Storia di Torino (vol 2)/Libro III/Capo VI
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Capo Sesto
Palatina (le torri) lungo il muro della città, e così sulla linea del secondo cortile del palazzo vecchio; comprendendo per tal guisa case di varie forme ed altezze, varii cortili, orti e giardini.
Nel 1497 si costrusse, appoggiandola al muro istesso della citta, una galleria che dal castello desse comunicazione al palazzo del vescovo; questa galleria ebbe volgarmente il nome di gabinetti.1
Il palazzo del vescovo era certamente il più ampio ed orrevole che fosse in Torino; e perciò i principi d’Acaia ed i principi di Savoia, quando venivano a Torino, solevano eleggerlo di preferenza a loro stanza,- sebbene molte volte fermassero anche dimora nel castello od in qualche pubblico albergo.
Poichè Torino cadde in poter de’ Francesi nel 1536, i vicerè del Piemonte, monsignor di Langè, monsignor d’Annebaud, il principe di Melfi, il Brissac, ed in ultimo il Bourdillon (che tanto penò a spiccarsi da questi paesi, e non li abbandonò se non quando gli ordini reiterati ed inutili de’ suoi re si cambiarono in minacce), abitarono il palazzo vescovile, ed appunto la parte orientale del medesimo, mentre nella casa presso a San Giovanni, che era più elevata delle altre, stavano i suffraganei degli arcivescovi, avendovi abitato monsignor Casate, il vescovo di Ventimiglia, il vescovo di Nicomedia ed anche l’arcivescovo Cesare Cibo. Il Brissac si die anzi a murar una fabbrica verso l’oriente che si chiamò Paradiso; che non so bene a qual lato risponda degli odierni palazzi regii.
La ragione per cui tutti i viceré francesi, due soli eccettuati,2 pigliaron dimora nell’arcivescovado, era non solo la sua capacità, ma eziandio il sito in cui era posto, occupando un angolo importante della citta e signoreggiando quasi due porte della medesima, onde conveniva tenerlo ben fornito d’armati o distruggerlo: anzi per maggior difesa i Francesi costrussero all’angolo nord-est un fortissimo bastione chiamato degli angeli, a cui non si avea l’accesso fuorchè dal palazzo. Queste medesime cause indussero Emmanuel Filiberto a sceglierlo nel 1562 per sua dimora, e trovatolo, a malgrado della sua ampiezza, in condizione misera e rovinosa, ampliò l’ala chiamata Paradiso, ove pose i magistrati del Senato e della Camera, e comprate le case de’ canonici al nord del duomo, v’edificò una galleria e varie stanze, nelle quali abitò poi egli stesso, ed in cui potè dare l’ospitalità ad Arrigo iii re di Francia e di Polonia; mentre ad altri principi e grandi personaggi che avrebbe voluto aver seco ad ospizio, era costretto di cercare comoda stanza in case private.3
La piazza che ora si chiama Reale era occupata fin presso alla strada de’ Panierai (che allora per altro non era, come abbiam veduto, aperta) da due piccoli recinti quadrilunghi che cominciavano a qualche distanza dal palazzo, e lasciavano tra loro e dai due lati sufficiente spazio a comode strade. In uno di questi recinti era la fonderia, che fu poi demolita nel 1660.
Il castello (castrum portae Phibellonae) esisteva da tempi antichi, ed ho qualche sospetto che sia questa la casa forte che Guglielmo vii v’aveva edificato nel tempo in cui signoreggiò la città di Torino.4 Verso la meta del secolo xiv Jacopo di Savoia principe d’Acaia, vi facea murare una casa. Amedeo vi (il Conte Verde) vi negoziò nel 1381 la famosa pace ira Venezia e Genova. L’ultimo principe della linea d’Acaia, Ludovico, due anni prima di morire facea ricostrurre le torri alte e robuste che si vedono ancor di presente (1416).
Aveva allora il castello una gran camera di paramento, ossia de’ ricevimenti solenni al piano terreno. Un’altra gran camera di paramento al piano superiore; una gran sala al piano superiore ove desinava il principe. Contenea ix mense e due buffetti. Vi si vedeva un orologio colla campana: una sala bassa pe’ famigli con otto mense: una loggia guernita di panche sopra la porta grande del castello; una loggia sulla pusterla: un’altra loggia ove lavoravano i segretari; la camera di bon droyt dov’era il letto nuziale; una camera sopra la cucina col pello, cioè col riscaldatolo comunicante il calore della cucina, per dormirvi l’inverno. Ogni camera avea la sua retrocamera (retrait). La cappella, con un sito attiguo (retrait) dove si custodivano la cera e le spezierie; due guardarobe, la panatteria, la bottiglieria, le cantine, la larderia dove si conservavan le grasce.
V’erano infine dodici o quindici altre camere e retrocamere pel maggiordomo, per gli scudieri, e per le altre persone del servizio nobile e non nobile che aveano stanza in castello. Molte delle suppellettili ed arredi che vi si trovavano, erano contrassegnate co’nodi d’amore, e col motto fert, divise de’ principi di Savoia dal conte Verde in poi, ovvero erano divisate colla rotella, particolar emblema de’ principi d’Acaia.
