anno; ella acconsentirebbe per quattro o sei recite, col compenso di duecento rubli per sera, e non parve caro.

E mestieri dirlo; l’esito non superò solo il presagio del direttore del teatro, bensì anco quello dello stesso signor Mario: a tanto giunse l’entusiasmo, che non si rifiniva mai di parlare del nuovo miracolo, così alla Corte come all’osteria; nelle botteghe dei barbieri come in chiesa: insomma da per tutto. Il direttore del teatro, con sua inestimabile contentezza, si trovò, secondo quello che racconta il cronista Villani, a raccogliere i denari col rastello alla porta del teatro, come i preti alla porta delle basiliche di Roma nel primo Giubbileo instituito da Bonifazio VIII: però, venute a termine le quattro sere, non è da dirsi quale assedio costui mettesse intorno ad Eponina perchè si obbligasse un anno a cantare sul teatro, o nelle accademie particolari, o almeno per una stagione; profondevasi in inchini; ogni giorno un mazzo di fiori, e adesso naturali, ma cresciuti al tepore delle stufe, non già ai raggi del sole: a tutte le persone astanti intorno ad Eponina si raccomandava; mesceva [p. 228 modifica] mancie ai servi con lo stecchetto, ma le promesse sbraciava con la pala; di qui Ludovico venne a sapere come Eponina avesse obbligato la opera sua sotto un nome che fìnto non si poteva dire e vero neppure, perchè temporibus illis il marchesato di S. Prudenziano fu feudo di casa; ma i suoi non gli avevano dato nè anche la consolazione di cui il conte di Cavour fa largo a’ genovesi quando li mandò in Crimea a vedere Caffa; e seppe inoltre, cosa più. importante per lui, che ella si era legata durante sei mesi pel compenso di 25 mila rubli, di cui per patto il direttore aveva dovuto anticiparle 60 mila franchi. Udito questo evangelo, Ludovico non corse, non volò, ma come lo struzzo nel deserto parve aiutarsi con le gambe e con l’ale nel ridursi a casa, dove rinvenne appunto Eponina che riscontrava i biglietti di banca pagati dal Direttore, ond’è che postergata ogni vergogna, e forse messo alle strette da qualche suo segreto bisogno, le disse:

— Oh! adesso il morto è sulla bara; tu non potrai negarmi di avere quattrini.

— Anzi, ella rispose, io non mi sono mai trovata in penuria come in questo momento; vieni qua, invece di danaro io ti darò una storia; poca cosa invero, tuttavia sempre meglio di un canto. — Certo fittaiolo andava creditore del Fox, che gli aveva fatto una dichiarazione del suo debito in piena regola; scarrucolato da un giorno all’altro dal nobile [p. 229 modifica] signore sotto pretesto di mancanza di moneta, accadde un dì che egli lo cogliesse proprio sull’atto di ripassare danaro. Oh! per questa volta, esclamò il fittaiolo, voi non mi verrete a cantare che non avete quattrini: io vi piglio con la mano nel sacco; per lo appunto come hai detto tu; e il Fox gli rispose come io: — Non fui mai povero quanto adesso perchè, come vedi, riscontro questa moneta per mandarla a lord Say, il quale me l’ha vinta al gioco. — Oh! il mio, soggiunse il fìttaiolo, non è debito come quello col lord Say, anzi più vecchio, e però più inquieto per esser pagato. — Niente affatto, disse il Fox; a sicurezza del tuo credito tu possiedi la mia obbligazione, mentre il debito di giuoco non ha altra garanzia che quella del mio onore. — Ludovico, sappi che io ho destinato questo danaro a pagare debiti di onore.

— Ma dove tu hai mai giocato? Quando hai perduto?

— Ludovico! Io pago debiti d’onore, esclamò percotendo, tutta alterata, del pie la terra, — pago debiti di onore.... perchè a me premono più i debiti altrui dei miei.

— Anche io ho i miei debiti di onore.

— E ci credo, però credo ugualmente che tu non abbia mai pensato a soddisfarli.

Ludovico, quantunque fosse di temperamento lintfaico anzichè no, inasprito dal diniego del denaro, [p. 230 modifica] dalle passate trafitte commosso, esacerbato dalla nuova puntura, si avventa addosso ad Eponina, le stringe, le travolge il braccio destro violentemente, ond’ella ebbe a prorompere in urli di dolore, ne si rimase alle strida, che tolta di se dal furore, lo chiamò: vile!

E pur troppo ormai egli era fatto tale; ma l’uomo quanto più lo merita e meno sopporta sentirselo dire in faccia, per la qual cosa Ludovico a posta sua arrovellato le lasciò andare una ceffata, che coltala nel naso ebbe virtù di farne spicciare larga vena di sangue: allora Eponina proruppe nella sua terribile ira di donna; non più gridi cacciò fuori, ma ruggiti; di uno strettone svincola il braccio, ed afferrato un pugnaletto che stava sopra la tavola, con quello in mano corse contro di lui.

Lodovico, sbalordito dal suo atto indegno e dal furore di Eponina, non faceva difesa, e sarebbe senz’altro rimasto ucciso, se in quel punto il commissario di polizia del quartiere, tirato dai gridi, non fosse comparso nella camera. Vista Eponina con lo stiletto in mano, tutta macchiata di sangue, e Ludovico bianco come un lenzuolo di bucato, intimava l’arresto ad ambedue.

