Il secolo che muore/Capitolo XIII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XII | Capitolo XIV | ► |
Capitolo XIII.
. . . . . . . . . . . . . . .
Troppa legna sotto la caldaia; troppa passione nell’anima partoriscono il medesimo effetto; di vero la vampa eccessiva spinge il liquore spumante fino all’orlo del vaso, donde traboccando spenge il fuoco e Io scema. Certo Eponina poteva vantarsi di avere saettato cotesta povera creatura; il suo cuore balestrò l’ira compressa a modo di lava; si era vendicata; aveva fatto un mucchio di cenere intorno a sè; ma desolando altrui aveva consolato se stessa? Ripensando sulle vicende della propria vita, sovente ella diceva: — Ecco, i miei giorni furono come archi tesi invano, il mio cuore, il mio nobile cuore mi si è screpolato dentro di me; simile all’orologio a polvere, che pittori e poeti pongono in mano al tempo, consumandosi, non mi ha giovato ad altro che a misurare lo spazio che mi approssimi alla morte.
Infatti ella aveva spento troppo più che un amore: aveva svelto dall’anima sua la facoltà di amare ed io fermamente credo che il verace amore, perduto che abbia una volta le penne, non ripiumi più; ed ora che l’alito di amore aveva cessato spirarle dintorno, le membra e lo spirito di lei languivano nella inerzia: non più il balenio negli occhi, non più squillo nella voce; bella sempre, ma a modo della camelia, fiore senza odore. Lo stato in cui ella adesso si versava non ritraeva punto da quello deplorato dal Parini, voglio alludere alla miseria di persona dabbene, la quale invischiata dentro laido affetto, lo conosce, lo abbomina e tuttavia non sa districarsene; ella non si doleva già avere bandito Ludovico della sua vista e dal suo cuore, anzi anche avesse potuto non lo avrebbe richiamato; se le fosse venuto dintorno, ella daccapo gli avrebbe detto: — Fratello, passa per la tua strada, il mondo è largo per tutti. — Ma con terrore sentiva avere costruito il rogo alla facoltà di amare, e di avervi con le proprie mani appiccato il fuoco; e dal rogo non rinasce altri che la fenice. Ormai tutto le rincresce:
Che un’immagin di amor non vi si mesce;
e quando invoca la morte ella chiama: — Madre
mia. — In breve ella l’adornerà di tutte le bellezze con le quali l’amante scialacquatore inciela la sua innamorata, e si struggerà per lei. Ch’è mai la morte? Troppo meno che passar l’uscio di casa. Se Seneca sentenziò giusto allorchè disse: — vita beata esser quella che alla sicurezza accoppia perpetua tranquillità, — si comprende di leggeri che la morte è la vita, la vita la morte.
Affermano che anche la statua di granito di Mennone al raggio del sole crepitasse; qual meraviglia dunque che anco il russo Platow si sentisse preso dalla consuetudine del giocondo conversare con Eponina? — Importa sapere come cotesto signore possedesse, o a meglio dire fosse posseduto da tre vizi o peccati, secondochè ti piaccia chiamarli; era superbo, era bigotto, era furioso; superbo come un bojardo, bacchettone come un vecchio moscovita, stizzoso come un orso dei suoi paesi; le quali tre cose mi è piaciuto distinguere, per sospetto che il lettore non me ne facesse tutta una matassa. La superbia lo teneva per le falde affinchè non si lasciasse andare alla passione per femmina plebea, e di giunta cantante. La religione gli metteva davanti agli occhi, quattro volte al giorno ed altrettante la notte, Moisè in procinto di rompergli le tavole della legge sul capo, in causa di quel tale comandamento che si occupa della fede matrimoniale; la collera finalmente lo scombussolava col martello che qualchedano gli portasse via Eponina quando meno se l’aspettava. Certo egli aveva combattuto aspre battaglie per vincere la passione, ma la passione aveva vinto lui, come accade sempre in questa maniera di duelli, imperciocchè l’appassionato picchiando forte la passione ha paura di farsi male. Il suo rimedio per vincere ci sarebbe benissimo, e consiste in pane, acqua e legnate: i santi dicono che lo adoperassero con frutto; io l’ho veduto usare con gli asini, sostituendo paglia al pane, e attesto che fece loro la mano di Dio; ma i principi (rammentiamoci che il Platow era principe) con le mani proprie non pigliano questa medicina, ed altri non si attenta a ministrarla loro. Tuttavia bisogna confessare che egli quanto potè contrastò di forza, ma sì, avvenne al povero principe quello che suole accadere annualmente alla sua Neva natìa in primavera: veruno di quanti vedono la sua superficie gelata si accorge che l’acqua corrente per di sotto assottiglia più e più sempre la crosta, finchè di un tratto il ghiaccio si rompe, e i suoi frammenti mescolati con l’acqua corrono insieme rapidissimi al mare.
Dall’ammirazione il principe passò alla venerazione, dalla venerazione all’adorazione, insomma per tutto il crescendo della sinfonia del diavolo; però, strano a dirsi, avendo egli affidato a diversi sentimenti del suo corpo la incumbenza di palesare l’amor suo ad Eponina, veruno volle torne lo incarico. La voce ci si rifiutò recisamente; e gli occhi traverso le lenti (il principe costumava portare occhiali) non paiono per ordinario buoni conduttori di calorico amoroso: i vetri possono fare ottima prova per accendere l’esca, non già i cuori: finalmente, non sapendo il povero principe che pesci pigliare, argomentò modellarsi sopra parecchi quadri da lui ammirati in Francia ed in Italia, dove pittori valorosissimi dipinsero i ritratti di personaggi illustri genuflessi ai piedi delle Madonne, o dei Santi protettori. Basti rammentare per tutti il voto di Luigi XII dipinto dall’Ingres ed inciso dal Calamatta. Importante, mentre Eponina se ne stava un dì seduta al suo pianoforte, il principe, cheto cheto, le s’inginocchia dietro la sedia a mani giunte, col naso insinuato fra mezzo queste, a guisa di segno dentro le pagine di un libro, e gli occhi chiusi in atto di devota meditazione.
Vi chiedo licenza di buttarvi là in quattro schizzi il bozzetto di questo russo dabbene. Comincio coll’avvertirvi che per russo poteva sostenersi bell’uomo; una maniera di Apollo tagliato coll’ascia dai Druidi; portava occhiali, e l’ho già detto, ora aggiungo ch’egli erano di oro, i quali intorno alle sue tempie parevano una corona; le tempie poi comparivano di un bel colore di terra cotta, sicchè unendo la terra cotta con quelli occhiali d’oro tu acquistavi precisa la idea di un tegame incoronato da re. E poichè il dabbene principe aveva sofferto travagli da cani nelle guerre del Caucaso per la gloria del suo imperatore e pel bene della umanità, egli aveva guadagnato in ciondoli quasi quanto aveva perduto in capelli, ond’egli, comecchè con gli anni della sua vita si trovasse poco sopra lo equinozio, pure era costretto ad usare in parte una parrucca di capelli sauri, colore ordinario agli uomini del settentrione e i: grandissima importanza costui metteva a fare si che veruno penetrasse questo segreto di Stato: infinita la diligenza a tenersela accomodata, la qual cosa contribuiva a darla a scoprire anco ai meno osservatori; frequenti e chiazzate ora di preghiere, ora di minaccio le raccomandazioni al barbiere di nascondere l’atroce caso ad ogni uomo, e questo pure aveva più che tutto altro contribuito a propalarlo al popolo, al comune e al contado: anche dei denti aveva perduto parecchi, e i surrogati gli comparivano in bocca come i deputati italiani sopra i seggi della destra ministeriale — legati in oro. Nel formargli il volto la natura, per via di eccezione, mise da parte il pomello della gola rilevato, che tanto piacevolmente agguaglia la faccia del russo genuino con quella del cane da macellaio, e si tenne alla forma sferica; pareva avesse preso gara con Giotto a condurre un O; rotondo il contorno del sembiante, rotondo il mento, tondi gli occhi sporgenti in fuori; anco il naso foggiato a mezzo cerchio rivolto in su, in atto di pilota che sul cassero della galera mira le stelle per ispeculare il cammino.
Non solo donne gioconde, bensì uomini sodi, a contemplare cotesto cristiano, concio a cotesto modo, avrebbero rotto in risate; non già Eponina, esperta che nelle grandi passioni tutto ciò che spetta al fisico come al morale può riuscire o stupendo, o terribile, o pietoso, — ridicolo mai: e però pensando quanta violenza di fato doveva avere condotto costui al fiero passo, ne trasse argomento di spaventarsi, onde levatasi e scansatasi alquanto, con mite suono di voce favellò:
— Signor principe, che fate mai?
— Che faccio? — questi rispose senza muoversi: — io prego.
— O che a sorte mi avreste voi scambiato con la Panagia?1
— Non vi ho scambiato: siete; però, Eponina, non mi sturbate, vi prego, lasciatemi pregare.
Ma non durò un pezzo in quella corrente d’idee, che, all’improvviso sorgendo, afferra la sedia dove poc’anzi Eponina sedeva, e branditala a guisa di spada parve che attendesse con quella a scacciare verso terra la vsua passione, che aveva levato troppo in alto il volo, aggiungendo:
— Eponina, io vi amo, e voglio e posso amarvi; che cosa trovereste voi da opporci?
— Oppongo, signore, non essere affatto generoso tenere simili propositi a fanciulla sola, priva di protettori.
— Come! Credete voi che io vi possa oltraggiare? Pensate davvero che abbia avuto intenzione di mancarvi di ossequio? Questo non fu ne sarà. Oh! perdonatemi; se mi negate il perdono mi brucerò il cervello.
— Lasciamo, di grazia, il cervello al suo posto, e non entriamo neanche sopra la intenzione, ma egli è sicuro che voi non mi avreste tenuto siffatto discorso, se mi aveste trovata al fianco della mia genitrice.
— Io?...
— Sì, voi; e voi avete pensato potermelo fare perchè.... perchè.... ve l’ho a dire? Perchè vi sono parsa vivanda avanzata alla mensa di un altro.
— Orrore!
— Ed io, principe, sappiate, per mercè di Dio e la mia volontà, mi sento tale e sono da non ricevere dichiarazioni di amore se non per mezzo di mia madre.
— Ma, signora Eponina, o che cosa vi ho chiesto io? Nulla dalla parte vostra. A me basta che vi lasciate amare. Voi avete rammentato la Panagia; bene; forse si è mai sentito dire che questa abbia dato di un calcio nella faccia al suo devoto, che le stava inginocchiato ai piedi?
— Via, via, principe, noi siamo in età da sapere che l’amore stampa tutte le sue grammatiche a casa del diavolo. Platone e Petrarca hanno perduto più anime che tutti i romanzi francesi. Non crediate, che credereste male, il corpo starsi in potestà dell’anima, come Calibano in quella di Prospero; all’opposto Calibano si tira dietro la meschinella Psiche, a mo’ che il fanciullo costuma l’uccelletto legato per una zampa. Amore, se pure può vincersi, si vince in una maniera sola, fuggendo.
— Ebbene, soggiunse gravemente il principe, quando mi accorgerò che l’amore pigli troppo a riscaldarmi, io me ne andrò a visitare le mie miniere in Siberia, e non ritornerò se prima non mi senta rinfrescato.
Eponina non si potè astenere da far bocca da ridere, e piacevolmente interrogò:
— Ma io, che sono italiana, dove mai mi ricovererò? Nel mio paese, in terra, in mare, sui monti, nelle pianure tutto avvampa; fuoco nel Vesuvio, faoco a Stromboli, nel Mongibello fuoco.
