Il secolo che muore/Capitolo XI
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Capitolo XI.
LA BATTAGLIA DI BEZZECCA.
— Ed ora perchè ti fermi? Avanti! avanti! che assai corriamo pericolo di non arrivare a tempo.
— Lasciami stare, Filippo, perchè è bene tu sappia che adesso penso.
— Di grazia, a che pensi?
— Io penso, vedendo innanzi a me questa formidabile barriera delle Alpi, come l’uomo, circondando la sua vigna di siepe, potesse impedire che la volpe ci entrasse; Dio e la natura, con questa muraglia di monti, che lo straniero penetrasse in Italia non poterono. Col prete in corpo non ci ha redenzione in questo mondo, nè nell’altro; il prete non conosce patria, nè famiglia, ne nulla; con tutti sta e con nessuno. Penso a quel sacerdote, forse più animoso assai di Colombo, che si avventurò sa cotesto oceano di rupi, di tenebre e di ghiaccio, non già per iscoprire un nuovo mondo, bensì per trovare lo straniero, il quale, scansate le chiuse di Susa, scendesse libero a calpestare le terre italiche e a spartirle col papa1. Penso all’altro prete, e questa volta è il maggiore, che per cupidità trae fino in Francia, e quivi, genuflesso nella polvere, supplica Pipino, ai danni della patria, con le medesime smaniose preghiere che Volunnia pagana adoperò già verso Coriolano, affinchè non la guastasse2. Non gli bastando una volta, lo chiama la seconda, e dubitando che alla sua voce obbedisse, non repugna dalla brutta impostura di fargli scrivere lettere di esortazione e di minaccia dallo stesso S. Pietro, proprio di paradiso3. Ciò dalle Alpi Cozie, dalle Rezie peggio; di qui calò Ottone alla ruina di Berengario re d’Italia, pei conforti del prete dissoluto4, che il marito oltraggiato scaraventò fuori dalla finestra; su queste rocce i preti, cacciate le aquile di nido, vi educarono una schiatta d’eroi, eroi sì, ma del servaggio: qui seminarono le ceneri di Caino per raccogliervi larga messe di Giuda: per loro queste Alpi diventarono arnie di cagnotti di straniera tirannide: costoro, quante volte accostarono la bocca alle mammelle della Italia, lo hanno fatto per mordere. Altrove nascono i martiri della libertà, qui è vanto generare i martiri della servitù.
Cosa incredibile a dirsi e non pertanto vera, gli stessi scongiuri del padrone non valsero a cessare in queste creature strane la ubriachezza di combattere per le catene; invano la falce della guerra le ha mietute come l’erba dei prati, che vi ripullularono più infeste e più spesse delle prime; sacerdoti e laici vennero in questi luoghi a gara di sangue; l’oste Hofer ebbe un emulo solo e fa il cappuccino Haspinger. Ma allora potevano addurre a scusa di loro la causa comune dei tirolesi meridionali e di tramontana; non anco risorta la fortuna italica, e gl’italiani combattenti non per la indipendenza propria, sibbene per la grandezza altrui; adesso però italiani siamo tutti; con quale consiglio, o per quale destino dunque gli ostiari d’Italia si votano agli dèi infernali, per tenere aperte al dominatore forestiero le porte della casa comune? In che li offendemmo noi? Quanti i benefizi del tedesco e quali? Forse uno: lo imperatore austriaco li regalò di carabine atte ad ammazzare i fratelli da lontano.
— Curio, hai detto? Allora, favellò Filippo, adesso ascolta un po’ me, che queste faccende intesi discutere molto, ed io da me ci ho meditato assai. Curio, quante volte ti disponi ad azioni generose, guidati co’ palpiti del cuore unicamente, e con ambedue lo mani chiudi gli occhi alla tua ragione, o torna a casa. Noi o agita un genio, o strascina il fato, e se così non fosse, te lo paleso aperto, non saprei trovare la causa che ci spinge a morire in mezzo a questi orrori. Nota qui: tu hai detto che lo imperatore di Austria donò i tirolesi di carabine atte ad uccidere da lontano; or che penserai del nostro governo, il quale non ci ha provvisto di schioppi neanche capaci per nuocere al nemico da vicino? Rammenta che a quei di Bormio il governo si rifiutò a dare armi pei loro danari. Perchè i tirolesi muterebbero padrone? Perchè si daranno alla monarchia piemontese? Forse perchè questa li butti per giunta sulla bilancia ad aggiustare i pesi, come adoperò con Nizza? A che giova farla padrona delle Alpi Carniche? Forse perchè le getti via come adoperò delle Cozie? Certo l’Austria non fu larga mai, ma per pigliare ai tirolesi si mostrò sempre parca; e tu sai che la generosità dei principi consiste nel lasciarti la camicia, o nel non torre, come insegnò l’Alfieri. L’Austria, dopo aizzati i popoli a levarsi contro il padrone, non li consegnò legati per rinfresco, quando fece la pace; molto meno punì con le morti e con le carceri le passioni che aveva ella medesima eccitato, quando cessò il bisogno. Ora ti sarai accorto come la monarchia savoiarda, o chi fa per essa, pretenda, a tenore dei suoi vantaggi, che in meno di un anno ora siamo mastini ed ora conigli; ora tagliamo l’orecchio a Malco, ed ora, toccato lo schiaffo, porgiamo la guancia al secondo; increduli a un punto e superstiziosi, persecutori e intolleranti, divoratori e idolatri dei preti; ora ci aizza a lacerarci col ferro, col fuoco e perfino coi morsi; quando poi le fosse piene di morti fumano sangue, impone che traverso cotesta nebbia cerchiamo a tastoni la mano del nemico e la stringiamo come se di fratello. Quel Claudio, che fece nella mattinata ammazzare a legnate la moglie Messalina, e poi mandava la sera ad invitarla a cena, di petto al nostro governo è Salomone. L’Austria non fu larga mai, pure si legge come alla famiglia del Hofer donasse trentamila fiorini, cinquecento alla moglie e dugento per ognuna delle quattro figliuole, di pensione annua; al figlio Giovanni comperò un grosso podere e lo commise alle cure del consigliere di Stato Kugelmayer, onde, come figliuolo, lo allevasse e istruisse. Tu sai la monarchia savoina in qual modo ricompensasse la famiglia del Micca, che si consacrò alla morte per la salvezza di lei? Due razioni di pane; si dà di più ai cani! E al Garibaldi, come si mostrò olla grata? Il Garibaldi le donò due corone, e sovente penuriò di pane; ma che non gli desse niente non si può del tutto dire: in Aspromonte ella lo pagò in moneta di piombo. Rammentati che molti, i quali misero a repentaglio la vita per costruire il trono italiano, sono morti di fame; taluni, per eccesso di miseria, con le proprie mani si finirono5. Se invece dell’io, che vuol dire un uomo, tu avesti fatto echeggiare queste balze del noi, che denota popolo, tu avresti veduto squagliare i cuori dei tirolesi come le nevi dei loro monti al tepore di maggio. E, se ti piace di saperla intera, io ti dirò che altre volte fu abbandonato dalle armi nostre il Tirolo, nè si desidera adesso, perchè in Trento un dì fu sciorinata la bandiera rossa, dalla monarchia meritamente odiata, come quella che presente in lei il suo lenzuolo funerario.... sacra sindone nel senso di esecrabile.
Curio stette un bel pezzo con la faccia china, come per aspettare il fine della lotta fra il si e il no, che si combatteva dentro di lui; per ultimo sospirando disse:
— Ben vedo, Filippo mio, come il mondo morale al pari del mondo fisico si componga di elementi che si accozzano insieme coll’armonia di tante bestie feroci legate ad una medesima catena; necessità li costringe; così quando ognuno ne ha balia, in mare, in terra, in cielo, dappertutto combatte. Lo spirito di Caino rimugina pel creato... e guarda, Filippo, mentre noi ragionavamo, come apparisce affatto mutato l’aspetto del cielo: le nuvole turbinano pel remolino di venti contrari, poi di corsa minano all’assalto dei monti, respinte si ammonticchiano, si rannodano e tornano alle offese; lacerate fuggono, ma indi a poca distanza essendo occorse in un altro grosso battaglione di nugoli neri, si congiungono con quello: ecco di nuovo le tenebre si spandono sul creato; e ricomincia la zuffa: dal cozzo terribile ecco prorompere lampi, tuoni ed acqua a scroscio, appunto come dallo affrontarsi degli eserciti il baleno e lo strepito delle armi abbarbaglia ed introna: anche il fumo delle polveri abbuia ogni cosa, e il sangue piove come acqua ad inondare la terra. Questo lago, dove un’ora fa una fanciulla si sarebbe specchiata per accomodarsi i capelli, comincia a sentirsi agitato dalle furie e si apparecchia ad emulare i furori del cielo. Le onde commosse a qualche poeta parvero cavalli che si urtino in giostra; ad altri diedero immagine di un esercito, il quale, disperato della vittoria, raccolga la sua virtù per trovare morte gloriosa e vendetta, precipitandosi a flagellare la spiaggia: per me in coteste lacere spume, negli spruzzi fìschianti, nello irrequieto sollevarsi ed abbassarsi dei sonagli; vedo il fiero gruppo di Laocoonte, dei figli e dei serpenti: capi di uomini, capi di serpi convulsi d’ira, di pietà, di rabbia, scontorcimenti smaniosi ed urli disperati. E tu, o rôcca di Anfo, che comparisti pur dianzi agli occhi miei quasi il genio del luogo qui posto dalla natura a custodire le bellezze severe della Lombardia; fiore dell’Idro aperto ad ospitare nel tuo calice due cuori amanti, che promettevi di essere cortese di brezze vitali, di riposo e di oblio, deh! perchè mai, veduta da presso, mi scuoti dai cervello tutta questa polvere di poesia con la bacchetta di un caporale tedesco? Ecco: tra le tue due porte miro appuntato un grosso cannone; le cento feritoie pei moschetti ti guardano sinistre come gli occhi del basilisco; le artiglierie disposte attorno ai parapetti in cima la ricingono di una fiera ghirlanda... il bel fiore dell’Idro ha preso l’aspetto della morte ornata da nozze...
Mentre Curio andava a quel modo fantasticando (a venti anni possiamo esser poeti, senza incorrere in trasgressione) ecco passare una carrozza in mezzo ad un nugolo di polvere, e trarle dietro una frotta di persone veloce e acclamante:
— Pedranzini! Viva Pedranzini!
— Pedranzini? che coso egli è? domanda Curio; e Filippo:
— Egli dev’essere una stella apparsa di fresco nel firmamento nostro, e deve smagliare di luce davvero, se giunge a mettere per un istante da parte il grido di viva Garibaldi. Che vuoi tu? Gli eroi su questa terra nascono come funghi.
— Ahi! Sciagurato... dovevi, continuando la metafora, dire come le stelle in cielo, dove una chiama l’altra e pigliansi per mano ad alternare le danze divine... tu non sei nato poeta.
— Invece nacqui curioso e di molto: affretta il passo, che ci sarà dato raggiungere la carrozza a S. Antonio.
Nè s’ingannò, che il Pedranzini co’ compagni erano scesi all’albergo per rinfrescare i cavalli, intantochè una grande adunanza di gente ingrossava davanti l’albergo e con urli che pareva il finimondo gridava:
— Pedranzini! Fuori Pedranzini!
L’acclamato, non per salvatichezza, bensì per senso di soverchia modestia, quanto più si udiva chiamare, più s’ostinava a rimanere dentro: dai compagni, che gli facevano ressa di affacciarsi al balcone e dire quattro parole, si schermiva allegando non sapere parlare in pubblico, vergognarsi, sudare dalla pena, e così via: pure non ci fu rimedio, bisognò mostrarsi: egli compariva al balcone vermiglio come un rosolaccio, e, salutato il popolo, con voce alquanto tremula incominciò:
- Signori, io li ringrazio tutti, e di grandissimo cuore, ma in coscienza, ecco, io non vedo perchè le signorie loro mi facciano così grande onoranza: io ho fatto il debito mio. Grazie da capo, e buona notte a tutti.
E con un solenne inchino si ritirò chiudendo la finestra.
— Ecco un oratore che non ruberà di certo la mano a Marco Tullio, mormorò Curio; e Filippo:
— Ma ci metterei pegno sopra ancora io: o voi che lo sapete, questo signor Pedranzini chi è?
E dei villani, ai quali Filippo indirizzava la domanda, taluno di colta, e tale altro a caso pensato rispondeva:
— Il Pedranzini? Guà! È il Pedranzini,
Filippo non trovò di meglio che ridursi all’osteria e tentare costà di scoprire marina: meglio non gli poteva accadere, che ivi rinvenne parecchi patriotti, i quali, agguantata la ordinanza del Pedranzini, si sbracciavano a profferirgli vino a boccali, instando presso lui, onde contasse le prodezze del suo capitano; e quegli, che forse aveva più voglia di favellare che gli altri di udire, prese ad esporre:
— Conoscete voi il ponte del Diavolo? Voi non lo conoscete. Cioè; il diavolo sì, il ponte no: immaginate dunque una muraglia, che a guardarne la cima di sotto in su vi farebbe cascare la berretta in terra, e che questa montagna sia spaccata per modo che lo spacco largo in fondo vada restringendosi in punta, da formare due corni; ma, siccome tra corni e corni ci corre e voi me lo potreste insegnare, dichiaro accennare a quelli che arieggiano al primo quarto della luna; or bene, sopra cotesti due corni è gettato il ponte del Diavolo; giù traverso lo spacco l’Adda brontola crucciuso a cagione della piccola uscita che gli concedono le rupi laterali, onde egli si arruffa, e nel suo furore rotola acque rovinose e nevi e macigni per allargarla, e come succede a cui fa le cose per rovello, invece di allargarla la stringe. Già a voi altri non premerà niente sapere la cagione perchè cotesto ponte si chiami del Diavolo, e me ne rincresce perchè davvero la è una bellissima storia.
— E chi vi ha detto che noi non la vogliamo sentire? All’opposto contatela, contatela, che Dio vi mandi la buona pasqua e le buone feste.