Nella grande guardaroba delle tappezzerie si vedeano fra le altre cose dodici vesti pe’ paggi; ed erano rosse foderate di bianco colle maniche ricamate d’argento con tre mazzette.
Dopo la morte di Ludovico principe d’Acaia, Amedeo figliuolo primogenito del duca Amedeo viii, e suo luogotenente generale al di qua dai monti ebbe dal padre, e fu la prima volta che si desse, il titolo di principe di Piemonte, e venne ad abitar in castello. Ma mentre dava di sè le più belle speranze, fu in giovanissima età colto da un morbo che in breve l’uccise nel 1431.
Fra le cose che avea seco, sono da notare varii libri divoti ed inoltre i Viaggi di Giovanni di Mandeville, il Romanzo della Rosa, L’Albero delle battaglie, i Detti de’ Savii, gli Statuti di Vercelli, le Nuove guerre di Francia, un astrolabio, armi ed arnesi di Turchia, e due tavolette (tabliers) lavorate d’avorio bianco e nero a personaggi; un libro di scacchi; un gioco di carte; una carta geografica dell’Italia; un altro gioco di carte fatto a personaggi; trentanove colovrine d’ottone a manico di legno, ed un paniere di pallottoline di piombo per le medesime; una nave d’argento su quattro ruote, dono del comune di Oneri, e divisata dell’armi del principe e del comune; una coppa d’oro data dal commendatore di Sant’Antonio di Ranverso; un reliquiario d’argento in forma di chiesa colle reliquie della vera Croce, e di San Sebastiano; una croce d’argento doralo appiè della quale stavano i quattro Evangelisti. Noterò infine due armature di testa: ung arnoys de teste appele bav (bahut) guernito d’argento, ornato di rose e bottoni e di tortelles, divisa del signor di Milano, e due cappucci di cuoio.5
Ho voluto notare questi particolari, perchè meglio che le descrizioni moderne rendono ragione dello stato d’una casa principesca a quei tempi. Abitarono tempo a tempo quel castello quando venivano a Torino i duchi di Savoia fino a Carlo iii inclusivamente.
Vi stette in agosto del 1474 la duchessa Violante di Francia vedova del beato Amedeo ix, venuta da Vercelli a Torino ond’esser presente alla elezione del rettore dell’Università che spesso dava luogo a gravi risse e tumulti tra gli scolari della nazione italiana e quelli della nazione oltramontana. In quel mentre v’ebbe a corte una moresca o ballo con travestimenti all’uso de’ Mori, del quale fu ordinatore lo scudiere Lancellotlo di Lanzo. Addì 16 dicembre dell’anno medesimo, essendo di passaggio a Torino la marchesa di Monferrato, moglie di Guglielmo viii, la duchessa le die una cena a guisa di banchetto trionfate; portavansi in tavola le vivande sopra galere argentate, guernite d’uomini d’armi e di banderuole divisate colle insegne di Savoia e di Monferrato. Eranvi intermezzi con torri, e castelli, e sirene, ed altri simboli, che raffiguravano al solito, venture di guerra e d’amore. Nicolò Roberti pittor ducale v’adoperò il magistero del suo pennello. Altri intermezzi usati in quell’età, oltre al più celebre del castello d’amore, erano la Spedizione degli Argonauti ossia il Vello d’oro, la storia di S. Maurizio, e d’altri santi e sante.
In questo stesso castello predicò con gran frutto il beato Angiolo Carletti di Chivasso, alla presenza della duchessa Bianca e di tutta la corte nella quaresima del 1489.
In esso nacque il 26 giugno dell’anno medesimo Carlo Giovanni Amedeo principe di Piemonte chiamato poi Carlo ii, che morì di pochi anni e non regnò che di nome. Monsignor di Clérieux Io tenne a battesimo a nome del re di Francia. La camera in cui nacque fu parata di taffettà rosso e bianco. A’ 16 d’aprile 1496 questo principe usciva di vita nel castello di Moncalieri. A’ 21 fu sepolto in Santa Maria della Scala. Quattro torchi giganti ardevano ai quattro canti della bara e pesavano fra tutti undici rubbi.
Fra i cordiali con cui s’era tentato di rinvigorire quella esausta natura v’era polvere di giacinti, rubini, granate, margarite orientali peste con anici e cinnamomo. In altri cordiali scioglieansi perle ed oro. Tale si era la medicina di quei tempi; dico quella dei principi.
Negli ultimi anni del secolo xvi, aveano stanza in castello i serenissimi principi Tommaso e Maurizio figliuoli di Carlo Emmanuele i, Più lardi il principe di Carignano abitò il palazzo che vedesi allato all’albergo della Bonne femme nella via dei Guardinfanti, finche fu alzata sulla piazza a cui diede il nome la nuova e regia sua dimora.