— Diavolo! Non ci aveva pensato: allora andate a Torino; esponete la vostra faccia alla brezza che spira dalle Alpi, e vi sentirete rinfrescata.
— Peggio che mai; sarebbe un pigliare il male per medicina. O non vi giunse all’orecchio che giusto a pià delle Alpi seppero da un pezzo in qua instituire i semenzai più copiosi di fiori e di amori?
— Ma dunque il clima nulla può sul sangue?
— Sul sangue sì, ma sopra la passione no. E poi, venite qua, principe, e siamo di buon conto; voi che fate professione di uomo religioso, potete insegnarmi come il peccato non istia solo nell’atto, bensì ancora nel pensiero; qui il nostro Redentore parla chiaro; nè avvocati, nè preti varranno a storcere il senso delle sue parole: «Chiunque riguarda una donna per appetirla già ha commesso adulterio con lei nel suo cuore».
— L’Apostolo si è spiegato male; tutti gli altri vangeli danno ad intendere trattarsi di donna moglie ad altri; ma voi siete libera.
— Certo sì, ma siete voi, principe, che avete moglie.
— Sì, ma un cancro di minuto in minuto me ne mangia un pezzo. I medici l’hanno sfidata; se tira innanzi un mese sarà un miracolo.
— E perciò appunto voi dovete temere di commettere, più che peccato, sacrilegio, sottraendo adesso un atomo, un filo, un fiato del vostro amore a cotssta sventurata. Nel passo tremendo a cui si avvicina, ella abbisogna sentirsi sostenuta da tutto l’affetto del suo consorte; sarebbe carità fiorita raddoppiare nella sua anima la fede che durerà immortale il ricordo di lei nel cuore dello sposo; che innaffiati dalle lacrime vedovili cresceranno perenni i fiori sopra la sua tomba. Principe! Avete mai pensato alla spada che la trafiggerebbe, se venisse a sospettare che voi non l’amate più, peggio, che voi ne amate un’altra? Morirebbe disperata; e voi ed io saremmo forse colpa della sua eterna dannazione. Vostra moglie, mi afferma il grido pubblico, santissima donna ed a voi attaccata con tutte le viscere. Sarebbe questo il guiderdone che voi le serbate per tanto amore? E quando? Quando la morte ci ha fatto il segno, come su cosa che abbia di già acquistata. E in che occasione? Allorchè ella posa il suo ultimo sguardo sopra l’amato volto, per quinci desumere forza e coraggio di levarlo per sempre in paradiso.
Il principe sudava per la pena; non sapeva andare innanzi nè indietro, come il cavallo che patisce di restio, non si muove neppure se gli accendono una fascina sotto la pancia; nè Eponina si sentiva meno sopra le spine non potendo indovinare come la sarebbe ita a finire; quando la fortuna le porse inopinatamente il destro di cavarsi da cotesto pelago. Il principe nella confusione della sua mente, come uomo che si attacchi alle funi del cielo, di un tratto mi usciva fuori in queste sciagurate parole:
— Orsù, Eponina, sentite: dacchè così volete, io cesserò vedervi... io sospenderò di amarvi... ma ad un patto... che voi vi leghiate con giuramento meco, di sposarmi quando piacerà a Dio chiamare a so la signora principessa mia consorte.
E non ci è rimedio; neppure il senatore Casati se ci pensava un mese avrehbe saputo accozzare tanti spropositi, quanti costui ne mise insieme in un minuto.
Eponina riscotendosi si trova presso l’uscio della stanza; allungato il braccio agguanta la maniglia, e voltasi al principe con voce alterata gli favellò:
— Dunque sono io tal donna da non potere diventare moglie di un uomo, se prima non figuro scheletro a piè di un catafalco? Amore egregio davvero quello del principe Platow, il quale non sa offrire per talamo che un cataletto!
E aperto l’uscio, scomparve.
Eponina, pensando ai casi suoi, considerò come il partito che le rimaneva migliore stesse nel partirsi da Pietroburgo più presto che le fosse stato possibile; molto più che oggimai veruna causa la trattenesse in cotesta città; però le si fece sentire il bisogno di adoperare straordinaria cautela, che la passione del principe le parve pur troppo di quelle che stanno a un pelo per diventare frenesie, al quale effetto, deliberata di valersi dell’opera della sua cameriera russa, serva affrancata di sulle terre dello imperatore, giovane svelta da levare il pel per l’aria, ed a quanto pareva devotissima a lei; si restrinse con essa, e prima di aprirsele, per iscoprire marina, la interrogò se si sarebbe maritata volentieri con Yanni, maestro di casa, in cui Eponina avendo posto confidenza grande viveva sicura, che l’avrebbe seguitata in qualunque parte le fosse piaciuto condursi. Katinka, che tale avea nome la cameriera, rispose subito a faccia tosta di no; onde Eponina, contrariata, ebbe a dire: sono uscita di casa col piè sinistro. Bisognò pertanto andare in traccia di altro ripiego, senonchè mentre stava cercandolo, ecco che le venne fatto di scoprire che Yanni e Katinka di pienissimo accordo avevano camminato nel medesimo veicolo, più miglia verso il paese del santo matrimonio, che a lei non sarebbe piaciuto conoscere; di che assai s’impermalì, e fece alla cameriera una ramanzina da levarle il pelo; ma la Katinka tutta umile si scusava col dire, lei avere dubitato che le interrogazioni della signora fossero per tastare il terreno, e chiarito il dubbio avrebbe dato il puleggio all’una o all’altro e forse a tutti e due, non garbando ordinariamente ai padroni tenere per casa marito e moglie. Non parve questa buona ragione ad Eponina, sostenendo ella che la giovane con lei doveva venirsene liscia; dopo tante dimostrazioni di affetto meritarsi schiettezza fraterna (come se il proverbio mancasse di avvertire, che
furberia male confarsi con la ingenuità mostrata per lo innanzi: ai quali rimproveri la Katinka rispose breve con una sentenza, che Eponina ebbe cura di notare nelle sue effemeridi: «Signora, io sono serva affrancata, ed ella lo sa. Ora i padroni ben possono liberare da un punto all’altro i servi dalla catena del servaggio, non possono dai vizi di quello: la servitù fa all’anima il medesimo effetto del nero nel corpo; anche dopo tre o quattro generazioni di neri con bianche, o di bianchi con nere, il nero si distingue sempre. La finzione è l’unica arme difensiva che il servo possa adoperare contro il suo signore.»
Meglio che registrarla nel taccuino, bisognava riporsela nella mente; ma ciò non fece Eponina, e non ne trasse profitto, perchè la superbia persuade facilmente la creatura umana che incontrando la regola questa debba scansarsi con una eccezione per lasciarle libero il passo; e questo è scoglio dove rompono spesso i più perspicaci intelletti.
Pertanto fa stabilito che si sarieno fatti gli apparecchi pel viaggio colla massima segretezza. Yanni e Katinka avrebbero messo in isquadra il loro connubio con l’aiuto del papasso, continuando nel servizio presso Eponina: la mobiglia fu venduta alla rinfusa, ed anco per questa volta bisognò ricorrere all’ebreo Anania, il quale avendo subodorato il negozio, fece in un di le sue vendette della ingiuria patita allorchè ebbe a pagare un terzo solo meno le gioie del monile donato dalla imperatrice ad Eponina.
Però giova procedere giusti con tutti; quando l’ebreo compra a taccio, se non si contenta neppure avere la roba a mezza gamba, quasi lo scuso, imperciocchè vecchio, io osservai nella sua bottega oggetti che ci vidi da giovane: limbi di rigattiere privi di speranza di redenzione.
Yanni si raccomandava a mani giunte e poneva ogni sua diligenza ad osservare il mistero; perchè se il principe avesse preso fumo della cosa, guai a tutti, massime a lui. Se alla signora talentasse conoscere di che il principe fosse capace nel male, lo argomentasse dal modo col quale egli talvolta praticava il bene: trovandosi governatore in Tartaria, preso dal santo desiderio di guadagnare anime al Signore, propose a certa tribù di tartari ridursi alla fede di Cristo, e poichè costoro tentennavano, ei li fece pigliare dai suoi dragoni, spogliare, legnare, e così ignudi e bastonati scaraventare nel fiume Tehoulima; il prete intanto recitava la formola del sacramento del battesimo, e così uscirono dalle acque battendo i denti e cristiani. Il principe raggiante di giubilo si fregava le mani, esclamando: «Non ci è verso, bisogna mandarli in paradiso coi dragoni!» Difatti ce ne mandò parecchi, ma oltre i dragoni ci adoperò l’acquavite, perchè, avendone fatta ministrare loro un boccale a testa onde celebrassero tanta solennità, tra il quarto ed il quinto dì la maggior parte basiva per infiammazione. Di questa razza benefattori della umanità ce ne nasce in Russia. Ed invero il principe, il quale non era ricco di partiti, si limava in questo frattempo a cercare modo di assettare il suo amore, ma più ci pensava e meno ne trovava il bandolo, dove non si risolvesse a rapire Eponina e trasportarla in qualche suo remoto castello, quivi battezzarla coi dragoni. Il russo tornava a galla! Ma lo tratteneva la considerazione che queste imprese anche in Russia non costumavano più, dove anche in Corte dopo lo esempio della imperatrice Caterina in fatto di morale si procede in punta di piedi: il principe della morte ne avrebbe fatto caso quanto di un bicchiere di cognac, ma vedersi cancellato dalla lista dei ciambellani di S. M. era supplizio tale, ch’egli non valeva a sopportare nè anche in immaginazione.
Mentre il povero principe si tribolava nel martirio che gli innamorati hanno comune con S. Lorenzo, ecco farglisi contro un servo e dirgli che la principessa sua consorte mandava per esso, ed egli andò; entrato in camera la inferma gli disse: avere ricevuto or ora le lettere dalla posta, e fra queste una che ne chiudeva un’altra per lui, con preghiera di consegnargliela in proprie mani; cosa ch’ella faceta; ed in così dire gliela porse.
Al principe diede un tuffo il sangue, e come presago di qualche malanno si trasse nel vano di una fmestra, dove aperta la lettera lesse:
«Signore!
«Mirate bene chi vi porge la lettera e poi mirate chi ve la manda, e comprenderete inutile ogni altra parola, salvo la preghiera che vi faccio, di scordarvi di me: riunite con tatto le potenze dell’anima i vostri affetti sopra la moribonda, per renderle, se è possibile, lieta, o almeno non trista l’aurora che sta per incominciare la sua giornata immortale.»
«Eponina.»
Il principe si ridusse a balzelloni nella sua camera, dove postosi a meditare sopra l’atrocissimo caso, tanto dolore lo vinse che cadde a terra percosso da accidente di gocciola; non morì, che solleciti rimedi e gagliardi lo riscattarono dalle granfie della morte; non tutto però; gli rimase la bocca storta, il braccio manco penzoloni: anco il piè sinistro strascinava malamente per terra: risensato, seppe la moglie morta, Eponina sparita: a queste notizie buttò giù la faccia sul petto, grugni e parve sprofondare nella demenza.
Eponina con i suoi servitori, camminando come costuma la volpe quando vuol mettere i cani fuori di traccia, dopo molti andirivieni giunse per ultimo nella Svizzera.
Chi dice male della Svizzera ha torto marcio; per me la giudico uno dei più bei paesi di questo mondo; ci si respira l’aria di libertà, un po’ fredda, ma pura; ci si trova di tutto: latte, amor del prossimo, ospitalità e formaggio e carne in copia, veramente tutto un po’ caro, ma di prima qualità, massime la carne.