— Come così è, porgetemi da bagnare la parola e vengo da voi. — Bevve un tratto, e continuò: — Il ponte è di legno; colui che primo immaginò fabbricarlo fu uno innamorato, il quale bruciava dalla smania di portarsi ogni giorno a mattinare la sua amante a Malga, dall’altro lato del fiume; ammannì le travi, i puntelli per di sotto, le staffe, ogni cosa per bene, ma a metterle traverso alle due cime era il busillis; più ci pensava e meno ci ve leva il verso; si votò ad uno ad uno ai santi, ma non intesero; allora implorava il diavolo, il quale, come ci conta il predicatore, stando sempre alle vedette per rubarci l’anima, gli comparve subito davanti, e gli disse: conosco la polvere e i pensieri della polvere detesto i discorsi lunghi, per lo che non volli mai accettare la deputazione al Parlamento italiano; patti chiari ed amicizia lunga; dammi la tua anima ed io ti fabbrico il ponte in un bacchio baleno. —
— Ma senta, signor diavolo, si fece a notare il povero innamorato, — e l’altro:
— Qui non ci è diavolo che tenga, o piglia o lascia, che ho un ritrovo a Firenze per provvedere di tabacco la regìa cointeressata.
— Ebbene, storto il collo, gemè lo interessato, io prometto l’anima di chi primo passerà il ponte. — Chiuse gli occhi, aperse gli occhi, e il ponte era finito.
Il diavolo andò dall’altra parte del ponte aspettando l’innamorato al passo come una lepre, ma questi allora comincia a dare spesa al suo cervello, e pensa a cosa, che neppure era cascata in mente al diavolo: — To’, egli diceva, se io passo mi trovo ad avere pescato pel proconsolo, perdo l’anima, e a casa della dama non ci vado. Allora pensa una nuova malizia; va a casa il curato, e grida di strada: oe, oe, ecci il curato? — Che si vuole dal curato? E chi siete voi? — Quegli disse il nome e aggiunse: Presto, venga via che di là dal fiume e in procinto di morte Girolamo d’Andreis e vuole confessarsi a voi. — O come volete che a quest’ora bruciata mi metta giù tra questi scavezzacolli e mi arrischi a guazzare l’Adda di notte?
— Se gli è per questo non si rimanga, che qui oltre hanno fabbricato un ponte e vostra reverenza potrà passare da una sponda all’altra, come dalla canonica in chiesa. — O come mai? E chi ce l’ha fatto? Ce l’ha fatto sua maestà l’imperatore Francesco?
— Venga e vedrà. — Vengo, vengo; piglio la pipa, l’olio santo e l’ombrello e vengo via. — Andò, maravigliò, e passò; l’innamorato rimase a sbirciare di qua dal fiume: intanto la notte era diventata buia; il diavolo sente il rumore dei passi e dice: Attenti, eccolo il bindolo; ora te la darò io per avermi fatto aspettare tanto. Stende le braccia, acciuffa il curato e gli dà una zannata; per ventura mise il dente sulla scatola dell’olio santo e la stiantò di netto; l’olio santo gli si sparse in bocca. — Puh! che puzzo! questa è roba da preti e questa è anima di prete; sa di salvatico e non mi basterebbe a digerirla un mese, tanto ha il salcigno addosso. — E presi alla rinfusa anima e corpo del curato, pipa, olio santo e ombrello, li scaraventò giù nell’Adda, scappando via scornato tra un nugolo di fuoco e di zolfo. Ecco come il diavolo fu gabbato e il ponte costruito. I superiori ordinarono passassimo il ponte notte tempo e senza fiatare; prima di metterci il piede, chi si fece il seguo della croce, chi no; tutti tenevano il dito sul cane dello schioppo alzato; non trovammo inciampi; silenzio perfetto. Avanti con coraggio, ci sussurravano sommesso: gli esploratori hanno percorso fino a Ceppina e non avvisano incontro; rumore di spari non si sente; gli austriaci o non occuparono, o sgombrarono i passi. va’ che la indovinava! Allo improvviso giù sul capo ci si rovescia uno acquazzone di fucilate e di racchette; chi le mandava? Veruno si accorgeva della presenza del nemico: le rupi, le roccie, i macigni, le piante balenavano... e noi? Noi, signori, scappammo. Che cosa vi dirò io? La sorpresa, la notte, il numero, e se voi signori avete in pronto qualche altra scusa, vi prego a prestarmela... ma rimarrà pur sempre posto in sodo che noi scappammo. Ora, signori, tenete bene a mente quello che sono per dirvi: capaci di confessare la fuga sono solo quelli che si sentono forti a ricattarsi, e noi ci ricattammo per virtù del nostro colonnello Guicciardi, una perla di uomo, il quale ci disse: Giovanotti, tutte le ciambelle non riescono col buco; su dunque da bravi, ed a quest’altra bellissima ottava. Puntuali gli ordini, celere la obbedienza; di faccia agli austriaci inseguenti sorge un colle; a questo ripariamo e su questo il colonnello ci postò in due colonne a catena; un po’ più indietro le artiglierie col sergente Baiotto, il quale noi diciamo che val per otto; difatti ha il compasso dentro gli occhi. Qaando gli austriaci vennero a tiro, pensate se li servimmo a dovere; fortuna anco volle che una nostra granata scoppiasse in mezzo al ponte, giusto allora che essi si affrettavano a traversarlo; cinque sei ne rimasero infranti, gli altri si sgominarono. Baiotto picchiò e ripicchiò coi cannoni, talchè pareva il maestro di cappella che batte la solfa sul leggio. Gli austriaci, fatta la prova che ad ostinarsi a rimaner li, gli era come esporsi alla pioggia senza ombrello, tornarono indietro più presto che non erano venuti avanti; così avemmo tregua; ma questo non bastava.
Il nostro Guicciardi, che è nato capitano calzato e vestito, il giorno innanzi aveva mandato una colonna condotta dal capitano Zambelli e dal nostro Pedranzini, affinchè, girato Bormio, salisse la ghiacciaia del Reit, e quinci tentasse scendere sulle alture soprastanti la strada dello Stelvio, onde tagliare la ritirata agli Austriaci fra la prima cantoniera e la seconda galleria: fatica lunga e piena di pericolo. Una seconda colonna ebbe ordine seguitasse la prima fino alla salita del Reit, lì da lei si partisse, e si conducesse ad agguatarsi nel bosco fra Bormio e i Bagni vecchi. La colonna terza guidava il Rizzardi, il quale fino a Ceppina doveva camminare di conserva con la prima e la seconda colonna; a Ceppina lasciarle per ascendere il monte a sinistra, e girare alle spalle del nemico verso il passo del Fraele, comparendo poi all’improvviso sul sentiero che domina i Bagni vecchi e la strada dello Stelvio. Ancora, furono inviati sessanta uomini di avanguardia, affinchè si appiattassero a Ceppina per tenere d’occhio i movimenti del nemico, e porgerne avviso con velocissimi messi; se assaliti da forze soperchianti, ripiegassero verso le Prese. Quanto restava di forza, cioè il battaglione 44°, alle due del mattino si mise in marcia dalle Prese per rinforzare l’antiguardo; e anche a quello comandarono procedesse più che poteva celato. Intendimento del colonnello era assalire franco i Bagni vecchi pel piano di Bormio, sicuro appena che le colonne si fossero trovate al posto; e questo, a giudizio dei savi, fu un tiro da generale proprio co’ fiocchi: però tutte le cose non andarono per filo di sinopia, e bisognava aspettarcelo a cagione dei calli infernali, del buio e del freddo ladro. L’avanguardia dei 60 uomini, invece di fermarsi alla Ceppina, secondo il concertato, volle procedere oltre in compagnia del Rizzardi: il battaglione 44" gingillò un’ora e mezzo a mettersi in marcia. Dopo l’avvisaglia del Ponte del Diavolo, il colonnello pendeva incerto sul da farsi; fin verso il mezzodì non gli giunsero novelle dagli esploratori; le prime che vennero poi piene di paura. Duecento e più austriaci in procinto di mostrarsi sulle alture dal lato della valle di Viola: una colonna di fumo dalle cime dei gioghi opposti era tenuto indizio di altra colonna nemica in procinto di entrare in battaglia: da per tutto sgomento; parecchi uffiziali, e dei buoni, consigliano la ritirata; ma il Guicciardi lì fermo come i suoi monti, e bene avvisò: più tardi informato meglio conobbe: le tre colonne salve e prossime alle posizioni che dovevano occupare: gli austriaci respinti al Ponte del Diavolo ritirarsi alla dirotta: il sospetto di rimanere circondati dal nemico follia. Scorti appena gli austriaci ai Bagni vecchi, corremmo ad assalirli da quattro lati; gli austriaci disposti a schifare battaglia davano indietro, e per noi era un vero crepacuore a vederceli guizzare di mano così, però che veruna delle tre colonne fosse proprio giunta al posto, ed anco lo Zambelli si trovava alquanto in ritardo. Il nemico per salvarsi dalle molestie appicca il fuoco al ponte della galleria; noi ci corriamo sopra, calpestandolo lo spengiamo, e sempre alle costole dei nemici fino alla prima cantoniera: qui parecchi dei fuggenti voltano faccia, ed avvantaggiati dai luoghi adatti per le difese, prendono a menare le mani, mentre gli altri affrettano il passo. Ecco il capitano Pedranzini con tanto di lingua fuori arriva sul Reit, si affaccia e mira gli austriaci sbucare dalla prima cantoniera per ripararsi nella seconda, e quindi ai gioghi dello Stelvio. — Ah! mi scappano, urlò, e poi, senza dire ne uno ne due, sdraiato supino si lasciò andare giù a corpo perso per la ghiacciaia soprastante alla posizione del Diroccamento; noi con le mani chiudemmo gli occhi; quando gli riaprimmo mirammo il capitano balzare in piedi, che era giunto in fondo co’ calzoni in brandelli, ma col corpo intero, e l’anima ancor più: impugnato il revolver, si slancia dentro la grotta con gran voce esclamando: Giù le armi, o siete morti tutti! — Era solo: una cinquantina dei suoi compagni, vergognando di abbandonarlo, e tratti fuori di sè dallo esempio eroico, giù anch’essi a mo’ di muffli dalla ghiacciaia per sovvenirlo. Come Dio volle giunsero prima che gli austriaci, rinvenendo dallo sbalordimento, gli sparassero addosso. Dalla parte opposta i nostri, espugnate le difese della imboccatura, penetrano a volta loro nella cantoniera; il nemico, preso in mezzo a due fuochi, chiede ed ottiene quartiere. Di più non potemmo fare; abbiamo combattuto venti ore senza prendere fiato, e ci fu gloria avere conseguito in un giorno solo quello che cinquemila uomini in due mesi di travaglio non poterono ottenere; e gloria anco maggiore ci fu mostrare al mondo come pochi cittadini sappiano difendere il proprio paese più e meglio delle milizie stanziali, schianta famiglie, scudo di cartone in guerra, grandine di manette di ferro in pace.
Filippo, udendo queste notizie, tutto esaltato proruppe, levato il bicchiere colmo:
— Se queste fossero le guerre della repubblica francese del 1792, anco per noi sarebbe nato un Hoche. — Piaccia alla fortuna non farlo affunghire sotto la religione dei rogi capitani.... ad ogni modo bevo per questo animoso; pari in altezza di spiriti all’antico Curzio, ma più avventurato di lui.
Quietatosi lo schiamazzo, Curio a sua volta interrogò:
— E al Tonale non fu combattuto?
— E donde vieni? Dalla China? Saresti a caso uno dei Sette dormienti? Anzi lo sei addirittura.
— Beffatemi quanto vi piace, a patto che vogliate istruirmi: nè a voi, nè a me giova raccontarvi le cagioni, ond’io ignoro tutto quello che fu operato in questi ultimi giorni; vi basti che io lo ignoro, e che brucio saperlo.
— Ebbene, favellò uno della brigata, tu hai da sapere, che ci era una volta un re.... no un Cadolini ciurmato colonnello....
— Ho capito, interruppe Curio, ne abbiamo buscate?
— O che discorso è questo, disse un altro; o che forse il Cadolini è un codardo?
— No davvero: per me sostengo, rispose Curio, che, rispetto a cuore, egli può reggere il confronto con qualunque altro italiano; quanto a cervello poi, sostengo del pari che a riporlo in un guscio di noce, ci ciottolerebbe dentro; per giunta permaloso e testardo, che è uno sfinimento.
— Dunque non vuoi saperne di più?
— Al contrario, parla.
— Ebbene, da’ retta. Su le alture di Vezza gli austriaci si mostrano numerosi e pronti alle offese; molti possono essere i loro fini; il più prossimo percotere di fianco la colonna del Guicciardi; colà furono mandati i maggiori Castellini e Caldesi, nel comando uguali, nei concetti e nell’indole dissimili, per non dire contrari, però alieni da soccorrersi a vicenda. Hai da sapere come il Castellini, lasciata solo una compagnia di soldati e Vezza, sotto gli ordini del capitano Malagrida, aveva dato indietro riparandosi nelle linee trincerate. Il Caldesi, considerando come fosse peggio che pericoloso lasciare così allo scoperto cotesta compagnia, comanda al Malagrida che anch’egli si riduca dentro le trincero; il Malagrida ubbidisce: allora il maggiore Castellini pieno di rovello, tal che pareva il diavolo lo portasse via, tempesta il Malagrida affinchè rifaccia i passi e torni ad occupare Vezza; il Malagrida ubbidisce; se non che nel frattempo era accaduto un caso: gli austriaci avevano preso Vezza; però accolsero la compagnia del Malagrida con un nugolo di moschettate a pennello aggiustate: la compagnia rimase scema del tenente Prada ferito a morte. Il Castellini, vista la mala parata, invia a rincalzarlo a destra una compagnia col capitano Adamoli, a sinistra una mezza compagnia condotta dal Travelli; gli austriaci non le aspettano, bensì sortono da Vezza a far giornata; il Castellini piglia seco le tre compagnie e va a gloria contro il nemico, respingendolo nel primo impeto fin sotto Vezza. Qui bisogna confessarlo: se il Castellini fosse stato sovvenuto dal Caldesi, vinceva; lo lasciarono solo. Ne fu cagione il maledetto screzio sorto fra loro di tenere Vezza, ovvero abbandonarla: più sicuro il partito del Caldesi, quello del Castellini più generoso; però il Caldesi con le sue compagnie non si mosse. Per vincere uniti, il Castellini ed il Caldesi non avevano mestieri operare miracoli, e ce ne fosse stato bisogno i garibaldini erano usi a farne. Ed invero il colonnello Cadolini ed il capitano Oliva non bandirono che, se le munizioni non avessero fatto difetto, avrebbe vinto Castellini? dunque perchè il Caldesi non lo aiutò? — I volontari fin lì non balenarono: occhio per occhio, dente per dente; pure il Castellini, non per crescere l’ardore dei suoi, che questo sarebbe stato impossibile, bensì per mantenerlo vivo, ecco, brandita la sciabola si mette alla testa dei soldati, gridando: Avanti! Una palla lo colpisce nel naso: ei se lo fascia alla meglio e continua a gridare: Avanti! Ora una seconda palla gli fora da parte a parte il braccio sinistro, ma non per questo gli viene meno l’ardimento, e insiste a dire: Avanti! Una terza palla lo ferisce in mezzo al petto, ed egli casca per non rilevarsi più, gorgogliando sangue dalla bocca; nel punto stesso gli muore accanto il capitano Frigerio. Onore ai caduti! Lombardi entrambi; il primo padre di quattro figliuoli; l’altro giovane ricco di virtù e di censo: per ora no, che il famo dei turiboli presi a nolo leva la vista, più tardi il primato del valore sarà deferito alla Lombardia, la quale non so se meriti maggior lode o per quello che ha fatto, o per quello che non ha chiesto. Gli austriaci arrivavano bene a quattromila, e noi non eravamo seicento, ma ci ritirammo; ci dissero per consolarci che la nostra fu ritirata solenne, e aggiunsero altresì che i nemici ci sbraciarono un sacco di lodi: senapismi ai piedi! rettorica stantia! Peggio di tutto quel cavare vanto (come i nostri guidaioli fecero) dallo avere noi ripreso le posizioni che avevamo prima. Bella forza! le ripigliammo perchè gli austriaci se ne andarono via: riacquistammo coi piedi quanto ci tolsero colle braccia...
