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capitolo xii. 219


anzi a restituire alla tua nobilissima casa (che è pure la sua) l’antico splendore. Tirando a indovinare, io immagino che ella mulini qualche partito per te, proprio coi fiocchi. Dove mai mi apponessi, badiamo bene, veh! per quanto possa riuscire fruttuoso, non vo’ letame plebeo in casa. A negozio fatto bisogna piegare il capo, ma a negozio da farsi, se non ci troviamo tutte le nostre convenienze, diamo di frego; nella quale risoluzione io mi sono tanto più confermata, che la esperienza mi ha fatto toccare con mano che la plebe o il popolo, per quanto tu lo stropicci, non piglia mai il lustro, eccetto sulle sopraccarte: gli è fiato perso, nonostante il sao anfanare, non giungerà mai a quella rettitudine di sensi e alla gentilezza di modi, retaggio proprio di noi altri nobili1. Quando mi scrivi, io ti prego di sapermi dire che ne sia di quella povera creatura della Onesti. Ella non merita il destino a cui la riservano le tristizie dei suoi parenti: mi era adattata a tenermela per nuora: adesso poi mi è impossibile: deve sentirlo ella stessa: procura usarle ogni più urbano e gentile riguardo: come gentildonna te ne prego, come madre te lo comando: proteggila, assistila in tutto, anche prima di me...» Dopo averla letta, Eponina si ripose la lettera in sono esclamando:

  1. Anco il conte Vittorio Alfieri la pensava così. Vedi sua lettera al conte Alfieri di Sostegno.