Eponina si ridusse a vivere, quanto meglio potè di celato, in certo paesello prossimo ad un lago: piace del paese e del lago tacere i nomi: e neanco lì parendole stare abbastanza nascosta, cercò e rinvenne una deliziosa villetta posta a breve distanza dal villaggio a ridosso di un monte dove appariva incassata come perla dentro un anello. Senza che ella se ne pigliasse cura primi ad ammobiliargliela furono gli oscuri rammarichi del passato ed i non meno foschi presentimenti dell’avvenire; si adattò ad infinite privazioni di cose che sul principio sembravano più necessarie del necessario, ma che il bisogno mette poi al suo posto, senza paura di errare. Al difetto del pianoforte supplì con un violino, essendo suonatrice stupenda anche di questo strumento: un pezzo si svagò col pensiero che sì trovava divisa dall’Italia, da casa sua, mediante sottilissima parete (veramente ci voleva tutta la immaginazione di un artista per supporre un’alpe una parete, e per di più sottile) e quindi godeva della contentezza di coloro, i quali non potendo vedere la faccia dei propri parenti pure ne odono i passi e la voce; e poichè la sua fantasia spiegava le ali largo davvero, ne ella attendeva a temperarne il volo, così delirando accosta il seno a qualche rupe e si consola nella idea di sentire traverso a quella palpitare il cuore d’Italia sul suo. Ma amore è nudrimento dell’anima, in molta parte non diverso dal cibo corporale; così ve ne ha di quello che, sempre uguale e poco, basta a saziarci, altro variato ed in abbondanza, aggrava e non approda; però Eponina, priva del primo, incominciava ad annoiarsi, ma al maggiore uopo la sovvenne la ventura parandole davanti, in cotesta solitudine, una fanciulletta di nove o dieci anni, vispa e lieta nella sua miseria come una lodola mattutina; di vero ella errava pel mondo campando la sua vita come gli uccelli, col canto: per verità ella si accompagnava coll’organino, cosa che agli uccelli io non ho veduto fare; ma questo piuttosto le noceva che giovava, imperciocchè per ordinario chi la stava a udire le chiedeva cessasse per l’amore di Dio il suono, e con la voce sola finisse la canzone. Eponina, pari alla rondine, la quale, per farsi meno disagiato il nido, ogni piuma raccatta, si tolse in casa la fanciullina e ce la tenne un giorno, poi dieci e poi sempre, tanto le piacque per la sua gentile leggiadria, e più per la facilità con la quale apprendeva ogni atto di educazione donnesca: leggere e scrivere già sapeva di avanzo: in breve conobbe la musica; imparò a suonare il violino; sempre linda, nelle vesti attillata; e sempre gioconda e festosa; insomma una cara creatura. La sua storia breve e poco svariata, tutta un affanno: si chiamava Natalizia perchè i suoi genitori, e certo la mamma, la notte di Ceppo la espose novellamente nata sul lastrico di Milano, forse per regalo del Natale che le mamme costumano co’ figliuoli; una donna vedova, senza figli e povera, la rinvenne, la prese e la tirò innanzi alla meglio: giunta ad otto anni, la vecchia essendo assicurata che ella aveva voce soave, le permise andare pei caffè a guadagnarsi la vita, dove la udivano molto volentieri, ma ne cavava poco costrutto; quando un suonatore vecchio le propose di andarsene con lui per le Asie e per le Americhe fino a Madrid; ed ella che era vaga di girare pel mondo, disse: «Magari!» E tenutone proposito con la vecchia, questa glielo assentì a patto che tornasse presto, A questo modo camminarono attorno per terre e per villaggi; egli suonando da svegliare i morti prima del giudizio finale; ella medicando col canto gli squarci ch’ei faceva negli orecchi altrui e guadagnando i quattrini, ed egli pigliandoseli e facendole le male spese; e fin lì pazienza! Ma un giorno egli la volle picchiare, ed ella, non trovandosi altro da vicino, gli frombolò mezzo pane, che teneva sotto il braccio, nella testa e scappò via, piantando il vecchio ghiottone che campava alle sue spalle e le lesinava il vivere; si mise sola pel mondo e girò, girò stentando, finche non capitava alla casa dalla sua cara mammina e con lei voleva vivere e morire, ma le coceva di sapere che ne fosse dell’altra mamma da lei lasciata a Milano, la quale, vedendola tanto tardare, per certo stava in pensiero; e poi, o vivere lì, o in Milano tornava lo stesso? Natalizia non passava di che con questi od altri simili discorsi non facesse divampare nella Eponina più intenso il desiderio di tornarsene in grembo alla propria famiglia; e perchè non ci si sarebbe presentata con fiducia? Passi dei quali doveva pentirsi ne aveva fatti anche troppi, ma da arrossire, veruno: e se per sorte l’avessero reietta, ella, consolandosi di non avere meritato tanto rigore, avrebbe provveduto ai casi suoi, ritraendo dall’esercizio della propria professione il modo di vivere.
I romanzieri, quando si mettono a frugare nel cuore umano, procedono nella stessa maniera dei filosofi moralisti, non mica con norma sicura, bensì a tastoni, per via di congetture, e però certi di cercare con coscienza, non già di trovare con certezza; per la qual cosa, tirando ad indovinare, dico probabile che l’amore di Eponina verso Natalizia accendesse nei cuori di Yanni e di Katinka la prima favilla di astio, la crescesse la paura che Eponina rimpatriasse, peggio poi che si restituisse coi suoi e così li licenziasse; che se anche, conservandoli al proprio servizio, dovesse cessare il quotidiano saccheggio da loro esercitato sopra le cose della padrona, non sarebbe stato meno grave lo stroppio.
Yanni e Katinka, ormai legati coi vincoli del santo matrimonio, passavano la più parte della notte in letto supini ad abbacare se anche a loro convenisse tornarsene a casa: veramente i baci gelidi dell’aria natia capaci a incancrenire il naso degli abitanti, non li allettavano; braccia tese di amanti congiunti verso loro, da cotesto parti non vedevano, o se le vedevano erano per votare tasche e per rubare valigie. In tutte le parti del mondo spesso, in Russia sempre, padri, madri e parenti in linea discendente o trasversale, sino alla quarta, o alla quinta generazione, per pigliare darebbero il cuore.
— Tu sai, cara mia... diceva il marito.
— Tu sai, diletto mio... rispondeva la moglie.
E qui si abbracciavano stretti e ad una voce finivano: ... che da vivere noi non abbiamo.
E nei geniali ragionamenti continuando, toccavano della poca capacità loro e più della niuna volontà che avevano di lavorare.
— Quando ci vada in poppa, ci toccherà un
salario e se vuoi anche una fra le tante arie che canta la signora: Ti lascio al ben che adoro; ovvero
- Separiamci da forti e non si pianga.
— Dunque, che cosa stilliamo?
La idea del furto si affacciò dapprima come un fuoco fatuo sopra l’orizzonte estremo di cotesti due crani; poi ci ricomparve più insistente; prese forma, prese colore; che più? all’ultimo prese l’aspetto di spiegazione del Vangelo, predicato da un prete: cosacco, diceva la predica, propriamente significa ladro, e ciò sta ad attestare come il russo per naturale propensione tenda al furto. Dio ci ha fatto, non noi; noi dobbiamo e possiamo combattere gli istinti di natura e incamminarci per quanto ci è dato sopra il sentiero della perfezione: ora per mantenerci onesti ci vogliono quattrini; di qui la necessità di rubare un’ora per durare onesti tutto il tempo della nostra vita.
E ragionavano giusto come Dante operò: intendevano passare dall’inferno per andare in paradiso.
Un concetto gittato nella corrente del pensiero è pari ad un tronco caduto in balia del fiume: entrambi devono per necessità giungere al fine; quello col traboccare nell’azione, e quest’altro nel mare; però i nostri coniugi nel colmo di una notte entrano chetamente nella camera dove dorme Eponina, aprono con precauzione canterale e armadio, pigliano a cavarne il buono e il meglio in gemme, in orerie, con tale disinvoltura che non pareva fatto loro, e siccome fossero entrambi religiosi, così volendo pigliare con coscienza, prima di appropriarsi un oggetto formulavano un attesochè, come costumano i giudici, anzi, più scrupolosi di questi, però che essi pongano le ragioni del giudicato solo innanzi alla parte dispositiva della sentenza, mentre essi le ponevano prima e dopo: — Tanto ella non ha bisogno; — e finivano: — e noi necessità estrema. — Tanto ella con quattro trilli se li rifa più belli; — e finivano: — e noi neanco spaccassimo legna fino alla consumazione dei secoli; aggiungevano dopo: — e a pensarci su, si può quasimente sostenere che la è roba nostra, avendola ella raccattata in Russia, e riportandocela non sarebbe fuori di luogo vantarci che adempiamo a una regola di buona economia e al debito di amor patrio. Quando i nostri artisti calmucchi inonderanno i teatri d’Italia, gli italiani si vendicheranno negando a loro gemme e ghirlande. Si vendichino pure! Noi ci stiamo; così le borse non impoveriranno e la morale ci guadagnerà...
O che credono i nostri professori di comunismo possedere eglino soli il privilegio di ragionare il furto? Anche i cosacchi lo sanno fare, e se avessero perizia di mettere in carta, essi ci comporrebbero libri, di petto ai quali quelli di Proudhon sarieno giudicati conservatori.
Però, quantunque i nostri coniugi in cotesie loro lucubrazioni ponessero garbo infinito, tanto non poterono procedere cauti che non movessero rumore da svegliare Eponina, la quale sollevando il capo interrogò:
— O che fate costi a quest’ora? Perchè senza che io vi chiamassi mi siete entrati in camera?
Katinka. Oh! ecco; la signora si lamentava tanto nel sonno, che abbiamo ruzzolato il letto per correre ad aiutarla.
Eponina. O che credevate mi fossi addormentata nel canterale?
Yanni. No, signora; cercavamo biancheria fine per servizio di vostra signoria illustrissima.
Eponina. Ma nel canterale non ci stanno le biancherie, e voi lo dovreste sapere, Yanni; ad ogni modo lo sa Katinka.
Katinka. Dice bene la signora, ma, rimescolata come sono, non ho avuto capo ad avvertirglielo.
Qui Eponina perse la pazienza e con suono risentito disse loro:
— Sciagurati! Bugiardi! Voi rubavate... uscite subito di casa mia.
E fino a questo punto poteva andare; ci sarebbe stato quasi da scommettere che i coniugi avrebbero spulezzato mogi mogi, e in cotesta medesima notte preso il volo per altre contrade; ma no, la smania dello stravincere pose sempre mai a repentaglio la vittoria, e questo insegna eziandio il Machiavelli, ond’è che Eponina tutta accesa di collera aggiunse:
— Andate; domani farà giorno, e voi, furfante, renderete ragione del vostro operato davanti al tribunale.
Mala ispirazione fu quella; e si che Eponina doveva ricordarsi la fine miserabile toccata al Winkelmann, trafitto proditoriamente dal servo assassino, per derubarlo dei suoi tesori.