— Parte il Pedranzini!
Appena fu udita questa voce, la taverna rimase deserta in un attimo: taluni, per troppa fretta di uscire, cozzarono insieme riportandone sconce ammaccature.
Curio e Filippo, presentendo vicino qualche fatto d’arme, tolto a nolo un mulo ed un cavallo si affrettano verso il campo. Di fatti, mentre eglino si trattenevano per via, erano successi scontri terribili con danno ed uccisione dei nostri, dai quali uscimmo sempre vittoriosi mercè la virtù del Garibaldi o degli eroici compagni suoi. Non è scopo nostro raccontarli; dove più, dove meno, esattamente occorrono descritti in parecchi libri; e piacesse a Dio che come molti furono a scriverli, così molti pure fossero a leggerli; ma la più parte degli italiani incuriosa gli ha dimenticati, nè le preme che altri glieli rammenti: bisogna avere il coraggio di confessarlo addirittura: se gli italiani hanno levato una gamba dall’avello, a levarci anco l’altra par loro fatica; morti non sono più, ma neanco vivi.
Però a noi importa accennare come il Garibaldi, avendo giudicato opportuno aprirsi il varco sopra Riva, gli bisognasse impadronirsi di tutta la strada dal Caffaro ad Ampola: ora questa strada va munita di quattro fortilizi, che giova in succinto descrivere. Lardare, nella valle delle Giudicane a sinistra del fiume Chiese, armato di sedici cannoni chiude la via di Brescia per a Trento. Tra Condino e Tiane, risalendo il fiume Adana, s’incontra il gruppo di tre fortini chiamato Renegler; il primo detto Vegler è munito di sei cannoni e di un muro bucato di feritoie da cima in fondo, disposto ottimamente pel sicuro trarre della moschetteria; procedere oltre il fortino nella strada pubblica non si può, perchè ella passa appunto nel mezzo del fortino mediante la sua porta maestra: appellano il secondo Dazzolino, il quale presenta una torre con sei grossi cannoni, che guarda la valle delle Giudicarie: il terzo finalmente, nominato Larino, è un ammasso di rocce per altezza formidabile a ponente dell’Adana, donde vigilano la difesa del ponte di Cimego. Fra i monti Fustac e Cecina il forte Ampola chiude la valle; il forte Teodosio sorge nel mezzo della valle di Ledro, sulla via postale che mena a Riva, anche egli munito di gallerie e feritoie, scavate nella roccia, per bersagliare al coperto.
Il generale Garibaldi, nello intento di venire a capo della impresa, inviava gente, la quale, riuscendo dalla parte del monte Nota e di Lamone in val di Ledro, girasse la posizione; ma gli austriaci, accortisi del concetto del Garibaldi, con molta mano di soldati condotti dal generale Kaim assaltano con subite mosse i garibaldini su tutta la linea. Nella notte dal 15 al 16 luglio i cacciatori tirolesi presero a fulminare i nostri da Rocca Pagana e dalle alture di Storo, pur troppo con jattura inestimabile a cagione dell’eccellenza delle armi, altre volte avvertita. Un’altra colonna austriaca non meno gagliarda della prima si industriava avviluppare la sinistra dei volontari fra Condino e Cimego.
I garibaldini, sempre pari a se stessi, si arrampicano su per le schegge delle pendici a fine di sloggiarne il nemico che riparato, a man salva dalla lontana li ammazza, e tanto sembra lo favorisca la fortuna, da potere in breve rompere la comunicazione fra Storo e Condino. Non volgevano poi sorti migliori alla vanguardia dei volontari venuta a zuffa mortale colla colonna austriaca uscita da Daone sulla destra del Chiese, e co’ cacciatori tirolesi, i quali la straziavano con le infallibili carabine dalla sponda sinistra di cotesto fiume.
Accadde qui che uno di quei condottieri piovuti sul capo a Garibaldi, come talora piovono dal cielo ranocchi nel mese di luglio, ordinò a parte dei mal capitati commessi alla sua guida, valicassero il Chiese per combattere gli austriaci attelati sulla opposta sponda; non pochi, prima di agguantare la riva, travolti dalla corrente rovinosa del fiume, perirono; quei che passarono ebbero ad attaccarsi alle crepe delle rupi a mo’ di tarantole; per la qual cosa, come il nuovo capitano potesse sperare che contrasterebbero a cui di sopra li bersagliava a piè fermo e con le braccia libere, non si comprende.
Taluni, e non erano i più miserandi, uccisi capitombolavano in molto orribile maniera; davano maggiore affanno i feriti, i quali non potendo aggrapparsi, ruzzolando, rompevansi di scheggia in ischeggia, con istridi da fendere il cuore. Rigagnoli di sangue correvano coteste bricche: non fu possibile mantenersi lassù; costretti a salvarsi, tracollarono giù a corpo perso: infuriava sopra la testa loro una paurosa grandine di palle; alcune di queste, rimbalzando dalle pareti del monte o dai massi del fiume, ferivano orizzontalmente, o di sotto in su: come pesci guizzavano su le acque; come vipere sibilavano per l’aria. Il fiume avaro esigeva pel ritorno maggiore pedaggio di affogati che per l’andata: non ci fu penuria di casi pietosissimi: amici che non vollero abbandonare amici, tuttochè spiranti o morti si fossero; e surti appena alla opposta riva del fiume, percossi da una medesima palla, sparivano nelle onde rovinose. Due fratelli, l’uno dell’altro innamorati, non ebbero altro conforto che annegare abbracciati. Più oltre il buon maggiore Lombardi, salito su di un argine, mentre con voce e con cenni anima i suoi a tenere il piè fermo, rotto nel cuore da palla tirolese, tombola annaspando con le mani e muore senza dire un fiato. Tale il destino della guerra; ma perire così senza costrutto, per colpa di un grullo, è amaro. Per funebre elogio al maggiore Lombardi basti dire che fu di Brescia; ella madre degna di tanto figlio; egli di tale e tanta madre degnissimo.
Trovando questi mal condotti chiusa allo scampo ogni via, tutti quelli che non valsero a traghettare per la seconda volta il fiume si arresero a quartiere. Pareva ormai battaglia perduta, e non fu così, in grazia degli estremi sforzi operati dal Garibaldi e dal maggiore Dogliotti, il quale così bene si valse dei suoi cannoni messi in batteria, che sgominò e costrinse i nemici a ritirarsi oltre a Cologna. Cara vittoria fu quella, ma fra le alpi tirolesi non si vince che a prezzo di sangue; però che sia mestieri col petto scoperto farci contro a nemico riparato da boschi, da rupi e da ogni maniera di difese naturali, ovvero dall’arte di lunga mano allestite.
Intanto chiunque voglia sapere che cosa valgano i nostri artiglieri, e ne tragga auspici di avvenire meno inglorioso dei tempi passati, dove la insolenza altrui ci chiamasse alle armi, io glielo dirò con le parole di un giovane che fu parte di coteste avventure e le narrò, tacendo per modestia il suo nome:
«Ci sdraiammo su l’erba e raccontammo noi pure le nostre peripezie. Il sole volgeva al tramonto e andava adagio adagio a nascondersi dietro le montagne, le quali si colorivano di una tinta rossastra, pigliando le forme spiccate che vediamo anche noi ne’ nostri monti al finire di una serena giornata, e quando il cielo e tutto sgombro di nuvole. Su, su in lontananza; al riflesso degli ultimi raggi del sole, brillavano di luce abbagliante le carabine dei fuggitivi, e si distinguevano anco ad occhio nudo le torme bianche ed azzurre della fanteria e dei tirolesi. Quando ecco, mentre ce ne stiamo là chiacchierando e riposandoci, un frastuono infernale ci fa saltare tutti in piedi, e sentiamo sulle nostre teste il fischio rumoroso di una granata: «Non è nulla!» esclama un garibaldino: «è un cannone puntato qui a venti passi che scarica sopra la nostra testa.» Corremmo tutti nella strada, dove infatti tre o quattro cannoni incominciarono uno dopo l’altro una musica stupenda.
«Fu spettacolo bellissimo. Gli artiglieri stavano impassibili, silenziosi, attenti al comando. Un caporale pigliava la mira, ed ogni volta che vedeva sui monti a 1600 o 2000 metri di distanza un brulichio di tedeschi, si allontanava due passi e gridava: fuoco! Il cannone sparava e la botta era sempre sicura. Si vedeva cotesta massa sbaragliarsi, e saltare in aria tronchi di albero e terra sommossa. Noi maravigliati battevamo fragorosamente le mani.
«A un tratto si sente venire a corsa un cavallo: era un maggiore di artiglieria, che aveva saputo come di là dal fiume, nella chiesina dove stemmo la notte innanzi appiattati noi altri, ci stessero appiattati moltissimi austriaci: per verificarlo ordinò caricassero le artiglierie a palla; poi, voltosi al caporale, gli dice: «Cercate subito di mettere una palla sul lato destro della chiesa: se ci sono hanno da venir fuori.» La distanza era molta, e ci pareva impossibile che il colpo avesse a riuscire per lo appunto come il maggiore voleva.
«Il caporale non pronunzia verbo; si china sul pezzo, lo muove nella direzione indicatagli ed ordina all’artigliere di far fuoco. Lo credereste? La palla andò a battere sul muro di destra della chiesa: per altro non si vedeva uscire nessuno. «Ebbene, disse il maggiore, piantatene un’altra a sinistra, e se vi riesce a cogliere vi prometto la medaglia.»
«Vidi un sorriso di contentezza lampeggiare sul viso abbronzato del caporale; si chinò un’altra volta e studiò più lungamente la mira standosene immobile come il suo cannone. A un tratto si tira indietro e grida all’artigliere: fuoco! e la botta va via. Un applauso fragoroso scoppiò nelle file, ma gli austriaci non si vedevano venir fuori. Allora il caporale si appressa al maggiore, mette la destra al kepi e gli dice: «Signor maggiore, vuole permettere che io faccia un tiro a volontà?» — Ve lo permetto, rispose il maggiore; vediamo se vi riesce a snidarli.» Allora il caporale infila colle sue mani una granata nel cannone, ripiglia per la terza volta la mira e lascia andare la carica.
«L’effetto fu miracoloso. Il tetto della chiesa venne sollevato in aria come il coperchio di una scatola, e intanto che un grido di approvazione echeggiava fra i volontari, il caporale sorridendo accennava colla mano che si guardasse la chiesa. Se vi siete mai provati a gettare un sasso in un bugno, avrete veduto le api prorompere tutte in folla ronzando. Lo stesso accadeva lassù. Si vedevano scaturire austraci dalla chiesa, fitti e serrati, voltare a destra e a mancina e correre su per la montagna. Allora non più un solo, ma tutti i pezzi piantati sopra la strada cominciarono a fulminare granate addosso ai fuggenti. Parevano cannoncini di legno, tanta era la rapidità con la quale si voltavano ora da una parte, ora da un’altra. Ogni colpo andava nel bel mezzo ai gruppi dei nemici, come se un demonio raddrizzasse e guidasse per la strada le granate e le palle. Io potrei giurare che non ci fu un tiro solo sprecato.
«Intanto che facevamo le nostre congratulazioni al caporale, sentimmo a qualche distanza un colpo di fuoco e il fischio di una palla. Di li a mezzo minuto un altro colpo e un altro fischio e poi un terzo ancora. «Ah! Ah! (disse il caporale) io l’ho bell’e visto: ci è lassù un tirolese, che ha una eccellente carabina; ma forse il mio cannone va più lontano di lui.» E una quarta palla di carabina venne a percuotere nella mota dell’affusto. Il caporale con aria sbadata puntò il suo strumento, e mentre noi ci scostavamo per iscoprire l’effetto, partì la botta e si vide un gran rimescolio di terra e sassi, appunto là dove il tedesco tirava. Non si senti più nulla; la medicina aveva operato.»
Fuori di Condino si agita un grande brulichio di gente, la quale di grado in grado quotandosi si ordina in fila, giusta i comandi dei suoi capitani: quanto meglio potevano s’industriavano a ricomporre le compagnie, tanto crudelmente decimate al passo e al ripasso del Chiese. Chi volesse sapere qual tributo di sangue la gioventù italiana pagasse in questa infelice impresa, gli dirò, che di una compagnia di 187 soldati, 90 appena risposero all’appello; la 24a poi, rimase con un sergente, due caporali ed un tenente. Poco oltre si mirava il loro colonnello a cavallo, tutto inorato che era un desìo; con la sciabola irrequieta egli trinciava l’euro a fette, come il Conte di Culagna nella Secchia rapita, o ci faceva crocioni da disgradarne il papa. Appena Filippo l’ebbe scorto esclamò:
— Ecco il capitano famoso!
E siccome tanto non parlò basso, che altri degli accorsi costà non lo udissero, taluno di loro soggiunse:
— E adesso, che abbaca egli?
— Ha ordinato la rassegna della sua colonna ricomposta, prima di ricondurla alla mazza.
— Zitti:
Stiamo Marte a sentir la gloria nostra,
chè a quanto sembra egli è per mettere fuori un’arringa.
— Udiamo! Udiamo!