Eponina però, avendo chiesto licenza di ritirarsi in camera per lavarsi, ed essendole stato di leggieri concesso, in breve ebbe stagnato il sangue, terso il volto: acconciò i capelli, mutò vesti, e dopo [p. 231 modifica] tolta via ogni traccia della ignobile baruffa, si ricondusse pacata nella sala, dove confessò con acconce parole che bisticciandosi col marito avesse prorotto in parole strambe, di cui egli non a torto si era reputato offeso; donde il chiasso e lo schiaffo, che il marito avrebbe potuto in ogni caso risparmiarsi, il quale percotendo il naso era stato cagione del sangue sparso. Tafferugli che sarebbe bene non avvenissero mai fra marito e moglie, ma con tutta la buona volontà del mondo non sempre si possono evitare.

D’altronde simili casi non avrebbero dovuto partorire maraviglia presso i russi, i quali, se la fama porge il vero, sogliono provare la propria affezione alle dilette mogli con qualche solenne carpiccio di bastonate; e le mogli, per quanto se ne sente dire, se a troppa distanza ricevono queste dimostrazioni di amore, si arrapinano.

— Voi dunque, interrogò tutto abbonito il magistrato, veramente siete marito e moglie?

— Voi dunque ne dubitereste?

— Il mio ufficio non è dubitare, bensì verificare; per tanto vi compiacereste somministrarmene la prova?

— Sull’atto; ed Eponina, tornata in camera, ne usci dopo pochi momenti col passaporto della legazione italiana a Vienna, il quale avendo esaminato il commissario, lo rese dicendo: [p. 232 modifica]

— Non ho niente da osservare; pure permettano che io li ammonisca sconvenire altamente a persone ben nate trascorrere in simili eccessi. Quello poi che voi, signora, avete avvertito intorno ai costumi russi, un tempo, è vero, accadeva fra noi; ma adesso pare che questa usanza, sbandita fra noi, abbia trovato albergo presso di voi. Se si va avanti di questo passo, voi altre razze latine tanto presuntuose della vostra civiltà vi vestirete delle nostra barbarie, come vi vestite delle nostre pelli.

Partito il commissario, Ludovico capì sarebbe stato inopportuno, forse pericoloso riappiccare il colloquio, onde cautamente se la svignava. Eponina rimasta sola si rimise allo scrittoio; le tremava la mano, e guardandosi il polso del braccio destro marcato attorno da un cerchio livido, pensò alla Maria Stuarda, quando ebbe a patire simile brutalità nel castello di Lochleven per parte del lord Lindesay 3. — Ella sorrise di un cotale suo riso acerbo, e mormorò: — Ma costui era nemico, e questi?... E senza più attese a scrivere lettere alla contessa Anafesti in nome del figliuolo.

La lettera a un di presso parlava in questa sentenza: la fortuna, per le preghiere materne, essersi convertita in provvidenza; i negozi avere proceduto di bene in meglio, opperò trovarsi in [p. 233 modifica] caso di spedirle in un botto 60 mila franchi, i quali co’ già mandati dovevano bastare pel saldo dell’ ebreo Zinfi, e pel ritiro dei biglietti, che soprattutto premeva riscattare; non mettesse tempo fra mezzo a porgergliene avviso per suo governo.

Dopo questa lettera ne scrisse un’altra, la quale doveva arrecarle inestimabile travaglio, a giudicarne dalle goccio di sudore che le cadevano a quattro a quattro dalla fronte; la sigillò e la chiuse dentro un’altra lettera.

Dopo un quarto d’ora, comparve il suo amico principe Platow, che le portò la cambiale dei 60 mila franchi tratti sopra il banchiere Bellinzaghi all’ordine del traente, e da questi girata in nome di Ludovico Anafesti. Eponina nella smania di affrettarsi ci appose subito di propria mano la gira all’ordine della signora contessa; di che maravigliando il principe e sottilmente seguendo il moto della penna di Eponina, si accorse com’ella s’industriasse ad imitare la segnatura di Ludovico.

Allora balenò alla mente del principe lo intento di Eponina, ma questa, accortasi della sua inavvertenza, per non lasciargli agio di fermare troppo il pensiero sopra simile accidente, di subito levandosi lo pregava di accompagnarla con la sua carrozza fino allo ufficio della posta, per assicurare le due lettere, che ella spediva in Italia: per via gli raccomandava le portasse il conto del banchiere [p. 234 modifica] per soddisfarlo del cambio da piazza a piazza, che non poteva essere piccolo. Il principe, immaginando che da lei simili faccende s’ignorassero, aveva disegnato non farglielo pagare, ma ella ebbe avvertenza a tutto, e il modo col quale ella lo chiese parve tale al principe da torgli la voglia di disobbedire.