I coniugi allora si avviarono di conserva verso il letto: su quello che fossero per fare non erano ben chiari; si presentava alla mente loro, a modo di embrione, il quale però stava in procinto di pigliare forma determinata dalla necessità di condurre, ormai che lo avevano incominciato, a compimento il furto e di godersi in pace la roba rubata; ma Eponina avendo scorto cotesti due ribaldi ricambiarsi con gli occhi una di quelle faville che schizzano proprio da un tizzo di casa del diavolo, capì dove sarebbero iti a cascare, anche prima ch’essi ci pensassero; onde non le parve più tempo di gingillarsela e, con la manca frugato sotto il capezzale, ne trasse fuori una rivoltella che subito spianò contro Yanni. Sua sventura volle che Yanni si fosse accostato troppo, sicchè questi, allungata la gamba e steso li braccio, agguantò la mano di Eponina, strappandole con forza irresistibile la pistola; non per questo sbigottì Eponina che animosa con la destra cerca e trova sotto il guanciale il pugnaletto, a lei carissima galanteria, come quello ch’era dono del suo miglior fratello Curio, che aveva per manico le figurine di Amore e di Psiche vagamente intrecciate. Curio nel darglielo le aveva detto sorridendo: «Con questo un giorno ammazzerai qualcheduno.» Katinka non meno svelta di Yanni afferrò Eponina; nel tira tira cadde il fodero, e la serva venne a trovarsi ignudo il pugnaletto in mano, che senza esitare appuntò nella fossetta che fa la clavicola alla radice del collo ad Eponina.
Yanni urlò: Forte! — Ed Eponina: — Ah! scellerata! !
Spruzzò il sangue negli occhi e sulla bocca di Katinka: costei rabbrividita dal sapore del sangue e cieca, lasciava il ferro nella ferita e tremante come per paralisia si appigliava con ambedue le mani alla colonna del letto per non istramazzare.
— Katinka, presto, scappiamo! susurrò Yanni
— Sì, sì, fuggiamo, acconsentiva premurosa Katinka.
E volsero le spalle alla trafitta, affrettandosi verso l’uscio della camera; ma giunti presso al canterale la tentazione li riacciuffò pei capelli, con la man manca l’uomo, con la destra, opperò più forte, la donna, la quale con voce rantolosa e non pertanto distinta disse:
— Yanni, ci basterà la roba?
— Gua’! o chi ci para di rubarne dell’altra? rispose questi.
E si misero di concerto a grancire più rapaci di prima; ma la paura e la confusione tanto prevalevano in loro, che con le mani l’uno l’altro agguantava.
— Oh! chi è che mi agguanta? Urlò Yanni, trasalendo, la prima volta che questo accadde; e la donna:
— Sono io, zuzzurullone! — E levatigli gli occhi nel viso esclamò: — Come sei giallo!
Yanni a sua posta mirando lei digrigna fra i denti:
— E tu come rossa!
Katinka abbassando gli occhi con orrore si vide macchiati di sangue il petto e le braccia.
Di un tratto li percuote uno scoppio di fucile, e subito dopo le strida: Assassinio! assassinio!
— Ah! siamo scoperti!
— Salviamoci! urlarono a una voce gli scellerati, e via a precipizio verso la porta dove essendo giunti in un punto, e donde ad un punto volendo uscire si diedero uno strizzone da sgretolarsi le costole.
Ecco uno dei soliti colpi di scena da romanziere arrembato, osserva, ghignandomi in faccia, la mia censora sdentata, quarantenne e beghina; ed io paziente:
— Ma signora mia, la si lasci servire, e vedrà come la cosa cammini naturalmente pei suoi piedi. Ricorda ella l’orfana, senatrice di organino, raccolta da Eponina per carità? — Natalizia, via? Se ne ricorda? Or bene; costumando la Natalizia dormire in certo stambugio accanto alla camera della sua signora, si accorse dello insolito rimuginare che si faceva nella camera accanto, e apposto l’occhio alla serratura si accorse in un attimo del misfatto, che stava per perpetrarsi: — Se chiamo soccorso, chi mi risponderà? pensava fra se la vispa fanciulla: — forse se li lascio fare si terranno contenti a portar via, mentre se si trovano scoperti ci aggiungeranno l’omicidio: i gatti spaventati sgraffiano.
La Natalizia aveva pensato a sesto, ma poi la faccenda andò diversamente, e repentina così, che ella non ci potè fare riparo; ed anche gliene avessero dato campo, non avrebbe saputo a quale partito appigliarsi. E nè anche la giovinetta perse il coraggio quando vide la sua signora tanto fellonemente trafitta, perchè sperò non lo fosse a morte, e ad ogni modo senti il debito di sovvenirla come poteva; certo le nostre ragazze, fiori tirati su a stento nelle domestiche stufe, per lo meno sarieno cadute in deliquio; ma la nostra orfana era allieva della necessità, maestra rigida è vero, ma che per insegnare presto e bene vale oro quanto pesa. Per la quale cosa ella, guizzando celere e cheta nella stanza di Giovanni, prese lo schioppo a due canne che costui si teneva a capo il letto, e poi si calò fuori della finestra: appena tocca terra si addossava al forno lì presso casa, urlando da spiritata: «Assassinio!» e al punto stesso esplodendo una delle canne; per buon rispetto la provvida fanciulla tenne in serbo l’altra. L’esito del trovato superò la sua speranza, imperciocchè indi a breve vedesse prorompere fuori della porta di casa i due scellerati e correre a rotta di collo, come se centomila diavoli ne li portassero.
Allora rientrò in casa dove, avendo prima incatorciato per bene le imposte dell’uscio, ascese al soccorso di Eponina. Poveretta! non dava segno di vita; largo lago di sangue aveva lordato le lenzuola e i tappeti; adesso grondava a stille scarse, perchè più poco gliene restava nelle vene, ed anco perchè avendo fatto grumo intorno al ferro, le restava impedito lo sbocco. La fanciulla accorta stava perplessa a estrarre il pugnale, temendo qualche sgorgo e trovandosi corta a rimedi per impedirlo; pur si decise a cavarlo, ammannito innanzi un batuffolo di lini finissimi, di esca e di cotone onde servirsene a modo di stuello premendolo sopra la piaga; e così fece, avendo la pazienza di tenercelo fermo per più di un’ora; poi, composto con altri pannilini una maniera di guancialetto, mediante fasciature condotte in tralice per di sotto l’ascella destra, lo assicurò con garbo nella fossetta della clavicola ferita, tanto bene, che meglio non avrebbe saputo fare il cerusico.
Tutto questo compito, Natalizia pensò se giovasse meglio attendere il giorno, ovvero recarsi subito al villaggio per soccorso. A lasciare Eponina sola la dissuadevano il pericolo che gli assassini tornassero, e l’altro che risensando ella si spaventasse della solitudine, o peggio ancora, movendosi allentasse la fasciatura e si perdesse irrevocabilmente quanto sperava avere acquistato con tanta fatica; aggiungi il risico di smarrire la strada nel buio fitto della notte e minare in qualche precipizio; la combatteva altresì il timore che al villaggio non si sarebbero svegliati, o che non le avrieno dato retta, o che non volessero venire: per ultimo non le pareva fuori dei possibili imbattersi ella stessa negli assassini, i quali non avrebbero mancato accopparla per distruggere con esso lei il testimonio unico del loro delitto: tanto è, si fece coraggio e andò; tuttavia al pericolo che gli assassini rientrassero in casa provvide con lasciare chiuso l’uscio di casa, ed ella calarsi da capo giù dalla finestra; all’altro d’incontrarli per via, riparò col caricare anche l’altra canna dello schioppo e portarlo seco inarcato; come Dio volle, non le nocquero nel cammino le tenebre, nè le asperità della via; quanto poi alla difficoltà di svegliare la gente, ebbe un santo dalla sua, che le fece trovare il Sindaco desto, il quale andava in volta per la casa, col suo decimo nato in collo, trastullandolo per quietargli la smania della dentizione. Gli abitanti del villaggio avvertiti in un bacchio baleno, si misero in assetto per accorrere al soccorso della ferita. Un po’ di tempo lo fece perdere la moglie del Sindaco, la quale, non ci era caso, voleva andare lei, lasciando il Sindaco a ninnolare il bambino; ma il marito glielo scaraventò nelle braccia, osservando che fuori di casa il Sindaco era lui.
Di subito fu vista una processione di lanterne errare qua e là, a mo’ di lucciole, giù per la vallea, festinante verso il luogo del misfatto. Ognuno dei lanternisti desiderava con tutta l’anima che Eponina non fosse rimasta sul tiro, computando il guadagno che per la sua malattia sarebbe venuto a lui o alla moglie di lui, ovvero ai figli, generi, cugini di lui, amici e conoscenti a 16 miglia dintorno. Io l’ho già detto: cuore e formaggio nella Svizzera ci si trovano di prima qualità. Se io mi trovassi a possedere un cuore svizzero, io non lo baratterei con la più grande piramide d’Egitto.
— O lasci in pace i cuori degli svizzeri e le piramidi di Egitto, e ci dica un po’ come andarono a finire i servi assassini, salta su a dire la critica bacchettona, e minaccia di non lasciarmi ire innanzi, se prima non la contento.
— Ma abbia pazienza, questo ella saprà a suo luogo e tempo; dovrebbe pur capire che la sua continua intromissione mi rompe i concetti e mi arruffa ogni disegno.
— Ringrazi Dio che mi basti la pazienza di starle al fianco, che senza di me, nelle sue diavolerie, non si troverebbe un briciolo di buona morale, neanco a cercarlo coi lanternoni degli svizzeri da lei poc’anzi descritti; ci dica subito come la giustizia umana arrivasse gli assassini; e in ogni caso la giustizia divina, che non può mai fallire.
— Senta. La giustizia umana non li agguantò: i ribaldi scivolarono fra Stato e Stato senza dare sospetto: anzi alle polizie dei vari paesi riuscì tanto più difficile rinvenirli, quanto meno essi posero cura a farsi cercare: in pellicceria ci vanno più pelli di volpe che di asino: se vuoi gabbare la diplomazia, che campa sulle trappole, usa ingenuità: e se desideri sgusciare dalle mani delle polizie, solite a camminare pei traghetti, tira innanzi per le vie maestre: pertanto costoro giunsero a salvamento in Arcangelo, dove rizzarono su rivendita di acquavite e furono principali avventori, finchè vissero, della propria bottega.
— Ma la giustizia divina? Dica su della giustizia celeste.
— Della provvidenza, via? Oh, ecco: questa li seguitò un pezzo, ma siccome a mano a mano che s’inoltrava per coteste contrade boreali, sentiva per colpa del freddo gelarsi le membra, si fermò a Pietroburgo, e quivi mentre attende a curarsi i pedignoni la raggiunsero corrieri di Francia e di Prussia, con ordine fulminante di tornarsene indietro; volersi ad ogni modo rompere la guerra, nè i popoli potersi capacitare che senza permesso della divina provvidenza fosse lecito a loro di porre la mano ai ferri per tagliarsi la gola; avrebbe trovato rifatto il letto e spazzate le chiese, accesi i moccoli, gonfi i mantici degli organi, sul turibolo gl’incensi. La provvidenza fece spallucce e significò ai corrieri che la lasciassero in pace; ma gli impronti le susurrarono dentro gli orecchi ci pensasse due volte, però che essi avevano commissione di condurla coi gendarmi. «Co’ gendarmi! ella esclamò; e quale giurisdizione hanno su me i gendarmi? Se presumono ammanettarmi i gendarmi luterani della Prussia, io sono la provvidenza cattolica; se i gendarmi cattolici della Francia, io sono la provvidenza luterana; qui in Russia posso schermirmi da tutti e due proclamandomi provvidenza greco-scismatica: andate al diavolo voi e chi vi manda. — Ma poi, avendo levato gli occhi al cielo, pensò ch’egli era spigionato per tutti; onde per non attizzare scandali, mandando all’aria per sempre casotto e burattini, si adattò a seguitarli.