— Soldati, cominciò a squittire il capitano dei capitani, l’Europa, anzi il mondo intero vi guarda. A voi spetta restaurare l’onore della milizia italiana manomesso dalle truppe stanziali, che male ordinate e condotte peggio, dal 48 in poi, altro non fanno che toccarne; ed è inutile negarlo! Le lodi a tanto il rigo, che sbraciano loro i giornali officiosi sono pannicelli caldi.... incenso ai morti. Vedete quei monti là? Li vedete? Ebbene, noi li sfonderemo, come nei circhi equestri miriamo un cavaliere sfondare con una capata quattro cerchi e sei coperti di carta straccia. Quando saremo giunti a Trento, se gli austriaci ci offriranno pace, io risponderò loro: non è tempo ancora. E se arrivati a Innspruk, a Salisburgo, a Gratz, a Buda, si attentassero di nuovo a proporcela, interprete degli animi vostri, io la ricuserò daccapo dicendo: non è tempo ancora; gli è a Vienna; proprio nel palazzo imperiale di Schoenbrunn, che io detterò la pace; A voi, che manca per conquistare un tanto scopo? Nulla. In voi costanza, in voi slancio nello assalire ed a piombo per resistere; non fame, non sete, non geli vi abbattono, nè difetto di ambulanze, di vesti, di calzature. Quando i cannoni tonano, i moschetti fischiano, le racchette stridono, a voi pare che incominci la orchestra, ed a quei suoni menate i vostri balli. — Ma ora che io ci penso su, onorevoli signori, devo confessare che quando affermai che nulla vi manca di virtù soldatesca, io dissi una solenne bugiarderia; quanto dichiarai voi possedete, e non mi disdico, ma una cosa vi manca:
alla virtù latina |
Sì, signori soldati, vi manca la disciplina. La disciplina che rese tanto illustre e potente il Vecchio della Montagna, il quale avendo ordinato ai suoi assassini di sentinella sull’alto di una torre, che si buttassero di sotto, uno ci si precipitò subito, e gli altri stavano per seguitarlo, se Enrico di Sciampagna, che vi si trovava presente, non lo avesse impedito. A questi patti, cittadini, si viene a capo del mondo; nella milizia obbedienza, nella religione fede, cieche entrambe, passive, aborrenti da qualunque osservazione, aliene da brontolìo, benda agli occhi ed agli orecchi, e allora nella milizia e nella fede voi vedrete rinnovare miracoli. Allora Manlio mozzerà il capo al figliuolo per avere vinto il nemico trasgredendo i suoi ordini; allora con più stupendo esempio lo spartano che aveva già ficcato due dita buone di ferro in corpo ad un ateniese, udita di repente la tromba del richiamo, estrasse la baionetta dal corpo del nemico, la nettò, la rimise nel fodero e fece per andarsene; della quale novità maravigliando l’ateniese che stava per morire, domandò: o perchè non finisci di ammazzarmi? — Ti finirò un’altra volta, rispose lo spartano, adesso mi bisogna andare al quartiere a cucinare il rancio. Capite! Se cotesta perla di spartano vivesse a questi tempi, la croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, o quella della Corona d’Italia, o l’altra del valore militare di Savoia non gli poteva mancare. Ci fu una volta un re, e si chiamava Sancio, diverso dallo scudiero di Don Chisciotte, il quale, stando nella sua tenda a letto, udì parecchi soldati venire a lite col capitano loro per cagione della disciplina, ond’egli, tuttochè si trovasse in camicia, uscì fuori con una picca in mano, infilando in men che si dice amen una mezza dozzina dei riottosi; per me sono fantino di comparirvi innanzi anco ignudo. Breve, stringendo le mie parole, io affermo che i soldati possono fare a meno del pane per mesi e per anni, ma della disciplina ne manco un’ora. Qaando carichiamo un uomo soldato il suo tic e il pane, il suo tac la disciplina. E adesso esaminiamo un po’ come stiamo a camicie ed a mutande.
Curio, il quale all’udire cotesta filastrocca fu sul punto di prorompere in uno scoppio di riso, accostatosi all’orecchio di Filippo, bisbigliò:
— Impaglialo addirittura!
Filippo stringendosi nelle spalle soggiunse: — Ce n’è di peggio.
Intanto i soldati avendo estratto dal sacco le biancherie se le stesero dinanzi ai piedi. Il colonnello, dopo averle con molta gravità considerate, non senza arguzia notò che biancherie coteste si chiamavano così per dire, ma con maggiore proprietà si avevano a chiamare negrerie.
— E questa toppa perchè? dimandava severo ad un volontario.
— Questa toppa! Evidentemente per tappare un buco alla camicia.
— E perchè vi faceste un buco alla camicia?
— Lo domandi alla camicia, o meglio ai macigni del Chiese, dove V. S. facendoci ruzzolare potemmo appena salvarci la pelle.
Il colonnello tacque e tirò di lungo fino alla fila estrema, dove di botto osserva un volontario, il quale invece della borraccia da munizione si portava allato certa fiasca di vetro; allora con mal piglio domanda:
— Ch’è questo mai? Che cosa avete fatto della vostra borraccia?
— L’ho gettata via, perchè l’acqua dentro ci pigliava di cattivo.
11 colonnello allora dando un passo indietro, le braccia al sen conserte, a tutto Napoleone, esclamò:
— E che cosa dirò io al reale Governo, quando mi domanderà conto della vostra borraccia?
— Eh! signor colonnello, se il Governo avesse a chiedere conto di qualche cosa a lei, vada franco che non sarebbe delle borracce!
— E di che dunque, temerario?
— Dei tanti poveri fratelli per colpa sua affogati nel Chiese.
— Agli arresti! Disarmatelo, portatelo subito agli arresti! urlava arrovellato il colonnello, e ne successe un parapiglia da non potersi con parole significare.
Intanto Curio e Filippo curiosamente osservarono un frequente dimenio dei piedi, che i soldati di prima linea facevano gettandosi dietro in fretta le biancherie, le quali i soldati di seconda linea a posta loro co’ piedi si stendevano davanti. Attutito il tumulto continuavasi dal colonnello la rivista nella 2a linea, dove egli, confuso per le insolenze del volontario, procede meno accurato di prima, non gli parendo vero di condurla a termine senz’altri scappucci. Poco dopo Curio e Filippo seppero dal dicace garibaldino, come egli avendo con la piìi parte dei compagni suoi venduto, o in altro modo alienato camicie e mutande da munizione, però che avendole provate ne rimanessero conci peggio che se gli avessero strigliati co’ pettini da lino, egli avvisò cavarsela netta, facendo per giunta una burla al colonnello, e fu distribuita tutta la biancheria in essere alla prima fila, perchè di mano in mano che il colonnello passava, la spingesse alla seconda fila, e così figurasse due volte. Il tafferuglio poi promosso ad arte, onde l’attenzione del colonnello fosse distolta dagli ultimi soldati di fila, che dove non fossero riusciti a farla liscia tutta di un pezzo, di una pipita ne sarebbe nato un panereccio.
— Certo, aggiungeva il giovane bizzarro, io la pagherò con parecchi giorni di prigione, e mi toccherà per soprassello chiedere scusa, ed io fin d’ora me ne dichiaro contento per quattro precipue ragioni; le altre non si contano. Prima, ed alzò il pollice, perchè se mi avesse trovato senza le camicie, e le mutande da munizione, in carcere ad ogni modo mi toccava ire. Seconda, e spiegò l’indice, perchè mi venne fatto preservare dalla prigione tanti compagni amatissimi. Terza, e sollevò il medio, per la berta che ho dato a codesto zuzzurullone di colonnello. Quarta, e drizzò l’anulare, pel gusto matto che avrò quando, dovendo chiedere scusa, mi fia concesso contemplare a mio agio cotesto . . . . . .
— Di grazia, disse Curio, si potrebbe sapere di che paese siete?
— Se foste stato allo inferno lo avreste riconosciuto senza domanda:
.... ma fiorentino |
E Curio sorridendo: — Il proverbio non mente: chi l’ha a fare con tosco non vuole esser losco.
L’altro, mesto, di rimando: — Se arguzia bastasse, beati noi! ma ora la patria mia abbisognerebbe quanto di pane e di aria, di alti propositi, di costanza e di uomini virtuosi; noi toscani forse un di tutte queste cose abbiamo posseduto; adesso noi le perdemmo...
— Coraggio, fratello, riprese Curio, ponendogli la destra sopra la spalla, colui che si sente cuore per confessarle perdute, ha fatto più che mezzo il cammino per ritrovarle.
— Filippo, dove diavolo mi meni? Questi corridoi bui fra le rupi, di cui non arrivo a scoprire la cima, mi danno immagine del laberinto di Creta, e più del Minotauro, che si avrebbe a trovare nel mezzo; io temo adesso che qualche macigno per acconto mi frani sul capo.
— Vieni oltre; potrebbe anco darsi, ma gli è di qui che bisogna passare.
— Oh! scopro gente..... per avventura sarebbero austriaci?
— No, sono dei nostri; cammina franco, che ad Ampola avremmo ad essere vicini.
Di fatti dietro l’ultima svolta della strada, passato la quale si va diritto ad Ampola, incontrano una compagnia di volontari condotta dal tenente Alasia, il quale avendo seco un cannone si divertiva con esso in pericoloso passatempo; però che dopo averlo fatto con diligenza caricare, sovvenuto da qualche compagno, lo trainasse fuori della svolta allo aperto, proprio nel mezzo della strada che mena diritta ad Ampola, dove gli dava fuoco, e subito dopo lo respingeva dietro il canto per ricominciare da capo.
Allo improvviso Curio ode chiamarsi a nome, e, posta mente, mira un ufficiale corrergli incontro a braccia quadre, che giuntogli dappresso lo abbraccia, lo bacia e co’ più dolci appellativi lo careggia:
— O Curio, che miracolo che tu sii qua?
— Miracolo è che ti ci trovi tu, non io.
— E pure ci sono prima di te, e d’ora in poi dobbiamo stare sempre insieme.
— Sarà più facile desiderarlo che poterlo, avendo assunto l’obbligo di condurmi dal colonnello Chiassi, amico grande del padre mio.
— Tu hai ora, come sempre, un santo dalla tua, dacchè per lo appunto io appartenga ad una compagnia del reggimento del Chiassi.
Il lettore avrà di certo notato come Curio non si sia messo in quattro per far festa al tenente Fandibuoni, e ne aveva le sue buone ragioni: innanzi tratto le sue spalle calavano giù a sgrondo da parere un calvario; dinoccolato nella persona, le braccia fuori di misura lunghe, con certe mestole in fondo da legarsi le scarpe senza quasi chinarsi: costumava gli occhiali; se non fossero stati questi, nell’ultima cena del Signore egli avrebbe potuto figurare meglio del Giuda di Lionardo; ma se gli occhiali lo salvarono da rassomigliare Giuda per di fuori, non così per di dentro, dove senza occhiali o con gli occhiali Giuda ei sempre fu, nato e sputato. Di più Curio si risovvenne come sovente costui con diversi amminicoli gli levasse di sotto assai quattrinelli, che non gli aveva mai reso; peggio poi, lo aizzasse a commettere qualche gherminella di cui egli si pigliava il vantaggio, lasciandolo nelle peste, se pure non comperava la propria impunità col fargli la spia; breve, un di quei funghi che nascono spontanei nei cortili della galera a vita. Ma la gioventù non cura o volentieri perdona; ed i compagni della fanciullezza ritengono in sè qualche cosa della religione dei primi anni, la quale fa sì che ci tornano cari spesso, disgradevoli mai.
— O come va che mi sei uscito ufficiale? disse Curio:
Marte per qual ventura od accidente |
— Che accidente? Virtù di penna e valentia di spada.
— Spada! O se di petto a te un lepre si giudicava Achille in persona.
— Già lepre non fui mai, bensì pubblicista e deputato; e poi non son qual fui, morì di me gran parte, della pera mondata è rimasto...
— Il torsolo. Ma dimmi, sapresti col tuo lume di lucciola farmi capire qualche cosa in questo gilepraio?
— Magari! Ma prima ti bisogna affacciarti al canto, e arrivato sopra la strada diritta, quindi considerare per bene quello che ti si presenterà davanti.
— Vado e torno.
— Sei matto! esclamò il Fandibuoni, trattenendo Curio per un braccio, non sai che svoltato il canto occorre la strada diritta un quattrocento metri, che termina ad Ampola, dove i cannoni del forte tirano d’infilata, spazzando via tutto quello che incontrano?
— O quel giovane tenente non ci va col suo cannone?
— E se egli è stufo di vivere, vuoi romperti il collo per fargli la scimmia?
— No, entrò di mezzo Filippo, l’Alasia non è pazzo; egli si muove per senso di dovere; forse un po’ dodici once buon peso, ma poichè in tanti la libbra riscontriamo scarsa, se in altri trabocca non guasta; in te poi, o Curio, cimentarti a quel modo sarebbe temerità senza sugo., ed ora dove vai? Vien qua, per Dio santo!
— Aspettami, che torno in un batter di occhio, rispose quel cervello strambo di Curio, ed intanto correndo aveva svoltato il cantone: avvertito tutto a bell’agio, tornò ridendo e disse:
— Andai, vidi, non vinsi; però avvertii quanto è formidabile Ampola; proprio il Minotauro nel laberinto di Creta, o la Sfinge sopra il cammino di Tebe: in fondo a due rupi, di cui i fianchi paiono tirati coll’archipenzolo, per virtù di scalpello, giace un fortilizio che sbarra da un lato e dall’altro il cammino; per passarlo è mestieri proprio entrare in mezzo al forte che comparisce chiuso da portone, e forse dietro avrà la saracinesca con altri ripari. Passato il fortino, la strada s’inerpica su su pel monte fino ad una spianata, la quale mi sembrò da lontano munita di artiglierie; come possa espugnarsi Ampola, per me in coscienza non saprei.
— Tu hai osservato bene, riprese il Fandibuoni, e se ora mi darai retta ti chiarirò alla lesta; vedi (e levò l’indice) questo è Elva, cardine della difesa in mezzo: questi altri (e stese il pollice e il medio) sono a destra Lardaro, a sinistra Ampola, posti avanzati; nello stesso intervallo di questo triangolo campeggia una brigata austriaca, pronta al soccorso, secondo il bisogno, o di Ampola o di Lardaro; sconfitta a Condino ed a Cimego, per ora non dà noia; ma tu fa’ conto che presto riordinata tornerà in ballo. Il nostro generale, per ridurre a partito Ampola, deve innanzi tratto occupare le pendici delle due rupi, che tu hai veduto sorgerle a destra ed a sinistra, e si chiamano Funstach e Santa Croce,
— O come vuoi che si arrampichino lassù? Paiono -pìn aguzze delle aguglie del Duomo...