Intanto che la nostra egregia donna seguitava la sua carriera luminosa, le lettere giungevano a Milano, dove sortirono l’effetto da lei desiderato, conforme conobbe dalla lettera scritta qualche mese dopo dalla contessa al figliuolo, e da lei secondo il solito intercettata. Questa lettera da cima in fondo cantava gloria, osanna e alleluja. Pagato lo Zinfi giudeo; ritirati i pagherò e i biglietti falsi, da questo lato una pietra sopra ogni cosa; ma le buone al pari delle triste venture le sono come le ciliegie, però il giorno dopo che si aveva levato cotesto peso di sul petto, le si era presentato un signore, il quale, datosi a conoscere pel cassiere della casa O. Boncompagni e C, l’aveva chiarita come qualmente la prelodata casa Boncompagni e C, fosse stata vittima di un furfante matricolato, il quale aveva seco lei conchiuso un baratto di un milione circa di valori pubblici con altrettanti biglietti falsi del Banco di ***: aggiungeva riportarle i pagherò sottoscritti dal suo signor figliuolo conte Ludovico, a patto che ella gli retrocedesse i biglietti avuti in pagamento; [p. 235 modifica] averle recato qaesto disturbo perchè era stato avvertito che i biglietti si trovavano in possesso della signora contessa, e che ella era dispostissima a stornare il negozio: «Io, proseguiva la contessa, figurati se l’ho lasciata bollire e mal cuocere; però sull’atto gli ho dato i biglietti, e il cassiere mi ha restituito i tuoi pagherò dopo avermi fatto giurare per me e per te, sul nostro onore, il più assoluto silenzio sopra questa operazione, per non pregiudicare il credito della banca Boncompagni e C, e peggio il credito della banca a danno della quale erano stati falsificati i biglietti; promessa che di leggieri feci per me e per te, ed alla quale noi non mancheremo di certo. I tuoi pagherò, a scanso di fastidi, ho gittati sul fuoco. Adesso come piace a Dio non ci è più debiti in casa, non ci sta più sul collo il pericolo di vedere gettato ai cani quel po’ di bene che ci resta. La cugina duchessa avere ricevuto consolazione da non potersi dire, dalle notizie che mano a mano le partecipava sul conto tuo; ti mette al quarto cielo, e se potesse ti metterebbe più in su: a tutti di te tiene proposito: ti tuffa pel ciuffo nelle lodi; e tanto si è data e si dà d’intorno, che ha persuaso il preclaro marchese di Cavedoni a consentire le nozze della sua figliuola Sofonisba con te: anzi l’altra sera ha parlato aperto, che se questo matrimonio si può fare, egli ti dà la sua figliuola non con una mano, ma con due. La [p. 236 modifica] dote sarebbe di 500 mila franchi, e di giunta le speranze e due zie quasi decrepite ottimamente provviste e piuttosto sviscerate che benevole di Sofonisba. Questa poi propriamente un angiolo, capitato non si sa come sopra la terra e smarrito una sera nel tornarsene a casa sulla via del paradiso: giglio di purità educato dalle suore del Sacro Cuore: turibolo di oro, donde s’inalzavano senza posa al cielo profumi di virtù e di santità: quanto a bellezza, certo in lei avresti cercato invano quanto di allettatore e di lusinghiero si accoglie nel volto delle donne mondane, ma nelle sue sembianze, quanto più le contempli e più ti posi: talenti molti e positivi, non lampeggianti da abbarbagliarti gli occhi, bensì luminosi di una luce modesta da rischiararti nei più oscuri laberinti della vita. Aggiungi ancora che il marchese Cavedoni, essendo coll’attuale ministro Jolicari o Palicari, come si suol dire, due anime in un nocciolo, egli si faceva forte ottenere al suo genero di schianto la carica di segretario di Legazione. La duchessa si mostra tanto infervorita in questo negozio, che ha fatto cantare un triduo pel suo esito felice. Ora dunque, figlio mio, considera se ci sia verso di potere onoratamente dare seguito alla pratica, ammonendoti che dove anco tu avessi assunto impegni morali, quelli tu attenga. Non credo doverti rammentare come il precipuo dovere del gentiluomo consista appunto nella osservanza [p. 237 modifica] delle promesse date; prima di darle bisogna pensarci due volte, ma ad eseguirle nè manco una. Tra l’orgoglio offeso delle nozze dispari e l’onore maculato non ha luogo scelta; ti desidero copioso di beni, ma più di onore. Capisco che non ti sarà agevole ritirarti dal passo che hai fatto, ma la via retta è la più piana; apriti con la giovane, e se veramente ella ti ama, potendolo col suo decoro, ella di gran cuore acconsentirà al tuo bene: imperciocchè quantunque sia amaro confessarlo a voi altri uomini, per cagione della vostra superbia, è un fatto che noi donne valiamo troppo più di voi, ecc., ecc.»

Eponina dalla lettura di questa lettera cavò tre conclusioni. 1a Che se la signora Sofonisba non era gobba, sarebbe stato un miracolo. 2a Che di finissimo acciaio era stata formata la contessa, ma la ruggine della vanità l’aveva rosa più di mezza. 3a Essere spediente consegnarla senza far dimora a Ludovico.