Appena giunta a Colonia, la città dei re magi, la provvidenza mandò pei due imperatori, uno già nato e l’altro che stava per uscire dall’uovo, e disse loro con voce annuvolata:
— Signori miei, a che giuoco giochiamo? O che questo lavoro non ha da smettere mai? Voi vedete che moglie di due mariti io non posso essere: la poliandria si considera peccato così in cielo come in terra; e poi l’ha da finire questa storia di mettere sopra le mie spalle tutte le vostre infamie, le truci ambizioni, le maledizioni dell’umanità, i diluvi di sangue che fate spargere voi altri.
I due imperatori, l’uno fatto e l’altro che stava per rompere il guscio, ad una voce risposero:
— Dà retta, divina provvidenza, a noi veramente non importa nulla che tu stia con l’uno o con l’altro ed anco con veruno dei due; noi ci provvediamo dai noi stessi formandoci i battaglioni più grossi; e’ sono i popoli che non ti vogliono licenziare, sicchè a noi tocca legare l’asino dove vuole il padrone, fingendo che tu stai con l’uno o con l’altro: ora, che ci rimetti a lasciarti invocare da tutti e due? Sta’ di mezzo e piglia dalla mano destra e dalla mancina; intanto il cannone ti darà la pinta per insegnarti da qual parte hai da figurare di esserti buttata: che se frattanto tu ti uggissi a startene ajppillottata in casa o in chiesa, svagati a governare le sorti del giuoco del lotto.
Dov’è la mia critica bacchettona? E’ pare che se ne sia scappata da un pezzo: meglio così, che senza questa veste di fiasco fra le gambe, il racconto procederà più spedito.
La ferita fu giudicata mortale, ma il peggiore guaio, per opinione dei medici, veniva dalla perdita del sangue, per cui si dava come sfidata. Ora io non dirò che in onta alla scienza, bensì nonostante i responsi della scienza, la natura pigliò il sopravvento alla morte, ed Eponina dopo lunga infermità potè riaversi, non senza però lasciare offerte preziose alla rigida ara di lei. Non le usci più il pallore dal volto, onde se egli è pur vero che la sorella di Oreste desumesse il nome dalle guancie clore, da ora in poi avrebbe dovuto farsi chiamare Elettra; la voce le rimase limpida come innanzi e sovente anche gagliarda, ma però soggetta a questo inconveniente, che talora di un tratto le calava giù giù sempre splendida e poi di subito le si spengeva simile ad una lacrima del cielo, che noi volgarmente chiamiamo stella cadente. — Più grave danno di questo, il suo cuore sembrava ad ogni minuto sostasse alquanto come per ripigliare lena nello esercizio delle sue funzioni di sistole e di diastole. Ristabilita in salute a questa maniera, dopo lunghe esitanze si dispose trasferirsi a Milano, dove sua prima cura fu di cercare la vecchia raccoglitrice della sua diletta Natalizia...
Ma, ahimè! Tn sai, lettore, come la scadenza ordinaria delle cambiali sia a novanta giorni e quella della vita a sessanta anni. Ora la morte, che insomma è il creditore puntuale per eccellenza, si era presentata alla vecchia, molto più che il termine era scaduto da un pezzo, e ne aveva riscossa la vita.
Sembra che ad Eponina non dovesse parere vero immergersi nel seno della famiglia, e quivi attingere l’oblio dei mali sofferti; tutto iuduceva a crederlo, eppure questo non fece.
O perchè non lo fece? Lettore discreto e prudente; io te l’ho pur detto: per penetrare nel cuore umano e dimostrarti i suoi infiniti misteri, mi farebbe bisogno che Arianna sempreviva dipanasse eternamente gomitoli per me; ed io calcolo ch’ella deva essere morta da tremila anni e più.
Se avessi a dire la mia, forse ad Eponina rincrebbe aversi a mostrare in cotesto arnese; ella immaginava un dì tornarsene a casa sfolgorante di bellezza e di gloria: copiosa di tutti i beni che sono dai mortali maggiormente invidiati, voleva rientrare in casa sua come uno imperatore trionfante in Campidoglio, ed ora ella si considerava ridotta quasi al verde d’ogni cosa. Seppe la sua famiglia stiantata dalla sventura, ed ella repugnò con la sua presenza crescerle il fascio dei dolori; colà si piangeva per troppi e pur troppo; le parve debito non partecipare a cotesto lacrime, bensì sollevarle, e questo giudicò potersi eseguire da lei molto meglio rimanendo sconosciuta e fuori di casa: temeva eziandio i rimproveri come colei che sentiva averne piuttosto a farne che a riceverne, ma dall’uno e dall’altro lato, ella rifuggiva del pari: — ne forse questo solo da lei si mulinava nella mente, ma io non lo so e lascio ricercarlo a chi legge.
Pertanto ella andò a Torino, dove datasi segretamente a conoscere a certi suoi fìdatissimi amici, quelli pregò a procurarle a patti vantaggiosi un teatro dove cantare. Iniziate le pratiche lo impresario la udì e gli piacque; fa stipulato il contratto e stabilito il compenso; certo per arrivare a quello russo, ci era che ire, ma anche in Italia un cantante si paga più di dieci Galilei. Eponina sarebbe andata in iscena con la Straniera: quindi ella senza perdita di tempo si mise a studiare cotesta partitura con l’ansietà del marinaio che, sopraggiunto dall’uragano, gitta in mare l’ancora della speranza, però che una voce interna le andasse sussurrando ch’ella si sarebbe salvata o perduta con lei; quanto l’arte può suggerire di più arguto si adoperò da essa per incastrare la sua voce fra nota e nota e far comparire magistero la velatura dei tuoni, odiata sequela della infermità; breve, esultò nella fiducia di essere giunta a raccogliere i raggi sparsi dell’antica sua gloria.
Però gli studi della musica non la occuparono soli in cotesto scorcio della sua vita, bensì attese a vendere con reputazione quanto l’era rimasto di gioie, parte rinvestendo in rendita pubblica a benefizio della sua orfana e parte mandando in sollievo della famiglia.
La sua voce operò i consueti portenti; il pubblico si sentì come travolto in un vortice di piacere; Eponina riconobbe il genio tornare a batterle con le ale le tempie ed inondarle col suo fuoco le arterie. Ormai dimentica di ogni passato affanno, fidando pienamente sopra la sua salute, volle per la sera veniente cimentarsi da capo alla prova.
Ma nella sera successiva la voce a un tratto le si ecclissò; ogni sforzo fu vano; le si strinse la gola, mentre il cuore con tremendi palpiti le sobbalzava. In capo a due giorni di riposo le parve esserle tornata la voce più gagliarda che mai; e poichè la strana intermittenza, invece di scemarle, le aveva aumentata la popolarità, non è da dirsi se lo impresario udisse con esultanza, che ella si disponeva per cantare in cotesta sera: così, per non parere importuno la confortò ad aversi riguardo, ma si guardò da insistere troppo.
I cedoloni.... ho sbagliato; i cedoloni si costumano dalla Curia romana per le scomuniche; per gli annunzi teatrali si usano i cartelloni; i cartelloni dunque avvisavano su tutti i muri per la veniente sera la Straniera cantata dalla celebre prima donna; la città ne andò in visibilio; si facevano i capannelli intorno ai manifesti; figurarsi se la calca la sera fosse grande al teatro! Ognuno si riprometteva che in cotesta sera il sole non si sarebbe ecclissato; e così pure Eponina, la quale, a guisa del guerriero che innanzi di avventurarsi nella mischia prova la spada, scivolando con celeri gorgheggi la scala dei tuoni dal grave allo acuto e viceversa, conobbe potere starsi sicura della sua voce.
Piena e stipata la sala, sicchè se fosse piovuto panico, proprio un chicco non sarebbe cascato per terra; così profondo il silenzio che tu avresti udito anco lo zufolio della zanzara, ma zanzare non ci erano; ci erano spie.
Divina l’onda sonora sgorgò dalle labbra di Eponina, e potente come nei giorni migliori a dominare sull’anima degli ascoltanti; a seconda del genio e del temperamento degli individui convenuti costà, all’uno pareva un balenio di luce, all’altro un brulichio che gli ricercasse le interne viscere; a questo parve voluttà del primo bacio d’amore, a quello dolcezza di lacrima piovutagli sopra la mano dal beneficato; un ghiotto affermò preferire la voce di Eponìna al risotto coi tartufi, il bevone a un fiasco di barbèra! fino un avaro si attentò dire che lo scudo del biglietto quasi quasi gli pareva bene speso; breve: dappertutto festa solenne, pasqua fiorita.
Ad Eponina poi sembrava che Mercurio le avesse fatto omaggio dei suoi talari; anche un po’, e si sarebbe creduta capace di volare; più lucidi vedeva scintillare i lumi nelle lampade, più sonore sprizzare le note dagli strumenti; volgendo attorno gli occhi nell’ebbrezza della sua gloria, le accadde posarli sopra una, piuttostochè donna, statua di porcellana, bianca, lustra, con certe gote dove in vece di sfumatura d’incarnato avevano impastato due toppe colore amaranto: gli occhi neri, tondi e fissi pari a quelli del gallinaccio, stupidissimo fra tutti gli animali; ella ne provò ribrezzo come alla vista di figura di cera che ritragga troppo naturalmente la umana sembianza, imperciocchè la vita simulata induca maggior paura della morte vera; torse lo sguardo, ma subito dopo si sentì attirata a riguardarla, ed avvertendo meglio le parve vedere, e vide certo, la faccia severa della contessa Anafesti; e quindi non fu dato di dubitare che il gentiluomo vólto con le spalle al palcoscenico avesse ad essere Ludovico; di vero, quasi subito questi, atteggiandosi di profilo con gli occhi armati di cannocchiale, si mise a perquisire l’olimpo teatrale in cerca di costellazioni femminine: astri e Galileo, gli uni convenienti all’altro.
Notò Eponina cotesto atto ch’ebbe virtù di rimescolarla da capo alle piante, perchè non poteva mettere in forse che egli l’avesse riconosciuta, e le sembrava, anzi era certa, che Ludovico intendesse palesare a quel modo la sua piena indifferenza, o piuttosto il suo disprezzo per lei.
Il disprezzo!
Agli spiriti alteri può non rincrescere di cadere come i figliuoli di Niobe sotto gli strali dei figliuoli di Latona, ma rimanere uccisi pel morso di un granchio nel calcagno, secondochè avvenne al gigante Morgante, oh! gli è provare la morte due volte. Allora divampò nell’anima di Eponina la brama, la smania, il delirio, l’agonia (e se tu sai parola che valga a chiarire più espressa la sconfinata volontà umana, e tu la metti) di rinnovare la sua vendetta. Già erano presso al finire dell’opera, e alla Eponina rimaneva cantare la tremenda scena della Straniera, la quale ode da lontano l’inno del sacro rito che unisce in matrimonio il proprio sposo con la rivale; ella raccolse quanto più potè di vita da tutto il suo essere, e con tuono di voce che commosse dal profondo le viscere di quanti l’ascoltarono, incominciò a cantare:
Or sei pago, ciel tremendo, |
Suo intento fu radunare un nembo di applausi e di fiori, e gli uni e gli altri sospingere contro la pallida ed ormai trista anima del novello diplomatico, e soffocarcelo sotto: supplizio usitato a Sibari.
Maraviglia immensa eccitò cotesto canto, imperciocchè la musica non avesse mai palesato la passione umana in modo così disperatamente verace; la disperazione armonizzata, balenava simile al fuoco che guizza fuori della nuvola in procinto di rovesciare sulla terra una procella di folgori; però insieme a maraviglia, la gente si sentiva compresa da paura: qualche cosa di sinistro temeva avesse a tener dietro a cotesti sforzi, i quali, superando ogni termine del naturale, ritraevano del portentoso.
