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capitolo xii. 215


me ne ritorneresti indietro per mancia? — Il barone ha risposto: parole sono piume: sabato non è, e la borsa non ci è. — Ed io — Certo il giorno che corre oggi è giovedì, ma la borsa io la tengo. Basta, tu taci; proporrò io. Contentati di cinquecento franchi. — Egli: — E poi voi dite: queste sono proposizioni da ebrei! Tu mi vuoi strangolare... e mi do facoltà di sopprimere il resto. — Barone, rammentati, che se io ti mettessi l’ossa in un sacco non ti darei il tuo avere; via, non mi far perdere tempo, e scrivimi la ricevuta. — Egli da capo: — Anzi, io non la scriverò; o perchè il conte vuol pagarmi? — Che so io? Gusti fradici; i negri non condiscono la insalata con l’assa fetida? — Non è così, ripicchiava costui; il conte pei suoi particolari interessi ha bisogno di una mia ricevuta. — Tu svagelli, barone, la tua ricevuta non sarebbe buona ad altro che a farti spalancare le porte della galera a vita, senza mandato di giudice: or su, piglia seicento franchi, e vattene. ~ I cavalieri, insisteva il barone, quando vogliono mantenere il loro punto, hanno da pagare a saldo e a danaro il debito del gioco. — Sicuro, quando è vinto, non già quando è rubato. — Breve, si è contentato di seicento franchi; però dai mille fiorini sono giusto avanzati 1000 franchi, i quali, detratti gli interessi fino al presente giorno, io le ho segnato a credito come rileverà dal suo conto qui annesso. Con altri 7 od