Gliela consegnò ella? Non gliela consegnò perchè dal detto al fatto passa sempre un gran tratto: anche l’anima più risoluta, sul punto di pigliare irrevocabilmente un partito, il quale di punto in bianco le scombussola costumanze, abiti di vita, reliquie di affetti e intenti, che un dì invasero tutto il suo essere, ondeggia, o piuttosto tenzona con violenza fra il sì e il no; — non gliela consegnò, [p. 238 modifica] perchè, essendone stata distolta un giorno da continue distrazioni, un altro dall’esaltamento dell’esercizio musicale, un terzo e un quarto dai trionfi continui, si formò una settimana, dalla settimana il mese, e la cosa cascò nel dimenticatolo.

Ma quello che ciondola, all’ultimo ha da cascare, sicchè quando Eponina se lo aspettava meno, ecco venirle addosso una inopinata ventura; certo giorno che ella se ne stava seduta davanti al piano-forte, dando una ripassata a certe arie della Straniera, che ella si era impegnata a cantare quella medesima sera, la serva le presenta una carta da visita dcv’ella lesse: «Contessa Anafesti nata Trittolemi.»

Le diede un tuffo il sangue e sentì rimescolarsi dal capo ai piedi; tutta tremante ordinava alla cameriera:

— Fate entrare la signora contessa nel salotto di rispetto; fra due minuti sarò da lei.

Corse nella sua camera, e subito si guardò allo specchio; ebbe paura della sua pallidezza: le labbra aveva pavonazze: il cuore le palpitava come se 11 per 11 stesse per ispezzarlesi; ella risoluta ci appose la mano destra e disse: chetati! Bevve un bicchier di acqua, scosse la testa e soggiunse: su, andiamo a recitare il quinto atto.

Come i capitani innanzi d’ingaggiare battaglia per via di segreti esploratori s’industriano riconoscersi, così queste due donne, con guardi obliqui [p. 239 modifica] prima di aprire bocca tentarono scandagliarsi. Noi conosciamo di già Eponina; le sue sembianze e gli atti percossero forte la contessa, molto più che le forme della giovane, in grazia dello esercizio della sua professione, avevano assunto certo garbo di alterezza virile, che assai le si addiceva; e la nuova emozione animava al doppio i tratti del suo volto, già vivi anche troppo. La contessa poi era donna di forme grandiose ed abbastanza attempata; però, sebbene ella non curasse punto dissimulare i danni della età, da talune parti delle sue fattezze rimaste intatte, si poteva argomentare quale fosse stato un di tutto l’insieme, come da poche colonne, o dal frammento di un architrave è dato giudicare quale, e quanta fosse la fabbrica caduta per terra: ma se la benevolenza ideò il sembiante della contessa, per certo non lo eseguì l’amore: contorni statuari, linee alquanto rigide; di ossatura potente; nella sveltezza del portamento poteva dirsi giovane: forse un dì anch’essa sarà stata vulcano, perchè tracce di cenere antica in lei se ne vedevano; anzi era proprio così; ma il dovere avendoci soffiato sopra con troppa veemenza, aveva con le passioni meno pure estinto le pure e le purissime: parlava a spizzico, sicchè, facendo sospettare che ella scegliesse prima quello che doveva tacersi e quello che doveva favellarsi, allontanava la confidenza altrui: ma i detti e le opere la faranno conoscere meglio da sè. [p. 240 modifica]

Impertanto ella stese con gesto urbano la destra verso Eponina, mentre col braccio manco le abbracciava il collo accennando volerla baciare, ma Eponina nell’atto che corrispose alla stretta di mano, parve studiasse evitare di corrispondere al bacio, perchè, lasciando scorrere il viso in giù, accolse il bacio della contessa in fronte.

Così, dopo reiterate più volte le accoglienze oneste, la contessa favellò:

— Io mi era condotta qui, mia cara signora, nella speranza di trovare presso di voi il mio figliuolo Ludovico.

— Di fatto, quantunque più rado di una volta, il signor conte frequenta spesso in casa mia.

— Dunque non abitate insieme sotto il medesimo tetto?

— Ah! sì, rispose sorridendo Eponina, sotto il medesimo tetto abitiamo; solo il suo quartiere sta accanto al mio.

— Mi avevano assicurato.... e qui la contessa si mise a cercare che cosa dovesse aggiungere.

— E che cosa le hanno assicurato? Parli pure senza ritegno, ne tema ch’io abbia ad arrecarmene.

— Mi avevano supposto... mi avevano fatto credere.... che voi vivevate insieme, come marito e moglie.

— Signora contessa, io non so per lo appunto che cosa intenda il mondo, nè che cosa intonda [p. 241 modifica] significare vostra signoria per marito e moglie: questo tuttavolta so, e mi giova farle sapere, che io non consentirei a vivere come moglie con uomo, il quale non fosse mio marito.

— Ma tra voi e il contino Ludovico non è corso un contratto di matrimonio?

— No.

— Una dichiarazione.... un obbligo.... un vincolo insomma che tiene legato l’uno all’altro?

— Oh! Ecco, trovandomi a Vienna ed occorrendomi per i miei interessi condurmi fin quassù a Pietroburgo, proposi al suo signor figliuolo di accompagnarmi; egli acconsentiva, non avendo nulla che lo trattenesse a Vienna: allora, per rendere decente per me ed anche per lui la sua compagnia, ci trovammo d’accordo di pigliare il passaporto in nome di ambedue, qualificandoci per marito e moglie,

— E avete presso di voi questo passaporto?

— Sissignora.