Quando Eponina cessò il canto, la gente sbigottita tacque irrequieta; così, stando sopra l’estremo lido del mare, vediamo da lontano comporsi il volume del cavallone, che irromperà poi ad allagare la spiaggia: all’ultimo, gittati giù gli argini, i plausi e le grida mandarono sottosopra ogni cosa. Se in quel punto i corvi avessero volato traverso il teatro, sarebbero caduti in platea, siccome avvenne nello stadio di Corinto quando il banditore pubblicò Nerone avere donato la libertà alla Grecia. O libertà, di quante generazioni tu hai da essere, se anco un Nerone potè vantarsi sbraciatore di libertà ai popoli; però io ho raccomandato, fino a perderne la voce, al popolo di squadrare bene la libertà che presumono donare i principi, innanzi di esultarne. Che diavolo! Se avete a comprare un mazzo di tordi, voi soffiate loro sotto il codone per mirare se sieno freschi; e tu, popolo, non adopererai medesimamente con la libertà che ti cucinano i principi?
La plebe nella foga feroce del suo entusiasmo intende e vuole essere divertita una seconda volta. Da capo!» urla con grida sgangherate: «Replica! replica!» Ed alle grida aggiunge strepito di palme e picchi di bastone e zampate sul pavimento, donde si levano nuvoli di polvere.
Ma Eponina non ne poteva proprio più; in tutto il suo essere sentiva avvicinarsi qualche grave trasformazione; le tintinnavano le orecchie; miriadi di faville le carolavano dinanzi agli occhi; o la terra o le gambe le mancavano sotto; a balzelloni si accostò alle quinte dove balbettò una preghiera all’impresario che la scusasse presso il pubblico: assolutamente non poteva.
L’impresario comparve sul proscenio, e con la sua voce dal dì delle feste espose lo stato di salute della simpatica prima donna, e supplicò il rispettabile pubblico per lei, ed anche per se, affinchè egli si degnasse dispensarla dalla ripetizione.
No! .. da capo!... no!... replica!... scuse magre! — e qui un turbine di picchi e di urli da subissare il teatro: per giunta qualche fischio. Perchè mai pretende il gladiatore ferito sottrarsi alla morte? Gua’! Se l’agonia è il punto più divertente della rappresentanza! Il popolo per ora non se la sente di abbassare il pollice, e le vestali molto meno, che amore e ferocia quanto trovano più delicati gli stami a cui si appigliano, maggiormente divampano.
Non ci ha rimedio; bisogna cantare.
Eponina dal fondo della sua stanzuccia udì il rigido impero del popolo come una sentenza di morte; lo istinto di donna la spinse a guardarsi allo specchio e si vide pallida come uno spettro; sospettando mettere paura, tuffò il cotone nel belletto e si tinse fino agli occhi: così concia si avvia risoluta verso il palco scenico, — e ride.
Appena comparisce sulla scena, ecco scatenarsi un uragano vero di applausi; un diluvio di fiori; ella si accosta al proscenio, lì presso ai lumi, e si accinge a sciogliere la voce, ma lo tenta invano, una tanaglia le stringe la gola: raggrinza le dita dei piedi e delle mani, raccogliendo in supremo ed ineffabile conato, e tenta di nuovo. Le fauci le si sturano, sì, ma non per dare adito al canto, sibbene ad un profluvio bollente di sangue che le trabocca dai labbri e dalle narici. Una immensa luce abbarbagliò Eponina, seguita immediatamente da una immensa tenebra; mosse precipite due o tre passi in avanti, le braccia stende, e con le mani annaspa come il naufrago presso all’ultimo tuffo, poi giù di sfascio, ammaccandosi in molto pietosa maniera la fronte e il naso.
Accorrono a sollevarla.
Eponina tiene gli occhi spalancati e fissi, come vetro lucidi; la faccia e il seno tutti sordidi di sangue, la bocca tonda; i muscoli dello intero suo corpo, massime quelli della faccia, contratti così, che bene appariva la morte tenerle gli artigli fìtti nel capo come uccello di rapina.
Il mare della platea si rimugina daccapo in burrasca; confusi s’intrecciano i gridi: — È svenuta! è morta! Che morta! La ragia si conosce lontano un miglio; non vuol cantare...
Dai palchi vedonsi spenzolare dove tre e dove quattro donne, abbracciate insieme come le api quando fanno i grappoli; gli uomini anch’essi smaniosi di chiarirsi, s’industriano a farsi largo per vedere, ma le donne, api stizzite, li cacciano addietro a mo’ di fuchi; invece di pungiglioni, gomitate da rompere le costole.
Non è l’amore solo a regnare sopra le donne; se ne divide lo impero con la curiosità.
In platea la gente sembra presa da febbre infiammatoria per la smania di sapere come la cosa stia: ci fa chi saltò in piedi sopra la panca, e dalla panca sopra la spalliera, tentando sostenercisi in bilico, ma di un tratto perduto l’equilibrio ruina addosso ai seduti davanti, con istrazio di cappelli e contorsioni di colli; gli offesi si drizzano su come aspidi e barattano le percosse con una manomessa nuova di pugni, punzoni, sergozzoni e susorni, che in men che non dico mi ridussero quel povero diavolo a tale da parere un ecce homo; un altro gravaccione, mentre affrettandosi per levarsi su cerca un punto di appoggio, gli accade di posare la mano spanta sul cocuzzolo di un cappello, il quale calca di punto in bianco giù fino al mento al suo possessore, che, riuscito dopo molta fatica a tirarselo su dal viso, rosso di collera bestemmia da disgradarne un turco. Il vicino flemmatico, autore del danno, con voce soave gli dice: Scusi! io non l’ho fatto a posta; — e l’altro quasi fuori di se con labbra tremanti: Ringrazia Dio che il codice penale non si occupa di ingozzature, che altrimenti ti manderei diritto in galera come un cero pasquale.
Costui era uno dei vecchi procuratori del re presso il tribunale correzionale di Milano, adesso posto da parte come una manetta arrugginita: marmeggia pensionata, ei si rodeva a Torino la paga.
Più audace di tutti un gobbino; costui aveva davanti a se una maniera di mastodonte umano; al povero gobbo pareva proprio essere Giuseppe Ebreo nella cisterna vuota: ricercando qualche partito per venire a galla ancli’egli, non rinvenne meglio di questo: aiutandosi colla testata di una panca si arrampica sulle spallaccie del gigante e quivi si appollaia: pareva una scimmia sulla groppa ad un cammello; ne rise prima uno, poi dieci, cento, tutto il teatro all’improvviso rimbomba di altissimi scoppi di risa.
Intanto l’impresario esce da capo di scancio fuori delle quinte, e fatto arco della persona, apre le braccia a mo’ del prete quando compartisce ai devoti il domine vobiscum, e così saluta il pubblico per la prima volta; quindi, mutati alquanti nuovi passi sempre a schisa, replica nel medesimo modo il secondo saluto, per ultimo il terzo proprio sulla buca del rammentatore.
— Zitto! Silenzio! L’impresario sta per parlare.
— Impossibile!
— Signori! incomincia l’impresario, industriandosi a mettere nella voce un po’ di pianto.
— Perchè impossibile? In Giudea parlarono gli asini.
— Chiedo scusa: era un asino.
— In Roma, prima della seconda guerra punica parlarono i bovi.
— E in Italia i deputati; dunque perchè non può parlare un impresario.
— Signori! Signori! ripete lo imperturbabile impresario, mi reco a debito notiziare il rispettabile pubblico, come alla nostra simpatica prima donna sia sopraggiunto un caso... un caso il quale, secondo i casi, potrebbe... sicuro... potrebbe riuscirle funesto... la simpatica prima donna è desolata, ed io con lei, non potere appagare i vostri desiderii più che legittimi: essendo pertanto rimasto mozzo lo spettacolo, io, salva sempre l’approvazione del rispettabile pubblico, proporrei completarlo col secondo atto del Don Bucefalo.
— Sì, sì. Don Bucefalo, tanto per annacquare la malinconia... Don Bucefalo... Don Bucefalo, e qui battute di mani e picchi da sfondare il soffitto.
Quando si fu alcun poco quieto l’osceno strepito, una voce di dolore, scesa dall’alto, investi tutta la sala e domandò:
— Ma finalmente che accadde alla prima donna?
A cui una voce non meno lugubre rispose da basso.
— È morta.
Un silenzio spaventevole subentrò allo schiamazzo: il teatro parve diventato un camposanto: ognuno sentì agghiacciarsi il cuore: prima a varsi fa la contessa Anafesti madre; dietro a lei le altre signore tutte; dopo loro gli uomini, taciturni e mesti come se tornassero da UN mortorio. Solo Ludovico, nel ripulire le lenti del cannocchiale per rimetterlo nella busta, esclamò:
— Povera creatura! Poteva fare una fine migliore ..
Spensero subito tutti i lumi; i morti non hanno bisogno di vederci; e poi la economia sta sempre bene. Alzarono il sipario e il teatro parve la bocca del regno delle tenebre, di facile ingresso e di regresso disperato; lavarono il pavimento, e raccolta l’acqua sanguinosa con spugne da cavalli la travasarono dentro un bugliolo... Eponina così come appariva tutta sordida di sangue distesero sopra una scala messa per traverso sulla spalliera di due seggiole. Chi di qua chi di là dal teatro erano spulezzati tutti, soli rimasero i coristi, così uomini come donne, e le comparse e l’orfana Natalizia, la quale genuflessa ai piedi della sua signora, col capo nascosto entro le mani piangeva e pregava.
Di un tratto colui che imponeva il coro, o vogliam dire maestro dei coristi, uomo atticciato, uso a cantare versi all’improvviso, e più a bevere fiaschi di vino, facile al pianto, facile al riso, tenerone, buffone, salito su di un trespolo prese a favellare così:
— Signori e signore, per dire come dice il CAPITOLO XIII. 307
rendo nostro impresario quando non ha quattrini per pagarci il quartale, questa egregia donna è morta; ma ella è morta da eroe artista sullo intavolato del teatro, come l’eroe guerriero muore sul campo di battaglia; questi spira l’anima in mezzo al fracasso dei moschetti e dei cannoni; ella in mezzo all’armonia dei violini, dei violoncelli e di tutti gl’istrumenti dell’orchestra; l’uno si avvolge nel cadere nel mantello della sua gloria, l’altra si avviluppò nel manto della Straniera. A noi spetta ornarla di fiori, a noi inghirlandarla di lauri, che troppo bene si meritò, a noi sermonarla con la orazione funebre, a noi inalzarle un monumento, certo modesto, perchè sarà di pane convertito in marmo: i poveri, si sa, di altro non sono ricchi che di cuore, e di appetito. Intanto, per cominciare, ognuno di voi canterà un a solo2 sopra il suo corpo, o inventandolo di pianta, ovvero ripetendone alcuni di quelli che ha tenuto a mente: quello che viene viene; a sfogo del cuore; adesso copritela di fiori, coronatela di alloro, che io incomincerò:
L'angioletta che canta da soprana |
Su voi altri, che state lì a gingillare: ripetete in coro l’ultimo verso per ritornello; e i coristi avendolo fatto, costui li lodò dicendo: — Bravi! Da pari vostro, da voi non ci era da sperare di più. — Attenti, continuo:
Il mastro di cappella |
Su, a voi: Non sapea il grullo che pesci pigliare... Bene. Vi trovereste a caso un sorso di vino da bagnarmi la gola? No? Ve lo siete bevuto tutto; bravi patriotti! Come si ama il tradimento e si odia il traditore, così mi sarei asciugato il vino, ma avrei detestato, aborrito, calpestato l’infame che invece di berselo lo avesse messo da parte per me. Ripiglio il canto:
Quando arriva nei cieli un'angiolina |
E il coro ripetè il ritornello:
E la morte lo vada a consegnare.