— E non solo occuparle, ma anco trasportarvi le artiglierie.
— Attaccando le carrucole al cielo per tirarle su ...
— Nè le artiglierie minute solo, bensì le grosse da sedici.
— Il capitolo dedicato da Pietro Aretino a Cosimo I dei Medici incomincia:
Nel tempo che volavano i pennati,
ma che volino i cannoni, questo non intesi dire in prosa mai, nè in rima.
— Ebbene, tutto questo fu fatto con qualche cosa di giunta, imperciocchè, dopo trainati i cannoni lassù sul Funstach e sul monte Santa Croce, e’ fosse mestieri tramutarli da un luogo all’altro, chè, essendo di portata diversa, quelli piantati a santa Croce non facevano effetto...
— Allora vorrà dire che dall’altra parte dei monti si trova qualche cammino mulattiere.
— Niente; all’opposto appaiono troppo più scoicesi che da questo lato.
— O dunque?
— Dunque, quando andavamo a scuola tu devi rammentarti avere udito che Filippo...
— O adesso come ci entro io con la vostra scuola? Interruppe il sergente Filippo.
— Non s’inquieti, signor sergente, che io non intendo punto parlare di lei, bensì di Filippo Macedone, padre di Alessandro Magno, col quale probabilmente ella non avrà parentela alcuna ne per linea retta, ne per trasversale.
— Di fatti, non credo esser parente di cotesti signori.
— O lo vede? Filippo dunque, sentendo celebrare come inespugnabile la rocca dell’Acrocorinto, domandò se ci fosse strada bastante per farci entrare un asino, ed avutane risposta affermativa disse:
— Dove entra un asino, non dovrebbe entrare un re? — Invero ei lo prese, perchè con le sue parole volle alludere alle sacchette di oro cavato dalle miniere di Tracia, che egli ci fece portare da un asino per corrompere il comandante. Il Garibaldi non domanda se nelle fortezze dell’Austria ci entri un asino, bonsl il sole, e se il sole ci entra, intende entrarci anco lui. I volontari si arrampicano con le mani e co’ piedi; ficcano chiodi o pioli; con le ginocchia stringono una scheggia, con le mani calano le corde, tirano su di un tratto a un segno dato: per essi un metro di spianata è piazza di arme; basta ci capisca il carretto, perchè si attentino a montarci la batteria. Il Generale dal dizionario dei volontari ha cancellato la parola impossibile! Già essi hanno occupato la spianata, che hai notato anche tu, munita di artiglierie, di lì hanno rovesciato un acquazzone di piombo e di fuoco sopra Ampola... Aspettati da un momento all’altro alla ripresa delle armi.
Appena egli ebbe finito di favellare, che ecco ricomincia lo strepito dei mosclietti e dei cannoni, continua incessante. L’Alasia, ricaricato il suo pezzo, come tratto fuori di se dalla ansietà, andava gridando:
— Qua, figliuoli, qua; datemi una mano a muovere il cannone; bisogna cucire i nostri amici tedeschi a filo doppio, di sotto e di sopra.
Corsero cento; il cannone fu tratto con maravigliosa prestezza sopra la strada; spara; ma al punto stesso una scarica di artiglieria scopa dalla strada cotesti animosi; rimasero morti sull’atto l’Alasia e il sergente, ed ahimè! come lacerati! Quaranta altri, qual più qual meno, feriti; la terra diventò di un tratto vermiglia, come quando nella processione del Corpus Domini ci spargono sopra la fiorata di rosolacci.
Commossi dagli urli di dolore, Curio e Filippo, non si potendo reggere, lanciaronsi al soccorso dei compagni. Il Fandibuoni non solo non si mosse, ma vie più. si rannicchiò dietro al cantone. Curio si curvò, prese con ambe le sue la mano dell’Alasia e lo tirò a se come per metterlo seduto.... non lo avesse mai fatto! che le ferite strizzate gittarono tante fontanelle di sangue, e la faccia non anco priva dì ogni sensibilità si contorse tutta in orribile maniera; la mente stette ferma, se non che Curio sentì mancargli sotto il terreno, ond’ebbe ad appoggiarsi al cannone per non cadere.
Una nuova scarica per la parte degli austriaci avrebbe finito di ammazzarli tutti; non venne: all’opposto fu visto levarsi sul forte una bandiera bianca in segno di resa, mentre lo stendardo imperiale svolgeva a stento il suo lembo per ricadere penzolone lungo la stacca; pareva che appenasse nella agonia, e l’aquila grifagna per vergogna dentro le pieghe di quello si nascondesse. Ai morti non si attese più, e nè manco ai feriti; anzi questi stessi di sè non pigliano cura, smettono gli omei per aggiungere la voce loro allo immenso grido, che percosse l’aria dintorno: Viva Italia! Italia per sempre!
Il comandante del forte sortì per la capitolazione: i patti brevi: si rendessero ad arbitrio del vincitore: lasciate agli ufficiali le armi e le robe, per cortesia non per obbligo.
Avendo taluno avvertito il generale Haug perchè facesse al comandante austriaco affermare con parola di onore che il forte non era minato:
— Lo farò, rispose il generale, quantunque per me lo consideri perfettamente inutile.
— Inutile! E non vi trovaste a Roma con noi, generale, dove patimmo tanti e sì strani tradimenti?
— Oh! allora l’avevamo a fare co’ francesi.
Il comandante austriaco piangeva, e, recatasi in mano la spada, che generoso l’Haug gli porgeva, si provò spezzarla; impeditone, sospirò:
— Poichè non mi valse per difendere il mio reale ed imperiale padrone, che mi giova adesso?
— Signor comandante, gli rispose l’Hang con voce che si sforzò mantenere benigna, come soldato ella adempì d’avanzo il suo dovere, e veruno può appuntarla in nulla; si consoli e conservi la sua spada, ed accetti lo augurio che Dio le conceda occasioni di adoperarla in cause più giuste. La milizia non deve strozzarci la coscienza, la quale ci ammonisce che la forza non dà diritto; la forza va e viene: siete voi italiani per vivere alle spalle dell’Italia? O combattete per liberare la vostra patria dalla oppressione italiana? Andiamo, andiamo, la milizia non deve strozzarci la coscienza.
Lo austriaco stimò prudente non rispondere verbo; e per fare qualche cosa ripose nel fodero la spada.
Curio e Filippo ottennero la facoltà di visitare Ampola prima di partire, e con maraviglia conobbero il misero stato in cui questo forte si trovava ridotto; egli era aperto come un melagrano; da ogni parte sdrucito dalle palle e dalle granate: la casamatta crivellata dai colpi di cannone non offriva più stazione sicura ed era micidiale l’uscirne.
La resa del forte fu deliberata regolarmente da mi Consiglio di guerra. Piccola impresa questa di Ampola, e tuttavia a veruna, comecchè grandissima, seconda. Dove le camozze si peritano ad avventurarsi, i volontari garibaldini portarono cannoni grossi e carretti e munizioni. Il monte Giojello fu preso dai bersaglieri, i quali, secondo il solito, si diruparono dalle ripe circostanti del Funstach, sicchè gli austriaci, già sgomenti nel vedere che i loro cannoni puntati di sotto in su non facevano effetto, scorrendo meno che mezzo lo spazio necessario per colpire, sentendosi adesso piovere addosso cotesti demoni dal cielo, si diedero per vinti.6 Arrogi che altri volontari garibaldini, avendo sbirciato dall’alto una maniera di cornicione di pietra, che ricorreva intorno le alture soperchianti il forte a man dritta, ci si rannicchiarono sopra, scopando a suono di moschettate la piazza del castello e l’uscita dal lato della porta di Tiarno.
Intanto la bandiera imperiale, sciorinato che ebbe un ultimo svolazzo, spirò; tre o quattro colpi di scure vibrati con tutta l’anima, a braccia sciolte, fecero traballare antenna e bandiera, a cui subito con gazzarra grande surrogarono la bandiera tricolore.
Adesso cotesta bandiera non più sventola sulle torri di Ampola; anzi ci spiega da capo alle brezze delle alpi italiche il suo lembo l’aquila imperiale. L’abbattè il popolo, la rialzò la monarchia; quanto di gloria fu scritto col sangue dei patriotti, tanto lo inchiostro obbrobrioso dei negoziatori scancellò: ed è da credersi che il governo regio, trovando fra le spoglie di guerra del Garibaldi la vinta bandiera, per tenersi bene edificato l’imperatore di Austria, gliela restituisse; invano laboraverunt! Vorrei con Fonseca Pimentel ripetere il detto virgiliano: olim meminisse juvabit:
E fie che giovi rimembrarlo un giorno!
Come da un’urna rotta scorre via l’acqua, così io mi sento fuggire l’anima dal corpo stanco, e con amarezza di morte tremo sia la nostra schiatta destinata a disfarsi. Questo pensiero mi perseguita come una tentazione del demonio, dopochè miro lo stato nel quale sono ridotte la Francia, l’Italia e la Spagna; argilla mobile, che ruzzola sopra argilla immobile; terra soprammessa alla terra; fango animato agitantesi sopra fango senz’anima: parte del popolo si chiude gli orecchi per non sentire; parte ha tolto a prezzo di aprirglieli per forza, versandoci dentro parole di veleno; Locuste, Tofane, Brinvilliers, Lafarge spirituali: gli avvelenatori altrove si condannano, qui si pagano e si fregiano. Ai nostri imperanti giova più un giorno di lupercali che un
secolo di gloria; parte che pretende condurci alla terra promessa, discorde in sè si strazia, ed offre lo spettacolo di becchini rissanti sull’orlo della fossa, dove hanno deposto il cadavere. Ah! felici gli eroi dell’antichità; operando altamente ciascuno era certo della sua fama. Parevano gemme conservate in cerchi di oro: ora gli spiriti magni e le imprese eccelse spronfondano in un mare di fango....
Perpetuo Geremia, la vuoi tu smettere?.. Compatite, via, per amore di Dio: la lingua batte dove il dente duole; ed a me non è il dente che duole, bensì il cuore.
Ed ora a Bezzecca. Ma perchè io metto mano a ripetere quello che occorre sparso in cento stampe? Ne speranza mi affida, ne presunzione mi lusinga che gli scritti miei abbiano a durare più lungo degli altri: adoperando a questo modo, io faccio come quelli che stanno in procinto di naufragare, i quali chiudono la storia dell’infortunio imminente dentro a parecchie bocce di vetro, le quali, dopo chiuse, gittano in balia del mare, nel presagio che una almeno delle tante arrivi alla sponda e porga ai cari lontani la notizia della sventura e gli ultimi saluti. Qualcheduno pertanto dei nostri racconti perverrà ai tardi nepoti, i quali non so se maraviglieranno o della perfidia altrui, o della fede nostra; non importa, purchè imparino ad essere più felici di noi.
E poicliè nelle guerre può dirsi che niente fu fatto se non si fece tutto, così il Garibaldi, appena espugnata Ampola, la quale non fu (come aiferma il Rustow amico agresto, seppure non si ha da tenere addirittura per nemico delle glorie italiane) impresa di poche ore, bensì resisteva valorosamente interi tre giorni; concepì il disegno di ridurre in potestà sua Bezzecca.
Chi da Ampola muova per Bezzecca, sale sempre sentieri montani ora più, ora meno, ma sempre angusti, e dopo un miglio e mezzo arriva a certa vallicella chiamata dei Laghetti, proseguendo per la quale ecco s’incontrano, dopo breve cammino, due villaggi distanti fra loro non bene un miglio; il primo appellano Tiarno di sotto; il secondo Tiarno di sopra: ora se pigli la strada di Tiarno di sotto e vai innanzi altre due miglia ti si parerà davanti Bezzecca.
Considerano a ragione Bezzecca punto capitalissimo in cotesta contrada, per trovarsi in mezzo alle valli dei Conzei e di Ledro; di cui la prima gli rimane a manca, la seconda a destra: nella valle dei Conzei giacciono tre villaggi: Locca, Enguiso e Lensumo, e nella valle di Ledro le terre di Pieve, Mezzolago, e per ultimo Riva sopra il lago di Garda, luogo che intendeva espugnare il Garibaldi, o, come si dice in termine militare, suo punto obiettivo. La occupazione di Bezzecca per gli italiani significava la via aperta per Riva, il nemico impedito di trapassare dalla valle dei Conzei a quella di Ledro, congiunzione assicurata dei nostri corpi di milizia operanti nella valle di Acne; dove, se per ventura si fossero impadroniti di Lardaro, avrebbero avuto il sentiero sgombro per Roveredo e per Trento, finale punto obiettivo del Garibaldi. Se all’opposto l’austriaco occupava Bezzecca, egli avrebbe potuto tagliar fuori dal grosso dell’esercito i corpi italiani incamminati verso il lago di Ledro; respingere il centro nelle strette di Ampola, e, cacciatosi come un cuneo nel mezzo, minacciare di fianco i nostri corpi, divisi nella valle di Ledro e nella valle dei Conzei.
Oltre il naturale talento, persuadeva il Garibaldi ad operare celerissimo, l’avviso portatogli da esploratori segreti nella mattinata del 20 di luglio: oltre ottomila austriaci, muniti con due batterie di cannoni da campagna ed una di racchette, condotti dal generale Kuhn, scendere a gran passi giù per la valle dei Conzei, onde cogliere alla sprovvista il generale Haug ed abbatterlo innanzi che si raccogliesse alle difese, imperciocchè uomini intendenti testimonino come il generale Haug in cotesta occasione avesse sparpagliato un po’ troppo le sue forze sui colli. Difficile accertare quante per lo appunto le milizie nostre e le posizioni prese; circa a numero basti saperne questo, che se non erano meno, neppure eccedevano quelle del nemico; e per ciò che spetta alle mosse mi guarderò di seguire lo esempio del signor Thiers, il quale, mentre presume sciorinare scienza di strategica e di tattica nella Storia del Consolato e dello Impero, non soddisfa i periti del mestiere e stanca la pazienza del comune dei lettori, alterando malamente ogni proporzione della storia.