— E avreste difficoltà alcuna, mia cara figliuola, a farmelo vedere?

— Veruna: si compiaccia di rimanere sola per pochi momenti, che io lo vado a pigliare.

La contessa assentì col capo; Eponina andò in camera, donde in breve tornata col foglio, lo porse alla signora. La contessa, dopo averlo letto con molta attenzione, osservò: [p. 242 modifica]

— E non vi sembra questo un obbligo in buona e perfetta regola?

— Io non l’ho mai reputato tale, nè credo ch’ei sia. La legge non mena buona che una forma sola; le altre non reggono, e noi non abbiamo praticato quanto prescrive il Codice civile per la validità di simili obbligazioni.

— Questo può darsi; ma non pertanto simile dichiarazione ingerisce meno un vincolo morale fra voi altri due.

— E mancando lo scritto, mi scusi, mia riverita signora, secondo il suo savio parere, verrebbe a mancare la obbligazione?

— Non dirò questo: solo ho voluto accennare che dalla soppressione di questo documento sarebbe dato desumere la mutata volontà delle parti.

— E a lei, signora contessa, premerebbe molto che cotesta carta rimanesse abolita? Mi parli chiaro.

— Potendolo fare con onore e con aggradimento delle parti interessate, sì....

— Ebbene, signora, io le ripeterò le parole che Napoleone I disse alla moglie del Governatore di Berlino, mentre ella, davanti al caminetto, teneva in mano le prove della fellonia del proprio marito, ch’egli stesso le aveva consegnato: - gettatele sul fuoco cotesto carte, ed io mi guarderò bene di accusarlo per paura di passare per calunniatore. [p. 243 modifica]

— Figlia mia, rammentatevi che Napoleone poteva dirlo, impercioccliè cotesti documenti a lui solo appartenessero, ma il passaporto spetta soltanto a voi? Per una metà non ci ha diritto Ludovico?

— Non ci aveva pensato. Ella ha ragione; ma l’altra metà io posso dire mia?

— Sicuramente.

— Ebbene, signora, vorrebbe essermi cortese di rendermi il foglio?

La contessa glielo porse; allora Eponina, sorridendo, lo mise in due pezzi, uno dei quali gittò sul fuoco, e l’altro rese alla contessa dicendo:

— Io lo consegno a lei, mia signora, affinchè si compiaccia conservarlo pel conte suo figliuolo.

La contessa pei detti e pei fatti della giovane donna era rimasta a bocca aperta come persona trasecolata; in questa si apre l’ascio del salotto e prorompe dentro Ludovico, il quale a braccia aperte corre verso la madre, che lo aspetta a braccia aperte; gli amplessi della madre apparivano, sto per dire, feroci, smaniosi i baci; pianti, singhiozzi, strida e risa tutto un miscuglio; la nobil donna non rifiniva esclamare:

— sangue mio, o figlio mio, sostegno della mia vecchiezza, speranza unica di casa mia, e così di seguito il mio nei suoi discorsi si udiva modulato in tutti i tuoni, - ci pigliava troppi più colori che non ha l’arco-baleno. Cotesta stemperata [p. 244 modifica] dimestrazione di affetto aveva un non so che di famelico, che togliendole ogni aura di divino la rendeva turpe. Anche gli affetti di madre, meditava Eponina, avviticchiandosi stranamente sopra interessi materiali, possono scivolare giù per una scala di cui il primo pinolo è la indiscrezione, ultimo il delitto; così le perle, a quanto affermano i naturalisti, si generano da una malattia delle ostriche; e tu, avvenuta che sia questa confusione, pendi incerto a giudicare se il delitto rimanga irradiato dallo affetto, o piuttosto lo affetto s’intenebri dal delitto. Gli affetti appena messe le ali drizzano tutti il volo al paradiso; guai però se smarriscono la via! che taluni di loro si sono visti appollaiarsi sulla traversa della forca.

Sboglientita la fornace e ricondotti gli animi alla consueta tranquillità, la contessa raggiante di contentezza prese ad esporre a Ludovico, per filo e per segno, quanto la cugina duchessa aveva fatto per lui, e delle nozze imbastite, e della bontà suprema della damigella Sofonisba; della pingue dote, delle speranze, del casato illustre, e non tacque della aspettativa della carica, preludio ad uffici maggiori. La cara Eponina avere dichiarato spontanea nessun vincolo esserci fra loro, e quando mai ci fosse stato ella non esigerne lo adempimento: dunque possiamo tornarcene a casa col cuore lieto. Noi non abbiamo più debiti, i pagherò di quel malmignatto dello [p. 245 modifica] Zinfi giudeo, arsi; arsi anco quelli posseduti dal Boncompagni: i buoni di banca falsi ritirati, e tutta accesa continuava: — o figliuolo mio! la tua costanza e la tua virtù ti hanno guadagnato i cuori di tutti; di me non parlo; ti basti che tua madre va altera di te. Comprendo che se la fortuna non era, tante belle cose tu non potevi fare; ma se la solerzia non tiene aperto l’uscio, la fortuna passa senza entrare mai in casa. Delle somme che tu mi spedisti io ho qui meco il conto, e vedrai come le furono erogate a tuo bell’agio.