Il buffone riprese:
La morte venne giù per l'ambasciata |
— Fa strabiliare, ecc. Ora attenti al comiato:
Che se talun di voi cotanto ardisca |
I coristi usi ad obbedire il maestro avevano accompagnato la monodia, ma, bisogna confessarlo, a contraggenio, perocchè non sapessero distinguere s’egli celiasse, o facesse davvero, e questo molestamente sopportassero; allora si levò su Natalizia, la quale, posta la sua mano sul braccio del maestro, in questo modo gli favellò:
— Agatone, senti; la tua mente ed il tuo cuore erano nati per far casa insieme; ma non ci pensarono mai, ed ora è troppo tardi; i tuoi occhi sono gonfi di lagrime e la tua bocca canta in chiave di baccanale. Taci, che Dio ti perdoni e ti conceda la grazia che stilla di acqua, senza il tuo consenso, non ti caschi mai nel vino. Voi altri, fratelli e sorelle mie, alunni dell’armonia, non vi state ad affaticare lo spirito cercando inni funebri; le ore dell’angoscia non sono quelle che accompagnano il carro alla fantasia. Noi tutti conosciamo un canto dove le parole occorrono sublimi ed i nunieri divini; inginocchiamoci intorno alla defunta, e con le labbra, e più col cuore, cantiamo la preghiera del Moisè: io vi dico in verità che ne esulteranno quanti sono beati in paradiso, e con essi questa cara infelice, la quale così acerbamente si è partita da noi.
— Sì, facciamo a questa maniera; Dio ha parlato per la bocca della fanciallina.
Intuonarono la preghiera: Dal tuo stellato soglio, e con tale una effusione di tenerezza che terminò col pianto universale: pianto senza mistura di amaro, pianto che ricava la sua scaturigine da più alta fonte che non è il cuore umano, e che consola tanto quello che lo versa, quanto quello per cui è versato.
Ma pianto e riso, e affanno e gioia si dileguano nel mondo a modo che fa l’eco. I cantori mano a mano lasciarono il teatro; sul palco scenico rimasero una candela di sego, che mandava tanta luce quanta bastava a rendere le tenebre visibili, una guardia di pubblica sicurezza intesa a passeggiare, a masticare tabacco ed a schizzare la saliva più lontano che poteva, la morta sempre stesa sulla scala, e l’orfana di nuovo genuflessa ai piedi della defunta per pregare.
Indi a breve comparve l’assessore di polizia con alcuni uomini a cui ordinava trasportassero il cadavere nella stanza mortuaria, così come stava sopra la scala, coprendolo con uno straccio qualunque. Appena egli ebbe profferite queste parole che una larva uscita di sotto terra, mostrando la faccia più bianca del marmo, stridè:
— Nessuno la tocchi... è mia.
— Chi è vostra? riprese l’assessore, il quale senza volerlo sentì corrersi freddo nelle ossa.
— Questa morta.
— E voi chi siete?
— Io? Sono sua madre.
— Madre.... e che volete?
— La voglio accompagnare, la voglio vegliare, la voglio....
— Va tutto bene; ma, donna mia, ora capite che non si può tenere sul palco scenico; quindi occorre farla trasferire nella stanza mortuaria.
— Sopra la scala? Coperta da uno straccio purchessia?
L’assessore mortificato, si affrettò a rispondere:
— Oh! no: qualcheduno vada all’ospedale per un cataletto; ci riporrete dentro la morta e la por-i terete alla stanza mortuaria; se questa donna insisterà a vegliarla, non glielo vieterete; allora lasciatele una lanterna e serratecela dentro.
Ciò detto, premuroso di mettere fine a cotesta scena disgustevole, se la svignò.
Ora vuoisi sapere come la misera madre accovacciata su nella piccionaia fosse stata presente a tutto; da lei mosse la domanda piovuta dall’alto intorno alla qualità dell’accidente occorso alla Eponina, come la funesta risposta si era dipartita dall’orfana. Ella si precipitò senza indugio per le scale, ma, rinvenuta la porta del teatro, che metteva al palco scenico, chiusa, si pose li ritta ad aspettare. Quando i coristi uscirono e l’assessore entrò, ella, côlto il destro, gli si cacciò dietro inosservata. Adesso sovvenuta dalle guardie trasse giù il caro corpo dalla turpe scala, ed ella assettatasi in terra se lo fece deporre nel grembo. La guardò, e: — Avessi un po’ di acqua! — bisbigliò sommessa. E subito le venne portata l’acqua; gliela porgeva Natalizia. Trattasi il fazzoletto di tasca lo intrise nell’acqua e prese a lavarle diligentemente la faccia. — Ah! non basta.... susurrò da capo, e non aveva anche finito le parole che si rinvenne un altro pannolino in mano: ella lo prese senza considerare da chi le venisse: viva soltanto nel rendere gli ultimi uffici alla morta; poi le ravviò i capelli, glieli sparti sulla fronte, glieli compose con arte; all’ultimo le sollevò il capo e si mise a contemplarla per lunga ora senza gemito, senza pianto; guardatala e riguardatala un pezzo, a denti stretti mormorò:
— Ben ti ritrovo, Eponina, ma quanto diversa da quella che mi uscisti di casa!
L’orfana abbracciava sempre i piedi della sua signora, ed Isabella non l’aveva ancora avvertita.
Venne la bara, ci adagiarono il cadavere della meschina; la madre dietro; l’orfana, senza che alcuno ci badasse, si mise sotto la bara, ed in questo modo potè entrare anche essa nella stanza mortuaria, e rimanerci anche quando furono partite le guardie.
— Oh! adesso che mi trovo sola con lei, guardiamocela un po’ senza soggezione.
E tolta in mano la lanterna, scoperse la bara e l’infelicissima madre esaminò sottilmente a parte a parte il cadavere. Rinnuovato quattro volte o sei l’esame angoscioso, depose la lanterna nel cataletto, ed ella assettatasi in terra sospirò:
— Non ci ha caso, è morta.
Si abbracciò le ginocchia, sopra esse appoggiò la faccia e non profferì più parola.
Alla domane, quando un poco di luce si fu messa nella funebre stanza, avendo levata la faccia, i suoi sguardi vennero a posarsi sopra Natalizia: non parve ne sentisse maraviglia, o paura; se non che l’eccesso dell’ambascia e il digiuno prolungato incominciavano a farla vagellare; le prime parole che disse sonarono delirio:
— Donde vieni, fanciulla? Chi ti manda? Se dalla parte di Eponina, parla presto, onde io possa contentare la povera figliuola.
— Vengo da me, signora Isabella; io sono una povera orfana che la sua figliuola raccolse, col suo pane nudrì, col suo spirito educò: la sventura, ecco, adesso l’ha schiantata; ella, senza volerlo, mi ha abbandonata, ma io non voglio abbandonare lei; quando la metteranno in terra, io supplicherò che mi seppelliscano nella medesima fossa e mi esaudiranno.
— Ah! soggiunse Isabella, anche morendo, o mia Eponina, tu hai pensato a me, porgendomi dalla bara un fiore.... ben venuto, o fiore di consolazione, io ti poserò sul seno che ti allattò, o figliuola; dimmi, vuoi stare con me? Non mi lasciare desolata e sola. L’amore che porto ad Eponina può bastare anco a te, senza che ei ne rimanga menomato.
Natalizia allora, cingendo alla madre di Eponina col diritto braccio il collo, disse:
— Sì; io ti starò al fianco, e quando piangerai, io piangerò con te.
Allora Isabella senti squagliarsi il cuore, che fino a quel momento le aveva oppresso il petto; e strinto con ambe le mani il capo alla fanciullina, pianse, e la fanciulla con lei; e piansero tanto e tanto, che elleno stesse si maravigliarono come sì grande copia di lacrime potesse versarsi da occhi mortali.
Si apre la stanza mortuaria e vi penetrano parecchi, di cui uno che pareva essere il sopracciò, appressatosi alla signora Isabella, prese a favellarle di questo tenore:
— Che recapito si ha da dare a questo corpo?
— Io vorrei trasportare questa mia figliuola a Milano per seppellirla allato ai suoi parenti.
— Ciò va d’incanto, ma quando ha da essere così, non ci è da perder teinpo, perchè in primis conviene ricorrere alla autorità governativa per la debita licenza; poi è mestieri mettersi in regola con l’autorità amministrativa circa la tassa da pagarsi pel trasporto del cadavere; inoltre bisogna intendercela con l’autorità sanitaria per condizionarlo a dovere nelle casse di uso, delle quali due di legno ed una di zinco; per ultimo occorre pigliare appuntamento con l’autorità delle strade ferrate, la quale, come vedrete, non vorrà assumere l’incarico di trasportarlo se non di notte col treno merci; sicchè voi potete da per voi stessa comprendere che per fare tutte queste cose presto e bene, ci vogliono gente e quattrini.
Isabella senti stringersi il cuore, perchè, venuta via in fretta da Milano, poca moneta aveva portato seco, e quando pure se ne fosse partita ad agio, dove procurarsene maggiore non avrebbe saputo; però che la sventura si era compiaciuta di ridurre al verde cotesta povera famiglia di ogni sostanza, come in breve mi toccherà a raccontare; mentre Isabella percossa da nuovo dolore abbassa gli occhi, si vede in dito il magnifico solitario, dono dello zio Orazio, di sempre cara ed onorata memoria; riprese animo nella certezza di far quattrini, onde levò la faccia dicendo con garbo signorile al sopracciò:
— Voi intendete, signore, come l’affanno che mi travaglia mi renda inetta a questi uffici; siatemi cortese di compirli per me; intanto vado a procacciarmi la moneta necessaria; — ma di un’altra cosa io vi vorrei pregare, ed è che pigliaste in custodia questa ragazzina fintanto che io non ritorni.
— Vada, signora mia, e viva tranquilla che la lascia in buone mani; la condurrò in casa al parroco...
— Parroco! Preti!.... Oh! no.... via preti.... voi non sapete che cosa siano i preti.... vien qua, fanciulla mia; — ed in così dire la Isabella tremava a verga.
— La non si rimescoli, signora.... oh! capisco anch’io.... ma, sa, succede fra i preti come a quei di Lucca, ce n’è dei buoni e dei cattivi....
Isabella agguanta il sopracciò pel petto, strabuzzando gli occhi, e gli domanda:
— Sei forse prete?
— No, signora.... in coscienza, no.... no davvero davvero.
— Se non prete, qualche cosa che appartenga a prete?
— Quanto a questo, io non posso negare, fui cuoco nel convento dei reverendi padri barnabiti.
— Va’ all’inferno donde prima sei venuto.
Ed Isabella lo scaraventò lontano da se. Il sopracciò, riaggiustandosi le vesti sgualcite, pauroso di perdere il guadagno, che ormai si faceva sicuro, umilmente favellava:
— Per avere dato a mangiare ai lupi, o che si diventa lupi? Si lasci servire.... e mi dirà se si sarà trovata contenta. Quanto alla signorina....
Natalizia, che da prima distratta non aveva posto mente al dialogo, adesso fattane accorta prese pel braccio Isabella e trattala a parte, le disse:
— Di che temi? Ormai ne ho viste tante, che nulla mi fa più specie, e quanto a violenza che mi volessero usare, vedi.... (e qui cavò fuori il pugnale che estrasse dal collo di Eponina) io saprei difendermi. — Lasciami qui; ci sto bene; e a separarmi da lei — e additò la bara — tu mi recheresti dolore.