Il Garibaldi, chiamato a se il luogotenente colonnello Chiassi, gli comanda; con un battaglione del 5° reggimento trascorra oltre ad occupare Locca, e dove gli riesca gli altri villaggi della valle dei Conzei, convertendone subito le case in ridotti, donde ributtare o sostenere il nemico; con un altro battaglione chiuda lo sbocco fra la Pieve e Bezzecca: gli altri due battaglioni tenga in pronto per accorrere dove il bisogno lo chieda, e così pure il primo dei bersaglieri; a modo di riserva il quarto battaglione del sesto reggimento, tre compagnie del settimo e due del secondo procuri sieno in Bezzecca.
Il Chiassi, mentre riceveva questi ordini, si permise osservare quanto sarebbe stato vantaggio durante la notte assicurarsi dei due monti sovrastanti a destra ed a sinistra la valle dei Conzei; consiglio di bontà così manifesta, che non aveva mestieri prova; solo gli obiettò il Garibaldi avvertisse bene le asprezze dei colli, ardue a superarsi anco a giorno chiaro; al buio poi, per opinione sua, impossibili. A cui il Chiassi di rimando:
— Il peggio sarà tornarcene indietro.
— Non sempre riesce.
— D’altronde anco i Romani sagrificavano alla buona fortuna: a me sembra spediente tentare.
— Sia come volete, colonnello, concluuse il Garibaldi, seguite la vostra stella.
Intantochè il Chiassi, ridottosi ai quartieri, ordina gli apparecchi per mettersi senza indugio in cammino, ecco capitargli davanti Curio, Filippo ed il tenente Fandibuoni; salutato, risalutava; ed a guest’ ultimo con accento un cotal poco severo diceva:
— Tardi, ma in tempo, tenente; ripigliate tosto il comando della vostra compagnia, fra un’ora saremo in marcia.
— Così al buio?
— Per liberare la patria dalla servitù straniera tutte le ore sono buone; e voi altri chi siete?
— Mi chiamo Curio; nasco dal vostro amico Marcello, e qua vengo per imparare la milizia sotto di voi.
— Sta bene; i figli di Marcello ci dovevano venire prima: e voi come qui? Mi sembra avervi veduto, anzi di certo vi ho già veduto....
— Lo crederei! Mi sono trovato a tutti i fatti di arme di questa campagna, ma l’occhio dei superiori scorre via sopra i soldati come il volo della 73 rondine. Basta, non fa caso; sono il sergente maestro di arme del nono reggimento; mi chiamo Filippo; difficile rinvenire adesso il mio reggimento, però mi unisco con chi trovo; insieme con questo giovane mio alunno entrerò nella compagnia volante comandata dal nostro tenente Fandibuoni.
— Come vi piace. Voi, Curio, fate cuore, che fra poco otterrete quello che gli animosi talora stanno mesi ad aspettare, — il vostro battesimo di fuoco; —. quanto a me, soggiunse tristo, l’ho ricevuto da molto tempo: adesso non mi avanza altro che la estrema unzione del ferro.
— Deus avertat amen! come dice padre maestro Berretta, soggiunse Curio; ma io so che spesso alla guerra questi sacramenti ci caschino addosso tutti di un picchio,... lo so, e non me ne sgomento.
— Ma vedete un po’ che gusti fradici, intervenne a favellare il tenente; non ci è quanto il pensare alla morte, che ce la chiami sul capo alla lontana: portando l’ale, ella è di natura di uccello ed obbedisce al fischio.
— Oh! per me poi, se mi e lecito dire la mia, prese a parlare Filippo, più penso alla morte e più mi ci accomodo: andare a morire io l’ho come andare a dormire.
— Sicuro, conchiuse il Chiassi, tutte le strade menano al camposanto: quello che preme, sta nello adempimento del proprio dovere; or via, andatevene pei fatti vostri; fra un’ora in marcia: buona sera, Curio; ed accostatosi al giovane gli strinse con molto affetto la mano.
Anche negli eserciti meglio ordinati accade più spesso che non si vorrebbe che i comandi non si trovino eseguiti con la debita esattezza; d’ondo nasce che, nonostante gli ottimi concetti del capitano, le battaglie vadano a rotoli, o almeno riescano meno fruttuose del desiderio; però tanto meno recherà maraviglia, dove si sappia che questo succedesse non di rado nei corpi dei volontari. Parve all’ufficiale preposto ad occupare Locca e gli altri villaggi della valle dei Conzei e a ridurne le case in trincere per combattere riparati, non doverlo fare se non all’alba, onde tutta la notte si rimase giù nella valle. Anche le mosse vigilate dal Chiassi non sortirono buon esito, imperciocchè il battaglione, comandato da lui in persona sulla sinistra, alla punta del diì si trovasse in ordine di poter combattere, mentre il battaglione a destra andava sparpagliato così che non si giunse mai ad assembrare, e male gli incolse, che, avviluppato dai nemici precipitati giù dai monti con la foga di una cascata, parte cadde prigioniero e parte ebbe di catti di ritirarsi a salvamento.
Se la giornata avesse dovuto giudicarsi dal mattino, si prevedevano guai, e grossi, sicchè fu argomento non piccolo di stupore pei nostri quando il nemico verso le 5, cessato di un tratto il fuoco, fece supporre a taluno che egli cessasse l’assalto. In questo intervallo gli austriaci con avvisato consiglio tentavano girare la diritta degli italiani scendendo alla Pieve, e quindi percoterli di fianco e alle spalle, ma trovate le gole difese, non che visto il 90 reggimento in punto di rinforzare i posti, si ritrasse, e, raccolte tutte le sue forze in Val di Conzei, verso le 7 del mattino riprese a menare le mani.
Gli italiani respinti duramente sulla destra, lasciando i posti avanzati di Enguiso e di Lensumo, si ripiegano a Locca: qui sostano, ed essendo giunte da Bezzecca milizie fresche e due pezzi da campagna a rincalzarli, deliberano di sostenersi con tutti i nervi; gli austriaci sopraggiungono, e danno dentro; invano però, che a volta loro ributtati andarono indietro fino ad Enguiso. Tuttavia la destra rimaneva sempre scoperta, ed i pochi del 2° battaglione scampati alla sconfitta nè in numero ormai, ne per prestanza capaci a resistere; bene il generale Haug provvide a mandare soccorsi di gente quanta più potè, ma non fece frutto, massime priva, come si trovava, di artiglieria, mentre l’austriaco spinse in diligenza da cotesta parte la batteria dei razzi alla Congreève, la quale oggi piglia nome di racchette. In tanto repentaglio l’Haug spedisce a Tiarno al comandante supremo per avvisarlo essere la resistenza impossibile, a destra tracollare le cose; ordini al colonnello Menotti cali col nono reggimento giù dai monti a sinistra, dove in quel momento si trova, e tenuto il cammino per la valle dei Conzei percuota alle spalle gli austriaci; ancora, ingiunga al 2° reggimento di già arrivato alla Pieve si avanzi ed appoggi il Menotti; quanto a se egli si porrà coll’arco del dosso per reggersi in mezzo; se la fortuna si accorda col buon volere, promette prima di mezzogiorno tenere prigione tutto l’esercito nemico.
E il Garibaldi, secondando la richiesta, ordina al Menotti che scenda dai monti e si appresti ad assalire; egli stesso a stento entrato in carrozza si avanza verso Bezzecca.
Le vicende da per tutto mutabili, mutabilissime in guerra; in questo frattempo di sfavorevoli eransi fatte disperate alle armi italiane: lo sgomento insinuavasi nell’animo dell’universale; il Chiassi correva ansante, smanioso qua e là in compagnia dei più arditi, fra i quali Curio e Filippo, e pregava, rimproverava, minacciava: inutili conati! La paura, conigliolo senza orecchi, superata ogni vergogna travolgeva i volontari in turpissima fuga. Il nemico sfolgora i nostri di fianco, e già si ammannisce ad assaltarli alle spalle: le sue colonne di attacco in procinto di avventarsi contro il centro: in presentissimo pericolo la nostra artiglieria.
E in onta a questo non mancarono uomini di cuore piuttosto infinito che intrepido, i quali
l’Haug, campione della libertà in qualsivoglia parte del mondo ov’ella abbia inalzato la sua bandiera, procedere nel fìtto della battaglia sotto il fuoco nemico, a rannodare quanti più trova e a farli star fermi con tutti gli argomenti che la ragione gli suggerisce, non escluse le ferite; poi li sguinzaglia parte alla difesa di Bezzecca e parte sulle alture a sinistra mezzo perdute, dove occorre il cimiterio. Indi a breve sopraggiunge lo stesso generale Haug trafelato, e di primo arrivo vedendo la compagnia chiamata volante, annessa al reggimento Chiassi, la quale per gli ordini già dati aveva a trovarsi altrove, e precisamente sul colle di faccia a Bezzecca oltre la strada di Tiarno, con suono alquanto turbato disse al colonnello:
— Ch’è questo? Come qui la compagnia volantef La riconduca subito al posto.
A codesta ora più agevole ordinarne che eseguirne il traslocamento; che se scampo ci era, consisteva nel serrarsi, ne l’Haug se soprastava alquanto lo avrebbe comandato, ma, che che ne affermino in contrario, anche i costantissimi governa in parte la fortuna, la quale se prospera non vale ad esaltarli, avversa quasi sempre li esacerba.
Il Chiassi guarda il generale senza fiatare e si pone in assetto di eseguire il comando: giunto al cancello del cimiterio rifaà i passi, ed accostatosi al conte Pianciani, aiutante di cami30 dell’Haug, gli stringe la mano dicendo: Addio. A rivederci, rispose l’altro, ma, com’egli stesso ebbe a dire dopo, lo fece per dargli animo, perchè in quel punto gli parve un’aura di morte investisse il povero colonnello.
Uscito dal cimiterio, il colonnello si accorse della sua compagnia essere successo quello che noi vediamo accadere ad una massa di neve flagellata dal vento, di cui i bioccoli, si sparpagliano da per tutto un po’; il Chiassi, non potendo più condurre da capitano, combatte da soldato; di un tratto traballa e cade: Curio e Filippo gli si mettono attorno: entrambi inginocchiati si chinano sopra la faccia di lui; egli non disse motto: li guardò, ora l’uno, ora l’altro, quasi per riconoscerli, e spirò.
Nobilissima creatura fu il Chiassi; di costumi austero, rigido nei giudizii; alto di forma e segaligno: pallido e di capelli già grigi, comecchè appena sopra la soglia della virilità; parlatore scarso, per non dire avaro: gli occhi colore di vetro e soprammodo lucidi; in massima parte essi gli tenevano luogo di lingua: se udiva cosa la quale gli paresse o indecente, o strana, o trista, guardava cui l’avesse profferita, e così pure costumava dove gli accadesse intenderne altra o arguta, o magnanima: diversi, e quanto, cotesti sguardi! E non di manco nò i primi corrucciati, nè i secondi blandi; sereni sempre, parevano piombini calati nell’anima altrui a scandagliarne la sua profondità.
Dura sorte la sua! La pietà sopra la sua tomba non pianse, o se senti spuntarsi le lacrime, se le asciugò di un tratto pensando che se il piombo nemico non lo uccideva adesso, lo avrebbe morto più tardi la propria vergogna. La giornata, che noi abbiamo consumata in combutta con la monarchia, cominciò con un mattino di sospetto, ebbe un mezzogiorno di codardia e tramontò (seppure è tramontata) nell’obbrobrio. Il cortigiano, iena impaurita che sia per mancarle il cadavere nella fossa, urli quanto sa e si disperi, ma questo senta: che i soli, quando declinano verso il vituperio, tramontano per non risorgere mai più.
Ma la fortuna avversa non consentì lasciare in pace il dabbene Chiassi, quantunque sepolto; — perchè tre sono gli infortuni supremi che soprastanno all’uomo: morire in terra straniera, — avere sepoltura da mani sconosciute, — essere obliato da’ suoi; eppure vi ha anche di peggio, e questo è la lode di persona indegna.
La lode dell’uomo retto davanti al popolo è libame sacro esalato da turibolo di oro. La Fama se ne rinfranca l’ale, sicchè ella le spiega bellissime come quelle dell’uccello di paradiso ai raggi del sole. La lode dell’uomo indegno sorge come fumo di paglia bagnata: contrista gli occhi alla Fama e la fa piangere. Ora l’anima del Chiassi ebbe a patire il preconio di persona non degna. I generosi lombardi pensino seriamente a purificarne il sepolcro dell’eroe.
Il nemico allaga da per tutto; i nostri, rincacciati dal cimiterio, si rovesciano giù sopra Bezzecca, e per certo spazio di tempo si trovano sotto una vôlta di ferro e di piombo, imperciocchè gli austriaci, oltre lo insistente assalto di fronte, incrociassero i loro fuochi da destra co’ nostri, che battevano in ritirata a sinistra; però non provarono la vôlta tanto salda, che ad ora ad ora non ne cascasse qualche racchetta a modo di bolide, stritolando il misero che giungeva a percuotere.
Di male in peggio; la ritirata da prima in ordine, poi tumultuaria, all’ultimo disfatta; giù tutti di sfascio a Bezzecca; la strada chiusa con ogni maniera impedimenti; i cannoni, cura suprema dei comandanti, smontati dai carretti vengono tratti via con le corde; gli stessi generali si mettono alle funi, e così con isforzi incredibili si salvano.
Sopraggiunge il Garibaldi e si leva su ritto nella carrozza; il volto dell’eroe, quasi sempre sereno, adesso comparisce oscurato da ineffabile amarezza; molto lo angustia il dolore del corpo, troppo più quello dell’anima. Allo agitare che ei faceva delle mani, sembrava uno auriga della palestra elèa che tentasse ridurre al freno i cavalli imperversati; difatti lo sgomentava il pensiero che la vittoria gli avesse rubato la mano. Alla presenza di lui i combattenti ripresero un po’ di balìa, ma e’ fu fiato raccolto per ispirare l’anima.
Intanto che un manipolo di audacissimi, fatta punta, si avventano a capo del paese e ributtano gli austriaci, un migliaio di tirolesi scendono dai monti laterali, li circondano e li dividono dal grosso del corpo dei volontari. Chiusa allo scampo ogni via, non vi è tempo da perdere; o arrendersi o rimanere sterminati.
— Morire! urlano i volontari. — E così sia! risponde il capitano; spianate le baionette, e addosso ai tirolesi; pochi siamo, ma la via stretta non concede che ci vengano contro in molti; se li sfondiamo siamo salvi, che poc’oltre di qui troveremo il Menotti accorrente al soccorso.
Curio e Filippo, entrambi feriti, sentendosi ardere dalla sete, trovandosi presso ad una casa aperta, non poterono trattenersi dallo entrarvi per procurarsi un po’ di refrigerio di acqua; acqua non trovarono, bensì in un sottoscala acchiocciolato il Fandibuoni; gli furono sopra in un attimo e ad una voce gli domandarono:
— Sei tu ferito?