Ludovico a cotesti discorsi restava come intontito; temeva essere preso a scherno; ma non si poteva persuadere che la madre amorosissima facesse di lui così atroce strazio, e poi dal fervore del dire e dai moti delle membra si conosceva chiaramente ch’ella favellava da senno; bensì non ardiva levare gli occhi verso Eponina, la quale pure teneva i suoi abbassati. La madre cagliava l’impeto e perdeva la tramontana; dopo lunga e affannosa dimora Ludovico con voce strozzata finalmente disse:

— madre! madre! Io non ho guadagnato nulla in virtiù, nè in danari: tutto quanto attribuite a me è opera di Eponina.

— Orsù, questa interruppe, dopo avere, giusta il suo costume, scossa per lo indietro la testa, poichè mi trovo costretta a dire, è vero; dall’esercizio [p. 246 modifica] l’arte mia ho ricavato il modo di pagare i tuoi debiti; allorchè ti rifiutai i mille fiorini, e’ fu per mandarli a Vienna al barone ebreo tuo creditore per debiti di gioco; gli altri danari rimisi tutti in tuo nome a tua madre, perchè riscattasse i tuoi pagherò dalle mani dell’altro giudeo Zinfi. Allorquando spedii a Milano tutti i 60 mila franchi avuti in conto della mia scritta, erano pel ritiro dei biglietti falsi, per la pace della tua povera madre; e tu, ricordalo, mi percotesti, il mio volto fu da te imbrattato del sangue mio; le mie braccia portano la impronta della tua brutalità. Io non ti tengo, va’; se il tuo cammino volge a destra, il mio sarà a sinistra; cesso guidarti: non ti aspettare impedimento da me: dove mai, nello incontro della tua vita con la mia tu avessi sofferto danno, parmi avertene compensato abbastanza: se sia riuscita a emendarti dei vizi, che a quest’ora ti avrebbero avvilito, non so; so che, se tu non ti conservassi onesto, tu uccideresti la madre tua, la quale, tu lo vedi, darebbe per te, non che la vita, l’anima.

Ludovico balenava per cadere e coprendosi gli occhi si lasciò andare sopra un divano. La contessa, tratta fuori di se dalla maraviglia e dalla tenerezza, volle genuflettersi davanti Eponina, la quale a mezzo l’atto la sostenne e con robuste braccia la rilevò allora le faccie loro incontraronsi e si baciarono; l’una stretta nelle braccia dell’altra confusero il [p. 247 modifica] pianto. Appena la contessa potè ricuperare l’uso della parola, prese il figliuolo per un braccio, esclamando

— Su, levati, Lodovico, e prostrati davanti a questo miracolo di donna: pregala... supplichiamola insieme, affinchè ella si degni accettarti per marito. Del passato, ne parola, nè memoria.... Vieni, mia diletta figliuola.... un altro abbraccio.... un altro poi.... O Dio! ti piaccia temperare alquanto l’allegrezza che mi opprime il cuore.... Eponina, tu mi rendi più che il figlio.... più della vita.... mi hai salvato il nome, la fama della mia casa.... Io ti giuro da gentildonna che sopra Dio, no, che sarebbe peccato, ma quanto Dio, tu sarai da me sempre reverita....

Eponina ecco si pone framezzo alla madre e al figliuolo; trema tutta: dagli occhi le prorompono scintille di passione e di genio; stupenda a un punto e terribile a vedersi; con voce velata, che a mano a mano diventò scoppiettante e poi strepitosa come folgore che i nuvoli scoscenda, disse:

— Uditemi con animo pacato; io ho da parlarvi parole che non movono già da senso di orgoglio offeso, nè da baldanza presuntuosa di me: io le ho librate nelle mie meditazioni notturne e diurne, con diligenza maggiore di quella dell’orafo, quando pesa le gioie nelle sue bilancie. Noi non possiamo intrecciare insieme la nostra vita, però che troppo sieno diverse le nostre nature, sicchè congiunte, [p. 248 modifica] invece di aiutarsi si roderebbero: noi innocentemente c’ingannammo, quando abbiamo creduto avere col nostro affetto rattorta una corda da confidarci con sicurezza la nostra felicità, mentr’ella si spezzerebbe al maggiore uopo, mandando tutti in ruina. Signora contessa, di presente ella è nel suo entusiamo sincera, ma crede forse che questo entusiasmo durerà in lei? Crede ella che la esaltazione, generata da una scossa passeggiera di fibre, valga a vincere sentimenti scesi come una somma aritmetica dalle nostre passioni, o se vuol meglio, le nostre passioni, figlie dei nostri sentimenti? Ah! io ho veduto l’entusiasmo; egli è vento che scaccia le nuvole, ma si rompe contro le vette dei colli. Ci basti poterci stimare: evitiamo con tutte le forze il caso di addivenire i nostri scambievoli carnefici. Veda, signora contessa, ella non lo susurra neanco a se medesima, eppure vive in lei qualche cosa che, suo malgrado, avrebbe desiderato che Ludovico si perdesse piuttosto pei suoi vizi, che si salvasse per la virtù di una popolana. Questo pensiero si guarderà bene di affacciarsi sotto questa forma al suo spirito onesto, ma le si insinuerà nel cuore con sembiante di angiolo; tutti i serpenti quando vogliono tentare fanno così. Lei educarono a reputarsi, a sentirsi superiore al comune degli uomini, perchè nata di nobile prosapia; se io potessi vederle il cuore, ci leggerei com’ella non baratterebbe [p. 249 modifica] le sue perle di contessa co’ satelliti di Giove scoperti dal Galilei, nè la sua corona per la ghirlanda che ornò le tempie del Petrarca. Che posso io dirle contro questo sentimento oggimai parte del suo sangue, del suo cuore e del suo intelletto? Parole inani e talvolta, non senza ragione, attribuite ad astio plebeo. Non ci è dubbio, a pensarci su dobbiamo confessare che la maggiore offesa alla nobiltà gliel’ha fatta la monarchia, che, diventata mercantessa, ha riposto nel suo magazzino tagli di nobilea, come pezze di panno frustagno: i titoli si vendono a braccia; a vestire un furfante di barone bastano sei braccia, per un conte dodici, quindici pei marchesi, pei duchi venti. Se vi ha differenza fra la vendita della pannina e quella della nobilea, ella è questa una, che nella prima tu puoi accapigliarti con Abram giudeo per risparmiare sul prezzo, mentre nella seconda il prezzo è fìsso. Ma tutto ciò non crolla i convincimenti di voialtri signori che, di natura di Mida, proprio nella vostra coscienza credete tutto quello il quale da voi si tocca diventi oro. Troppo spesso che non era da aspettarci, i nobili, almeno i moderni, si sono rivoltolati nelle sozzure plebee per pescar danaro; e se voi li aveste avvertiti della turpe sosta che facevano nel fango, vi avrebbero risposto: Dio ce ne guardi! Noi passiamo su questo meticcio in punta di piedi, onde giungere senza zacchere al [p. 250 modifica] festino di Corte. Ella, signora contessa, mi piace dichiararlo, e quanta onestà vive nel mondo, eppure le godeva l’animo immaginarsi che Ludovico fosse il sostegno della mia esistenza, e me, non dirò erba parasita intorno la torre dall’avito castello, ma per lo meno vite appoggiata all’olmo altrui....; non seduttrice, ma neanco sedotta.... castellana, che avesse reso la rocca, compita la resistenza a pelo, tanto per non offendere l’onore militare; ed ora che trova le parti del tutto invertite, per generosità della sua indole, non le duole, anzi ammira; ma una volontà, che chiamerò spontanea in lei, più forte della sua volontà ragionata, la induce a desiderare che la faccenda fosse andata diversamente. Ella è onesta, eppure, per naturale repugnanza contro me, ella si industriava a screditarmi agli occhi di Ludovico, insinuandogli come dalla conoscenza della mia famiglia e di me gli fossero derivati tutti i mali che pure non avevano origine da me, nè dai miei. Era giusto questo? Era gentile? Avevamo noi fomentato in lui il vizio del giuoco e la dissipazione? Noi, spinto a creare debiti che non avrebbe potuto pagare? Messo noi in mano agli strozzini? Avesse tolto o no danari in prestito da mio fratello, forse sussistevano meno il debito con l’ebreo Zinfi e le cause poco lodevoli che lo avevano partorito? Voi dite che mio fratello in prezzo delle sue obbligazioni gli pagò biglietti [p. 251 modifica] falsi, ed è vero; ma ditemi, immaginaste neanco un momento che mio fratello potesse essere stato a posta sua tradito? Tutt’altro; pare che voi trovaste la vostra compiacenza a credere che cotesta falsità fosse opera delle sue mani; però non gliene faceste motto; però v’intoraste nella opinione che egli vi avrebbe negato ogni cosa; pensaste che la medesima difficoltà che incontraste a pagare lo Zinfi vi si parava contro per pagare mio fratello? Gli foste grati del non avervi mai chiesto interesse? Ovvero delle frequenti proroghe al pagamento? Sotto colore di generosità, voi ne cavaste motivo per calpestare promesse solenni. Voi lo vedeste, appena io ebbi notizia del fatto, ne scrissi ad Omobono, ed egli vi rese indietro subito le cambiali ripigliando i biglietti senza opporsi: dei tanti delusi prima di me, perchè io sola devo portare il danno? Permetta dunque, signora contessa, ch’io le renda il suo figliuolo in condizioni meno triste di quelle in cui egli si trovava quando mi capitò fra mano; se in tutte queste avventure ci hanno cose che la trafiggono come madre, pensi che non le ho fatte io, e come donna di alto sentire si consoli, confermandosi nel suo concetto che noialtre donne siamo migliori degli uomini.

La contessa si sentì come travolta da un vortice di piacere, di dolore, di esaltazione, di avvilimento, di verità opprimenti, di lusinghe, di obbrobrio, di [p. 252 modifica] censura, di lode da non sapere proprio più dove darsi di capo: dentro di se pensava: «Costei, per certo, ha da essere il diavolo in gonnella!»