— Orsù, disse allora Isabella, voi andate a fare l’ufficio promesso. Natalizia rimane a custodire la mia figliuola.
— Eccovi qui un diamante di molto valore, e a me carissimo; fortuna vuole che io lo abbia a vendere; mi hanno detto che siete un galantuomo e che vi contentate dell’onesto: datemi quello che mi potete dare e fate presto.
Così parlò la signora Isabella, entrata in bottega a certo orafo dei principali di Torino, mettendogli in mano l’anello che si cavò dal dito.
L’orafo, poco uso a codesti modi rotti, guardò la donna e le parve, come pur troppo era, una figura strana, poi guardò la gemma, riguardò lei, e diede in uno scoppio di riso; all’ultimo disse:
— Credeva possedere una faccia sola, ma sembra che stamane taluno mi abbia prestato la faccia di scimunito.... e sarà coljpa la barba lunga. Per chi mi avete preso, tocco di cialtrona? sta’ a vedere che io non sappia più. distinguere i diamanti dai culi di bicchiere? Via di bottega.... imbrogliona.... e ringrazia Dio che non ti denunzio alla questura.
La Isabella, comecchè si sentisse abbattuta dal prepotente infortunio, pure non era femmina da succhiarsi in pace cotesta carta d’ingiurie; quindi replicò risentita:
— Voi siete screanzato, e a quanto sembra imperito della vostra professione: buon per voi che altri pensieri mi turbano; altrimenti ve la darei bene io la questura.
Al gioielliere parendo essere soverchiato a torto, perfidiava più riottoso che mai, e con voce incollerita ingiuriava la povera Isabella che stava per averne il danno e lo strazio.
In questa venne a passare la carrozza del conte Anafesti dove si trovavano la contessa madre col figliuolo Ludovico. Avendo ambedue scorto il capannello della gente adunata intorno alla bottega dell’orafo, e questo con gesti concitati minacciare Isabella, si avvidero che la doveva essere incappata in qualche pelago, donde non carità o gentilezza, ma obbligo espresso correva loro di liberarla; e ciò la contessa propose subito al figlio, ma Ludovico con mirabile sussiego le disse:
— Signora madre, io giudicherei lesivo al mio decoro prendere parte a simili trivialità; molto più adesso che sono avvisato sua eccellenza il Ministro degli esteri avermi spedito il diploma di grande ufficiale della Corona d’Italia.
La contessa lo guardò di sbieco, ed altro non gli rispose:
— Tu hai ragione.
Ordinato quindi al cocchiere che fermasse, scese, e in un momento fu nella bottega dell’orafo, il quale vista una signorona uscire da una carrozzona le fece una sberrettata famosa, curvandosi innanzi a lei come una fetta di popone; ma ella, senza curarsi di coteste cerimonie, prese a rimproverarlo così:
— Ch’è questo, signor mio, e perchè e come vi attentate a straziare questa onorata gentildonna, mia pregiatissima amica?
E quegli le narrò umilmente la storia, ed Isabella la confermava j)er vera, aggiungendo il fallo del mercante stare in questo, che supponendola capace di volerlo giuntare le aveva detto villania, senza considerare ch’era impossibile prendere lui esperto a cotesta frode manifesta, mentre, se avesse avuto punto di discrezione, doveva facilmente immaginare lei imperita vittima di qualche truffa.
E poichè la contessa chiese ad Isabella da cui tenesse l’anello, questa avendoglielo detto, soggiunse:
— Ed ora lascio considerare a lei signora, s’egli è possibile che un uomo qual fu lo zio Orazio Onesti volesse donarmi un diamante falso?
Il mercante, udendo ricordare il nome di Orazio, vera gloria del paese, non solo per altezza d’ingegno, bensì j)ei* eccellenza di costumi, si faceva piccino piccino, e se lo avesse potuto si saria rimpiattato nella cantera del suo banco. Intanto la contessa ripiglia:
— No certo; ma come mai può essere avvenuto questo? Che il gioielliere sbagli non è da supporsi, e poi... (e qui diede uno sguardo all’anello, come persona usa a praticare con gemme) la differenza si conosce in un battere di occhio.
Questo discorso insomma portava a significare: mira, plebea! a me non l’avrebbero ficcata; ma la povera Isabella aveva ben altro in mente che badare a cotesta trafìtta. Sventura è bene di certi animali domestici, fra cui capitali i nobili, di sgraffiare anche quando accarezzano.
Allora Isabella, essendosi risovvenuta della offerta fatta alla marchesa Rottan in compenso della restituzione della figliuola, e come le avesse anticipatamente consegnato l’anello, il quale, non avendo avuto effetto la restituzione, ella volle ad ogni patto restituirle, il gioielliere studioso di farsi perdonare il grosso granchio commesso, saltò su a dire:
— Gioco Torino per Busalla, che i gesuiti, avendone avuto il tempo, hanno grancito il diamante buono sostituendo il falso. Gli è chiaro come l’acqua che al furto alla forchetta, all’americana, al tesoro, insomma alla moltiplice famiglia dei furti, adesso dovremo aggiungere il furto alla Compagnia di Gesù. Signora, creda che mi sento mortificato....
— Signora Isabella, la prego ad usarmi la gentilezza di accompagnarsi meco per alcun tratto di via, occorrendomi parteciparle alcun che che la riguarda.
— Ai suoi comandi, signora contessa; e le due donne uscirono dalla bottega senza darsi pensiero dell’orafo, il quale adesso si profondeva in servilissimi inchini, quanto da prima si era mostrato villano.
Poichè ebbero mutati alquanti passi in silenzio, la contessa soffermatasi allo improvviso così favellò;
— Signora Isabella, io la prego a volere ravvisare nelle parole che sto per dirle, il sentimento della profonda stima che nutrisco per lei. Dalla tentata vendita dell’anello, che a lei deve esser caro per tanti motivi, desumo ch’ella si versi in qualche angustia di danaro: mi permetterebbe il favore di potergliene offrire? La scongiuro a non rifiutarlo.... non mi dica di no.... non glie lo voglio mica regalare, sa? Lo pigli in prestito, me lo restituirà più tardi.
— Signora.... grazie di cuore... ma io non posso creare un debito, quando non sono sicura di poterlo estinguere.
— Di ciò non si prenda punto pensiero...
— Signora contessa, questo non mi consente la mia natura... manchevole come mi sento di ogni titolo alla sua benevolenza...
— Creda a me, signora Isabella, replica la contessa, tirata fuori dei limiti che si era prefissi dalla inopinata resistenza della madre di Eponina, ella ne ha forse più di quelli che non si potrebbe immaginare.
— Mi professo grata profondamente alla sua squisita cortesia; ma tanto è, non giunge a vincere la repugnanza di accettare danaro, che davvero non so come rendere.
Allora la contessa esitò, si fece in volto di fiamma, si calò il velo sugli occhi, e con voce bassa, e al punto stesso alterata, porgendo ad Isabella un piccolo portafogli sussurrò queste parole.
— Da dama onorata le giuro che questo danaro è suo.... che non monta neppure alla cinquantesima parte di quello che la infelice Eponina donò alla mia casa
E più non potè dire; strinse la mano ad Isabella e si allontanò, sentendosi incapace a sostenere più oltre la dura prova.
Certo la contessa Anafesti operando a cotesto modo compì il suo dovere, e non in tutto; pure, chi voglia considerare la superbia, infermità ordinaria dei nobili, e i pregiudizi della infelice loro educazione, dovrà convenire che cotesto sue parole furono veramente sublimi; almeno così parvero, per quanto ho sentito dire, al suo angelo custode, che cavatasi dall’ala una penna nuova, le scrisse con quella nel libro delle buone azioni della contessa per mostrarle poi, in punto di morte, come viatico di conforto allo eterno viaggio.
In questa guisa fu dato alla Isabella sopperire alla traslocazione delle reliquie della sua figliuola a Milano, dove la depose nel camposanto comune: non monumento, non lapide sopra la fossa di lei; distingueva le sue dalle ossa altrui una semplice tavoletta di marmo, dove si leggeva segnata una parola sola: «Dolor!»
Forse Isabella, mentre segnò questa parola, intese gareggiare con colei che i cattolici salutarono col nome di madonna dei sette dolori; o piuttosto adoperò così nel presagio di nuove tribolazioni. Chi sa? La sventura è tale un tarlo, che rode sempre, finchè trova fibra sana; e alle cose indicate nella Scrittura, che non dicono mai basta, aggiungi l’avversità. — E quanto all’orgoglio, egli si accompagna con tatto, anche colla estrema miseria.
Per dare ricapito finale ai personaggi che hanno recitato la loro parte nel presente capitolo, bisogna sapere come:
Il principe di Platow, quando prima n’ebbe balìa, si mise alla ricerca di Eponina, e la rinvenne... ma polvere. — Mosso dal pertinace affetto, volle portarne seco il cadavere in Russia, e non gli fa concesso; allora intese erigerle nel camposanto di Milano un monumento fastoso, e neppur questo ottenne
- chiese in grazia un frammento della marmetta posta sopra la sepoltura di lei, ed anco ciò gli fu negato:» allora per molta moneta largita al custode del cimitero ebbe un pugillo della terra che copriva l’amata donna, dentro un reliquario preziosissimo la ripose, e da cotesto giorno in poi egli costumò dire le sue orazioni dinanzi a quello. — E quando taluno lo interrogava sopra quella sua eterodossa devozione, egli soleva rispondere:
ma questa santa ho visto e conosciuto io.
Quanto amore sprecato indarno! Ma Dio manda le sacca a chi non ha grano: veramente questo proverbio non porge buona testimonianza della provvidenza divina; che volete ch’io ci faccia? Il proverbio dice così.
La povera Natalizia non potè sopravvivere alla sua signora; la distrusse il non consolabile affanno: ebbe sepoltura nella fossa allato di Eponina, e su la fossa anch’ella il suo pezzo di marmo col motto: «Dolor!»
O fiori di primavera nati appena, abbattuti dalla falce: veruno si accorse della vostra nascita come veruno della vostra morte, eccetto il pietoso che vi coprì di terra. Voi qui giacete polvere indistinta ma lassù in cielo. Dio, che chiama a nome la moltitudine immensa delle stelle, serberà (così giova sperare) ad ognuna di voi, povere anime, mente consapevole, e luce, ed affetti. Poesia! Poesia! mi urla nelle orecchie, da levarmi di sentimento, una femmina con le chiome scarduffate, cinta intorno alle tempie con le vipere di Medusa e i pampini della baccante. — Poesia! grida costei furiando insanita per terre e per castelli, come lo schiavo libero per un dì dalla catena pei lupercali a Roma. — Poesia! schiamazza agitando una fiaccola fumosa atta ad ardere, non già ad illuminare... Bene sta; ma che mi darai tu in compenso della perduta poesia? Forse la notizia che fra me e la terra che calpesto non corre divario? Che la mia mente è mota? Che il mio cuore va composto della medesima materia dello scarabeo, della cimicia, del lumbrico? Volete sollevare l’anima buttandola giù nel fango? Tolto all’uomo il senso della sua origine divina, persuasolo che tutto finisce in lui, la polvere avrà sentimenti di polvere.
Presunzione e invereconda temerarietà è sostenere che gli uomini sieno del tutto materia; ma supposto che fosse vero, a buon diritto sapiente fu giudicato quel filosofo della Grecia che disse: — Se avessi nel pugno tutte le verità dell’universo, mi guarderei di aprirlo, per timore che funestassero le generazioni degli uomini abbastanza infelici.