— Sicuramente.... cioè credo.... sono fuori di me,
— Su, vediamo dove!
Lo visitarono e lo riscontrarono sano più di un pesce, Filippo ammiccò degli occhi a Curio per passargli la baionetta traverso al corpo; negò Curio col capo, ma datogli un solennissimo pugno nel petto, gli stridè piuttostochè non gli favellasse:
— Vien via, poltrone, e bada a non moverti dal mio fianco, perchè se fai cenno di fuggire, quanto è vero Dio, ti ammazzo come un cane; aspetta un po’, camaccia da letame, lascia che ti imbratti del mio sangue la faccia e ti fasci, così parrà che ferito tu sia entrato qua per fasciarti, e non si scoprirà la tua vergogna.
Il capitano, armate ambedue le mani di sciabola e di rivoltella, con la voce e con lo esempio eccita cotesto manipolo di consacrati alla morte. Dopo lui Curio, Filippo e il Fandibuoni, il quale ubbriaco di paura agitavasi, ululava come uno indemoniato; tutti poi esaltavano l’estrema sorte, il grido Italia, che unanimi mandarono dal petto come saluto ultimo alla patria, e le immagini delle creature amate, che lucidissime e distinte in quel momento come un soffio passarono traverso allo spirito loro.
— Avanti! Avanti! scaricano le armi, e parecchi tirolesi ruzzolano per terra; tal sia di loro! Italiani perchè contendono contro Italiani? Potendo essere liberi, perchè combattono per la servitù?
— Avanti! Avanti!
Ma i nemici scaricano lo armi; la prima fila del manipolo balena per il iscompaginarsi; il capitano con altri parecchi feriti traballano; non importa; si riannodano; i sorvegnenti incalzano; addosso da capo. I tirolesi in parte cedono, in parte no; pure tutti tentennano, ma sentendosi la baionetta nelle costole si riscotono, e scaricano quasi a brucia pelo nel mucchio dei volontari. — Mi tappo gli occhi per non vedere la strage; di nuovo feriti. Curio e Filippo caddero; Curio fuori di sentimento, Filippo in se, Fandibuoni illeso sempre agitantesi e sempre urlante.
Quando Cario tornò agli usati uffici della vita, si rinvenne adagiato sull’erba dietro una siepe poco lungi da Bezzecca: aveva ferite ambedue le gambe, e comecchè si sentisse debole, pure non provava troppo spasimo, onde subito gli balenò la speranza di avere le ossa intatte. Filippo accanto a lui, appena vide che aveva aperto gli occhi, gli sorrise e disse:
— Sta’ di buon animo, che ne caveremo fuori le cuoia; e come ti pare di sentirti?
— Rifinito di forze, pel resto non ci è male....
— Difatti, interruppe Filippo, ho riscontrato io stesso che, dalla parte carnosa in fuori, nelle tue gambe non ci è altro di offeso.
— E tu, Filippo?
— Mira un’altra palla nel braccio sinistro, la quale veramente mi dà un po’ dì fastidio, ma sarà niente; alla più trista mi rimane il braccio destro per ammazzarne degli altri....
— Ah! gemè Curio, mi è cresciuta la sete così, che mi brucia la gola; potessi avere un sorso di acqua, mi parrebbe rinascere.
— Sta’ (li buon animo, che m’ingegnerò trovartela.... senti.... senti... la battaglia dura; anzi mi sembra rinfocolata meglio di prima.
— E chi l’ha vinta? Chi ti pare che possa averla perduta? Filippo, senti, ho paura!
— Che vuoi ch’io sappia, figliuolo; ma dacchè dura vuol dire che per ora nessun vinse; sicuramente Bezzecca è cascata da capo nelle mani ai tedeschi, i quali ma’ mai si accorgessero di noi, il pezzo più grosso sarebbe l’orecchio; io vo per acqua carpone carpone, tu qui fai il morto: se mi riesce, quando torno avrai acqua e notizie, di cui pari ti tormenta la sete.
Filippo si mosse, e scorso breve tratto di cammino gli occorse per la terra lo schioppo di Curio; lo raccolse e rifacendo i passi glielo riportò e gli disse:
— Ho ritrovato il tuo schioppo, Curio, mettitelo allato....
— Perchè? non devo fare il morto?
— Certo; ma non ci è male che i morti come te siano al caso di ammazzare qualche vivo: e poi a noi altri soldati il destino parla per via di segni; avvezzati a non trascurarli mai, e a leggerli se ti riesca.
Passò un’ora forse che Curio se ne stava chiotto sbirciando del continuo, quando scoperse da lunge Filippo con un laveggio in mano, ch’egli giudicò avesse raccapezzato in qualche parte ed empito poi di acqua alla fontana; costui se ne veniva lemme lemme con la barba sopra la spalla, sempre in ordine di difesa, quando ecco di un tratto salta su un sergente tirolese, uscito forse dalle peste anch’egli in cerca di acqua per bere, e gli sbarra il cammino, e lo minaccia. Primo moto di Filippo fu scaraventare il laveggio contro il tirolese; il desiderio era romperglielo nella faccia, ma la fece bassa, e riuscì a coglierlo solo nello stomaco, e non parve piccola pòsola però, che costui pigliasse a strabuzzare gli occhi bestemmiando in chiave di soprano; però, attutito alquanto il dolore, con la sciabola levata si avventa contro Filippo, il quale non istando a gingillare si era già messo in guardia. Il sergente tirolese aveva la sembianza di un orso tagliato giù con l’ascia; col viso di mattone cotto ricinto attorno di bioccoli di capecchio: a cose quiete avrebbe mosso il riso; adesso poi infellonito e digrignante i denti metteva paura... a tutti altri però che a Filippo, il quale, sicuro, del fatto suo, per la molta perizia che aveva nell’arme volle provarlo; se non che due fendenti uno dopo l’altro sul capo e un colpo vibrato di punta alla gola, lo ammonirono che non era aria di gingillarla; Filippo in un attimo fece i suoi conti: il compare di scherma sembra ne sappia quanto tu; del braccio sinistro non puoi aiutarti, e per giunta t’impaccia anche il destro; qui bisogna venire subito alla conclusione; la cosa camminerebbe pe’ suoi piedi, se egli non avesse fatto il conto senza l’oste, che quell’altro non pareva punto disposto a lasciarsi ammazzare per dargli gusto; Filippo lo aveva arrivato con un paio di sdruci, ma eglino erano ninnoli, mentre l’altro ecco lo percuote sul braccio offeso; non lo feri, ma il colpo gli rintronò tutte le ossa da capo ai piedi; sebbene fosse di mezzogiorno, vide più stelle che a mezzanotte, e tanto non potè tenersi, che suo malgrado non gli scappasse: ohi! Anco balenò cadere. Curio lo tenne ito, e senza pensarci imbracciò lo schioppo e prese la mira sul tirolese; di botto però abbassa la canna e ripiglia la parte di spettatore:
— No, Curio, non va bene, egli aveva detto a se medesimo; guerra è sempre, ma adesso tra loro diventò duello, il quale si governa con le sue proprie leggi: debito vuole che tu te ne stia a vedere e sovvenga l’amico unicamente co’ voti.
Intanto Filippo, essendosi riavuto, spicca un salto come un gatto arrabbiato e cala giù un fendente, sul cranio al tirolese, che glielo spaccò fin sulla radice del naso, non senza lasciargli intaccata la sciabola, tanto era duro! Ritirato il ferro, Filippo, da quell’uomo previdente che si vantava, glielo appunta alla gola per passargliela da parte a parte e così assicurarsi del fatto suo, quando si sento un grugnito a breve distanza, e subito dopo comparisce una maniera di mastodonte umano, che, abbrancata con ambedue le granfie (non mi permette la coscienza chiamarle mani) la bocca dello schioppo, piglia la misura per isbatacchiarlo sul capo a Filippo e rendergli la pariglia. Se mai fu caso per dire: l’indugio piglia vizio, certo era quello. Curio si trovò di sbalzo a sedere, piglia la mira da quello esperto cacciatore che egli era, e aggiusta a quel cosaccio la palla nella tempia sinistra: egli rovina giù addosso a Filippo, Filippo addosso all’altro, onde per un pezzo sembrarono morti tutti e tre. Da quanta smania fosse preso Curio non si può con parole significare, che non gli riusciva moversi, e avria dato una gamba a patto di andare a chiarirsi se a sorte avesse ammazzato anco Filippo; ma Filippo era solo svenuto, e non suo il sangue nel quale appariva tutto imbrodolato. In quel mentre crebbe il fragore della battaglia; il cannone tuona via via più vicino; le palle dei moschetti scheggiano i macigni e troncano i rami degli alberi; lo scalpito dei cavalli diventa scompigliato; tumultuario il passo dei fanti; gli stridi, le imprecazioni, i gemiti, tutto insomma porgeva argomento a conoscere che la burianata si versava da capo da cotesta parte. Filippo tornato in se si nasconde meglio sotto i due uccisi, e Curio ripiglia la sembianza di morto.
Curio e Filippo passarono un’ora di passione da disgradarne la più dolorosa che patì Maria a pie’ della croce dove pendeva il suo figliuolo, imperciocchè, oltre le ferite del corpo, si sentissero l’anima trafitta nel presagio della battaglia perduta.
Ma la battaglia non era stata niente affatto per duta; all’opposto fu riguadagnata, ed ecco come. Dovete sapere come il generale Garibaldi, respinto da Bezzecca, non si potesse dar pace di aversi a riparare in Tiarno. Sostenuto sempre sopra le braccia dei suoi, scese di carrozza e si pose a sedere sopra una ruota di carretto da cannone in sembianza di uomo il quale volga in mente un pensiero unico, la morte. In silenzio lo circondano i suoi aiutanti, non meno di lui compresi di amarezza e di dolore. Al maggiore Dogliotti, il quale in cotesta impresa davvero fu l’Aiace, non sofferse l’animo accomodarsi alla fortuna del giorno:
Né di fato gli cal, nè di fortuna |
epperò tra reverente ed audace accostatosi al Generale, in questa sentenza gli favellò:
— La disciplina vieta che io non chiesto metta fuori consigli; ma tanto è, io non posso astenermi di farvi osservare, signor Generale, come cotesto non sia il vostro posto.
— Perchè? rispose sorridendo mesto il Garibaldi; forse ogni luogo non è buono per morire?
— No, che non è buono, soggiunse il maggiore, perchè qui si tratta salvare un cannone, quindi se tale ha disposto la fortuna, qui devono morire coloro che hanno in custodia i cannoni: voi, che avete in custodia lo esercito, dovete trovarvi colà dove si tratta salvare o perdere l’esercito, e salvarvi o perire con lui.
— Lasciatemi in pace.
— Mi punirete più tardi, ma intanto voi, Generale, non mi potete impedire di portarvi via di qua.
Il Garibaldi udendo sì fatte parole si leva in piedi, guarda a stracciasacco il maggiore, ma poi cagliando torna a giacersi, e stride piuttosto che favelli:
— Fate quello che volete.
Sollevatolo sotto le ascelle, lo rimisero in legno e continuarono la via per a Tiarno.
Avete mai veduto un vascello a tre ponti in mezzo al mare in burrasca? Cotesto Leviatan dell’Oceano sbattuto dalla procella ecco abbassa la prua fino a tuffare tagliamare, bompresso e polena, sicchè sembra che ormai stia per iscomparire nello abisso delle acque: di un tratto si rialza col garbo dell’alcione che ha bevuto e vola sulla cresta dei cavalloni, domando la forza materiata con la forza dello intelletto. Lo avete veduto? Ebbene, proprio a quel modo, il buon Garibaldi risolleva il capo e gli spiriti, e celere concepisce, e celere comanda partiti quali la occasione desidera. L’ingegno dell’Haug nel pericolo divampa come fiamma per vento: sotto fìtta pioggia di fuoco egli non posa mai; da per tutto lo vedi dardeggiare arrestando i fuggitivi, riordinando gli sbandati; collocando i raccolti in luoghi opportuni, ovvero tenendoli pronti a voltar faccia e ad assalire lo inseguente nemico.
Il Dogliotti, salito su di un pogginolo, leva al cielo le mani e grida:
— Compagni, non ho più braccia, perchè le braccia dell’artigliere sono le artiglierie; vado a ripigliarne dell’altre: giuratemi di tenere fermo per una mezz’ora, ed io giuro tornare a farvi vedere un bel giuoco: me lo promettete?
— Sì, giuriamo che ci troverete qui, vivi o morti.
Senza darsi pensiero che cento volte correva pericolo di fiaccarsi il collo, ecco il maggiore Dogliotti giù a gran galoppo verso Ampola; lì giunto, e prima anco di giungere, per quanto gli basta la voce, urla:
— Presto; uomini, cavalli e corde; ma presto; questi cannoni tedeschi, che tanto ci offesero, o facciano adesso un po’ di penitenza.
Furono imbracati in un fiat, e, cosa che parve impossibile, ed era vera, di galoppo gli strascinarono fino a Tiarno; gli artiglieri dietro ai cannoni come segugi alla lepre.
Non più prodezza degli altri mostrò il figliuolo del Garibaldi, Menotti, ma le sue mosse riuscirono più vantaggiose delle altre, inperciocchè marciando a passo di carica col suo reggimento in linea parallela al nemico, che veniva in giù, mentre egli andava in su, gli venne fatto di rioccupare tutta la sinistra della valle dei Conzei, abbandonata prima; anche il primo battaglione dei bersaglieri si procacciò lode immortale salendo di abbrivo il monte di faccia a Bezzecca e rinettandolo dagli austriaci. I nemici non si ritirarono, bensì ruzzolarono dal monte fino alla valle.
Ricciotti Garibaldi, giovane tra gli audacissimi audace, impugnata una bandiera del reggimento del suo fratello Menotti, si avventa contro Bezzecca; gli fanno spalla il Canzio cognato, di quel valore che tutto il mondo sa, e il Damiani gentil sangue siciliano, che tra modesto e prode non sai quale ei sia più; gli altri dietro con irresistibile impeto.