Eponina, tutta avvampata in viso, guardando fiso negli occhi Ludovico, proruppe:

— E tu, povera creatura, che sei venuto a fare nella mia vita? Anche tu fossi stato un astro, dovevi aggirarti fuori della mia orbita, e solo ricambiarmi da lontano un saluto di luce, senza mai desiderare d’incontrarmi. Non avevi letto di Delia, che, innamoratasi del sole, perse la vista a contemplarlo? Ti ricordi di Semele che, presumendo guardare faccia a faccia Giove nella sua onnipotenza, rimase ridotta in cenere? — Il genio pari allo incendio dove passa brucia. Noi siamo anime sventurate, ma gloriose; a noi non fu concesso rendere felici noi ed altrui; il nostro compito sta nel fare noi ed altrui famosi. Anime battezzate col nafta, destinate a vivere la vita del fulmine; noi ci palesiamo in cielo e in terra con un geroglifico di fuoco, e scompariamo per sempre. Che cosa importa a noi durare poco, o molto? Tanto il secolo quanto il minuto sono attimi al cospetto della eternità: appena noi abbiamo presente, baleniamo e ci dileguiamo, e nondimanco lasciamo per tempo lunghissimo abbarbagliati i mortali di ammirazione o di odio. Voi altri poi siete ingollati dalla morte come dal boa, a singhiozzi: già da due terzi e più siete [p. 253 modifica] entrati nel sepolcro, e agitate le mani con isforzi impotenti per vivere, e guaite come i bambini, imperciocchè voi non sapete trovare presso la tomba altro che i vagiti abbandonati nella culla. Noi, noi cogliamo la luce dagli astri, il profumo dai fiori, le brezze al mattino, la dolce aura alla sera, i colori alla terra, al cielo, al mare, alla levata ed al tramonto del sole; il più ardente sospiro allo amore, la più candida preghiera alla fede, la lacrima alla tenerezza, il bacio alle labbra della madre, il grido di cui combattendo per la patria si sente ferito nel cuore, i palpiti del vasto petto dei magnanimi, i gaudi della libertà, tutto quanto lo universo in sè comprende di bello e di sublime, e a modo di erbe dai sughi portentosi noi lo pestiamo, lo stilliamo, lo riduciamo in quintessenza, di cui una stilla sorbita basti a fulminarci di piacere. Forse non vi hanno veleni capaci di tanto? E se la natura possiede sostanze di tanta potenza nel male, perchè si sarebbe diseredata di altrettali sostanze potenti di bene? Ora tu, povera creatura, che hai fatto, e che faresti in seguito accanto a me? Ogni atomo della mia vita entrerà come una spina nella tua, i miei detti ti lacereranno, i miei gesti ti scotteranno: umiliato, sbigottito, sottosopra travolto, a te altro non rimarrebbe che scegliere fra le varie maniere della pazzia o stupida o furiosa. Va’ e ara la tua felicità, perchè a tirare diritto un solco nella vita, [p. 254 modifica] bisogna aggiogare bovi allo aratro, non aquile: queste tirano a volare in su, e si rifiniscono a battere le ali invano. — Ci siamo ingannati ambedue, ma la pena io porto sola. Diventa marito e padre: se ti manterrai onesto, sarà la sola mercede che io voglio pretendere da te: la onestà è un guanciale comune dove devono addormentarsi al sonno eterno i grandi come i pusilli. Tu non puoi imparare altra scienza oltre quella del ben morire; apprendila bene. Se dalle nozze ti verranno figlie, non imporre il mio nome a veruna di loro; potrebbe arrecarle sventura; e tu fa’ in modo di dimenticarmi del tutto; io desidero che la mia memoria ti passi davanti allo spirito come un’ombra a mano a mano diafana quanto più si accosta l’alba, — e vanità al primo chiarore dell’aurora; te, la mia memoria turberebbe, e me, il sapermi ricordata non consolerebbe. Vivi; vivete: porgetemi entrambi la mano, e senza amarezza: addio!

La esaltazione e l’abito dei gesti teatrali, come già avvertimmo, avevano compartito alla bella persona tale un sembiante d’impero, che quanto sarebbe stato agevole deridere usciti fuori della sua presenza, altrettanto difficile non patire stando al suo cospetto. Madre e figlio si trovarono corti a parole: ed invero tutte quelle che si potevano dire erano state dette fra loro, senza risparmiarne pure una; anche cotesto, che sarebbe stato prudente tacere. [p. 255 modifica]

A faccia china, tenendosi per le mani, la contessa e Ludovico s’incamminarono verso la porta; dove essi lasciavano l’orma, metteva il piede Eponina; se tu li avessi visti ti avrebbero porto la immagine dei primi parenti, che la favola ebrea finge banditi dal paradiso terrestre dall’angiolo ministro dell’ira del Signore.

Eponina però, contrariamente al suo desiderio, non fu dimenticata; le parole sgraffi dolgono un pezzo. La contessa andava ripetendo sovente: — Se fosse stata una Montmorency, non avrebbe messo fuori tanta superbia. Ludovico poi rabbrividiva quando, pensando alle parole: povera creatura!, tremava gli fossero rimaste sopra la fronte come il marchio del falsario.





Note

  1. .... essendosi fatto quel suono... tutti stupivano e si maragliavano.... e dicevano: sono pieni di vino dolce. (Atti degli Apostali Cap. II. 13).
  2. Anco il conte Vittorio Alfieri la pensava così. Vedi sua lettera al conte Alfieri di Sostegno.
  3. L’Abate di W. Scott, c. 22.