Il tenente Fandibuoni, che sbirciava come andavano le cose dal buco della chiave di una casa dov’era tornato ad appollaiarsi, saltò fuori urlando; lo salutarono i nostri come un redento per miracolo: stette a un pelo che non lo portassero in trionfo; il Canzio gli ordinò pigliasse seco gente per esplorare se intorno giacessero feriti, e li sovvenisse. Andò il nostro glorioso tenente, nè molto si dilungava, che rinvenne il mucchio dei tirolesi e di Filippo e poco lungi Curio: parevano tutti morti; costui n’ebbe raccapriccio e terrore, il quale crebbe in lui fino al delirio quando si senti chiamare:
— Gua’! Gua’! chi miro? Sei tu, Fandibuoni? Così aveva parlato Curio, il quale schiusa la coda di un occhio riconobbe il coraggioso tenente; questi, rimessosi alquanto dallo sbalordimento, chiedeva a Curio:
— Ma sei proprio vivo?
— Sono vivo, e ci puoi credere, rispose l’altro sorridendo, e così gli calmava la paura, quando, a farlo basire da capo, ecco agitarsi il mucchio dei morti e uscirne di sotto Filippo stillante sangue da tutto il corpo, che diverso non sarà stato il peccatore pagano quando in espiazione gli versavano addosso il sangue di un toro nel Taurobolo: stette per istramazzarne, senonchè riconosciuto anco lui alla voce, si tenne e tutto tremante domandò:
— Come diavolo nascosti in cotesta maniera? Avete avuto paura?
Per risposta gli risero in faccia. Non è da dirsi se ei si affrettasse ad allontanare cotesti odiosi testimoni della sua viltà; per questa volta la malevoglienza giovò meglio della benevolenza; in meno di un ora, stesi entrambi dentro un carro sopra uno strato di paglia, furono avviati verso Brescia.
Il generale Kuhn, non sapendo consolarsi della inopinata vicenda, riputò spediente alla sua riputazione pubblicare per via di giornali, infinito il numero dei garibaldini, di petto a loro un formicolaio essere nulla; le sono fandonie coteste: tutti, così amici come nemici, gli scrittori si accordano ad attestare quanto fu già avvertito da noi, che i garibaldini in quella giornata combatterono contro gli austriaci a numero pari.
Gli austriaci non tennero fermo a Locca; nè fecero meglio prova ad Enguiso e a Lensumo; da per tutto sloggiati ripararono a Campi. Nel medesimo giorno tentarono una sortita a Lardaro, ma furono respinti: afferma il Rustow come cotesta mossa fosse per una semplice ricognizione, e s’inganna: agevolmente si comprende essere stata parte del disegno nemico di metterci dentro ad un cerchio di fuoco.
Ormai nel Tirolo italiano le fortune austriache tracollano, e Garibaldi sempre più celere instando da Campi e dal monte Cimelo accenna a Riva, non fallibile acquisto. Già il presidio di Trento volge i passi indietro a Bolzano, recandosi seco la cancelleria militare; il general Kuhn nel ritirarsi bandisce cessare le difese del Tirolo italiano, per consacrarsi intero alla tutela del Tirolo tedesco; — Trento ci stava aperto dinanzi; bastava per pigliarlo stenderci sopra la mano; e Trento fu per noi il pomo di Tantalo; ci sfuggì sul punto di afferrarlo; la favola della mitologia, per mercè del reggimento monarchico, diventò per l’Italia verità storica.
Pur troppo tutte le fantasie dei mitologhi per noi diventarono dolorose realtà; ecco il La Marmora mostra ai nostri soldati la Monarchia, come Perseo al mostro marino il teschio di Medusa, e li impietrisce; costui da prima comandò si fermassero per otto giorni in virtù di armistizio; poi lo prorogò altri otto giorni, finalmente per uno.
Intanto con ogni maniera di viltà furbesca, come con ogni balorda mascagneria i nostri governanti si assottigliavano il cavicchio sul ginocchio per buscare un’altra toppa da cucirsi al manto di paltoniere, onde procede magnifico questo regno di Italia.
Napoleone, che si era fatto donare la Venezia da Francesco Giuseppe imperatore d’Austria, si profferse gittarla in bocca alla monarchia, non perchè ella smettesse il latrato (che a tanto non le basta la voce) bensì il cagnolìo, e perchè costei perfidiava per avere un altro catollo, il franco sire levata la frusta con mal piglio disse:
— «Contentati, pitocca, e cessa importunare la gente: ringrazia Dio, se ti butto la Venezia, e chetati. Questa è la prima volta che per guadagnare bisognò perdere; nè tu avresti saputo vincere in altra maniera, perchè non è la prima volta che i tuoi soldati convertirono le barbute di ferro in pentole per farci bollire la minestra7. La tua ignavia ha troncato le braccia alla Prussia ed a me: sogni partoriti da indigestione di pan vecciato pretendere il confino allo Isonzo, e l’Istria di giunta; ed anco quello tra lo Stelvio e Feltre. Tienti Venezia per caval donato, e non guardargli in bocca.»
Ma il Governo, che se improntitudine valesse la impatterebbe con Achille, non si sgomenta per repulsa, e insiste per ottenere il Trentino fino al Lavisco, che nel 1848 aveva proposto lord Palmerston per metter pace fra l’Austria e l’Italia.
Mentr’egli va così birboneggiando, Francia e Prussia pigliano in uggia il biante fastidioso; l’Austria, rappattumata alla meglio con la Prussia, rimanda due corpi di esercito in Italia donde gli aveva distratti prima per coprire Vienna; intorno allo Isonzo raccoglie forze novelle; di tiranni e di schiavi generatrice inesausta Vienna! Nelle fortezze del quadrilatero cresce i presidi; a Riva i cannoni gettati nel lago ripescansi: le teste all’Idra rinascono: per mille indizi si fa manifesto come l’Austria, sopportando molestamente la perdita di Venezia, vada cercando col fuscellino la occasione per gettare all’aria il convegno fermato.
Allora il Governo regio, frenetico davvero dalla paura di trovarsi abbandonato sopra le secclie, si rimette, a mo’ che vediamo gl’incappucciati a pie’ delle Madonne di Luca della Robbia, a mani giunte a piagnucolare: «bastargli la Venezia; se concupì il Tirolo italiano, mea culpa; se l’Istria, mea culpa; se Trieste, mea maxima culpa: quanto a sè, proporre fermamente non peccare mai più, e fuggire le occasioni prossime del peccato. Ma con questo benedetto, o piuttosto maledetto popolo italiano, intestato a volere tutte coteste terre, come si rimedia? — Gli è lui, proprio lui, che ha la lupa in corpo, non già l’Aquila di Savoia, usa da secoli a contentarsi di rosicchiare ad una ad una le foglie di carciofo, come tutto il mondo sa, ed è vero.
E badate che: «quando il Cialdini ebbe passato il Po ed occupato Rovigo, tanto esso che Garibaldi riceverono una visita da Ricasoli, presidente dei ministri, il quale disse ai due generali: la diplomazia non riconoscere se non i fatti compiuti; epperu entrambi si affrettassero a prendere Trento. La diplomazia poi approverebbe il possesso».8
Ma d’infamia giammai non fu penuria negli uomini della monarchia: «il Governo italiano (è sempre uno straniero che parla) con un milione di forza di cavalli prese a strombettare ai quattro venti co’ suoi giornali salariati, la Italia aversi a contentare della sola Venezia, non doversi mettere tutto a repentaglio sopra la punta di una spada debole, ma debole oltre l’aspettativa dello stesso nemico9. L’illustre Ricasoli telegrafò al Medici e al Garibaldi si ritirassero immediatamente dal Tirolo; conchiuso l’armistizio; al Medici poi con menzogna e con minaccia annunziava: Garibaldi pienamente battuto presso Bezzecca ritirarsi alla dirotta; pensasse bene ai casi suoi, che si esponeva al pericolo di trovarsi a sostenere solo tutte le forze austriache.»10
Ed ecco come per onestare la propria viltà s’industriano avvilire altrui; con la menzogna sgomentansi i cuori, si fiaccano le braccia: tremano vincere più che altri non tema perdere, però che perdendo si accertava il rodere; marmeggie, non aquile; ghetto, non Stato; politica da reggia non già, bensì da castro; chè se con la lancia di Giuda ai giorni nostri si combattessero le battaglie, che cosa sarebbero le vittorie di Alessandro, di Cesare e di Napoleone di petto ai trionfi dei nostri insigni capitani? La Marmora certo più ridevole che abominevole, viceversa il Ricasoli; entrambi però risibili e odibili: forse, se costoro come il Castlereagh si fossero con le proprie mani resa giustizia11, la misericordia di Dio li avrebbe nascosti sotto un mucchio di pruni per sottrarli agli oltraggi delle bestie e degli uomini; adesso non sono più in tempo; se s’impiccassero sciuperebbero la corda, svergognerebbero la forca.
Dopo la proroga dello armistizio, ecco giungere il terzo telegramma; gli è sempre il capitano La Marmora che lo manda, e comanda perentoriamente al Garibaldi vada a farsi curare la scalmana di volere guadagnare la Italia per virtù di armi; dentro ventiquattro ore sgombri tutte le terre del Tirolo, e non istia a ripetere, perchè egli La Marmora, che di sgomberi se ne intende, in metà di questo tempo si fa forte di sgomberare tutta Italia, e Biella.
Al ricevimento di cotesto annunzio che mai pensò il Garibaldi? Chi lo sa? Chi poteva saperlo se egli non ce lo svelava? Ed egli ce lo svelò pur troppo, e in due maniere; co’ labbri amari disse: benissimo! con gli occhi tristi versò due lacrime! Chiunque consideri un uomo qual è il Garibaldi, ridotto a piangere dagli uomini della monarchia, e lo schianto del cuore che strappò coteste lacrime al ciglio dell’eroe, preso da infinito disgusto per tutto e per tutti, si troverà spinto a prosternarsi, e percotendo la terra a gridare: coprimi!
E mesto era il cuore di quanti gli stavano dintorno, eccetto dei nequitosi i quali si attaccano ai magnanimi come talora la ruggine alla buona spada guerriera. Questi per pane avevano seguito il Garibaldi, per pane lo abbandonavano; nè tutti codardi, anzi taluni feroci, ma i feroci avevano messo a cambio il sangue come i codardi la frode. Tutti si erano votati alla morte per vivere. Viltà o ferocia non monta, a patto che li servano da fornaie, da canovaie, da taverniere. Sopra gli altri improntissimo il Fandibuoni a far brogli, affinchè molti dei suoi compagni si presentassero al Garibaldi e lo mettessero in croce, per provocare dal Governo regio a loro pro onorificenze e pensioni.
Il Generale, secondo il suo costume, li guardò lungamente fisso e tacque: poi placido accese uno zolfanello e mise fuoco alla petizione che gli avevano presentato: indi a breve allontanandosi dal campo per tornarsene alla solitudine della sua Caprera, così ammoniva i volontari:
«Il Corpo dei volontari italiani, durante la campagna del 1866, ha fatto il suo dovere, e nello adempimento di questo dovere trova la più onorevole delle sue ricompense.
Brescia, 23 settembre 18GG.
Gen. Garibaldi.»
I generosi (e non furono i meno) piansero; gli altri dissero: Con quest’uomo si acquista più piombo che farina; proviamo addirittura se operando alla rovescia si facesse bene; e famelici si abbatterono negli uffici dei governanti, pari alle cornacchie sui campanili; taluno cascò di sotto per morirvi di fame; altri chiappa le mosche a volo e si nutrisce con quelle: i felici si appollaiarono sulla bandierola del campanile, e imbarcati sopra essa viaggiano a destra e a sinistra ch’è un gusto a vederli.
II misfatto di Giuseppe Garibaldi agli occhi della Monarchia pari a quello di Prometeo; più acerba la pena; che Giove tiranno da’ cieli mandò l’avvoltoio a divorare il cuore del figlio di Giapeto, mentre la monarchia condannò il Garibaldi a divorarselo da sè medesimo.
Maledetto il dubbio quando mi piglia il cervello: è una infermità come le altre: se mi accertassero ch’è un demonio, vorrei provare anche l’acqua benedetta, dacchè quella del Tettucio non sarebbe al caso. No, non dubitate; il sangue così trucemente fatto spargere su cotesto estremo baluardo d’Italia frutterà. Chi ha da sperare, speri; chi ha da tremare, tremi. Per fecondare tanto i campi della messe quanto quelli del pensiero, ormai è provato, veruno stabbio approda meglio del sangue.
A quest’ora è nato chi piglierà in mano la infamia del 1866 per vendicarla; dove mai dovesse correrci lungo tratto di secolo, non gli sarà meno infallibilmente rimessa: mirate! ella apparisce come la lettera assicurata munita di cinque sigilli sinistramente vermigli:
I. Sigillo del Castellini, il quale morendo annoverava i buchi che gli avevano cagionato le palle nemiche;
II. Sigillo del Chiassi, il quale, vedendo i suoi compagni sbandarsi, si avventa solo contro i cannoni austriaci per impedire che si avanzino;
III. Sigillo del Lombardi, che para il petto di tutte le sue medaglie il giorno solo in cui lo deve esporre contro le armi nemiche;
IV. Sigillo dell’Alasia, che spara trenta colpi contro Ampola, e al trentunesimo cade morto sopra il suo cannone;
V. Sigillo dello Specchi, Cocceio Nerva della milizia italiana, che, messo fra l’uscio e il muro, o di abbandonare il Garibaldi, o di seguirlo in guerra da lui come regia, e impresa per interesse regio, abbominata, delibera tôrsi la vita.
Non dubitate: Nemesi vede e provvede.
Note
- ↑ Martino diacono. Vedi la stupenda descrizione nell’Adelchi, tragedia di A. Manzoni.
- ↑ Stefano II.
- ↑ Stefano II.
- ↑ Giovanni XII.
- ↑ Ebbi l’onore di conoscere la consorte di Faa di Bruno, l’eroe di Lissa, che non sostenne sopravvivere alla perdita del Re d’Italia; e seppi esserle stata assegnata tale meschina pensione, da sopperirà appena alla spesa della educazione del figlio. S’ella non avesse di casa, si troverebbe in angustia pel mantenimento delle figliuole.
- ↑
Scorse per le ossa ai terrazzani il gelo
Quando vider costui piover dal cielo.
Ariosto. - ↑ Relazione degli Oratori veneti. Relazione dei tempi di Emanuele Filiberto.
- ↑ Rustow. Guerra del 1866, p. 381.
- ↑ Rustow. Op. cit., p. 321.
- ↑ Rustow Op. cit., p. 381.
- ↑ Il Castlereagh fu ministro d’Inghilterra ai tempi felici della Santa Alleanza: rimorso dalla coscienza, si tagliò la gola. Il Byron scrisse per questa morte: «Non lamentate il fato di costui; non trovando più da tagliare le gole degli altri, egli si è tagliato la sua.»