La sala del castello, a’ tempi di Cario Emmanuele i, serviva di teatro di corte. La fu rappresentata per le nozze del duca coll’infanta donna Cattalina figliuola di Filippo ii la favola boschereccia del Pastor fido. Là in dicembre del 1605 si rappresentava una commedia pescatoria, ed uno de’ commedianti era messer Battistino Austoni.6
In una delle torri di questo castello fu custodito il signor di Créquy, general francese genero del maresciallo di Lesdiguière, preso sopra una montagna dove avea passato la notte colla neve a mezza la persona, tentando di salvarsi dopo aver perduto la battaglia d’Epierre (Moriana) nel 1597.
Liberato alla pace del 1598, e chiamato in duello da don Filippino, naturale di Savoia, per alcune parole piene della solita millanteria Francese, pigliarono campo sulle sponde del Rodano presso a Port de Quirieux il 2 giugno 1599. Si batterono disperatamente, e Filippino fu ucciso.
Altre memorie più meste ricordano le torri di questo castello, la cui parte somma servì lungo tempo di carcere. Nel 1587 vi fu sostenuto il capitano Giuseppe Rubatto di Cuneo, accusalo di segreti trattati per dar alla Francia Cuneo, Roccasparviera e Carmagnola. Il Rubatto fu giudicato a morte, trascinalo al patibolo a coda di cavallo, e decapitato.
Nel secolo seguente vi furono rinchiusi il presidente Ruffino, l’abate Valeriano Castiglione il commendatore Pasero, il conte Messerali, Giovanni Antonio Gioia, il senator Sillano, il conte di Magliano, il presidente Blancardi. Sono storie dolorose; storie che mostrano ad evidenza ai nemici del tempo presente che il mondo non peggiora, ma avanza, tentennando sì, errando, inciampando, ma avanza verso un avvenire sempre migliore, come promette la religione cristiana, ed è sorte della stirpe umana.
Nel 1654 serviva al duca Vittorio Amedeo i come primo segretario di Stato il commendatore Gian Tommaso Pasero, di natali, dice un contemporaneo, nè illustri, nè plebei, di professione dottor in leggi, nè ignorante, nè dotto, di temperamento tra bilioso e sanguigno, che lo rendeva d’ingegno astuto, spiritoso, attivo, facondo, con una vena di poesia; ma nelle passioni violento, vendicativo, simulato ed ugualmente lusinghiero e maledico, portando sempre il fiele nel cuore ed in bocca il riso.
Il duca, il quale amava i ministri quieti e sodi, non l’aveva in grazia, ma se ne serviva, perchè avea avuto le chiavi di molti segreti negozii al tempo di Carlo Emmanuele, e perchè aveva uno stile facile, nervoso, imaginoso, efficace, condito con termini legali appropriati, sicchè la penna del Pasero era detta volgarmente penna d’aquila.
A maggior grado di considerazione e di favore, che il Pasero, era salito il presidente Lelio Cauda, il quale, quando la pestilenza del 1630 volse in fuga tutte le podestà della capitale, che qua e la si dispersero, andato colla corte a Cherasco, sosteneva solo il peso del total reggimento, e senza l’aiuto del Senato e della Camera, e degli altri regii consigli, provvide con gran senno e gran fede a tutti gli emergenti, moltiplicandosi secondo il bisogno, e mostrandosi prudente, vigilante, indefesso, disinteressato. Il favore di questo ministro accese l’invidia del Pasero, di cui già aveva acceso il risentimento l’incarico dato al Cauda di formare certa inquisizione contra gli uomini di Sommariva di Perno, vassalli del Pasero, uccisori del capitano Fauzone di Villanova. Quest’omicidio dicevasi seguito ad istigazione del Pasero; e fosse vero o no, il fatto è che il Pasero interpose la mediazione del celebre nunzio e poi cardinale Mazzarini, affinchè il procedimento venisse sospeso.
Il livore del Pasero cominciò a sfogarsi con libelli pieni d’invettive e di calunnie che poneva sullo scrigno del duca mentre S. A. R. era alla caccia. Ma il prudentissimo principe, mentre si confermò vieppiù nella buona opinione che aveva del presidente Cauda, giudicò di dover dissimulare, e non ricercar gli autori di que’ libelli.
Il Pasero allora die sfogo alla viperina sua lingua, e favellando all’orecchio de’ più influenti, loro persuase che Cauda era la sola cagione per cui non si potea far nulla di bene. L’amara sua facondia fece senso nell’animo di molti gran personaggi. Madama Cristina pigliò il Cauda in tale abborrimento, che più d’una volta, mentre il presidente era a stretti consigli col duca nel gabinetto, essa, come giovinetta bella e gioviale, a cui tutto si concede, con quel tuono che volteggia tra il buffo e il serio, alzando pian piano la portiera gridava: Cauda tu seras pendu; e subilo ridendo si ritirava. Il duca la pigliava in facezia; ma il presidente rispondeva con un ghigno sardonico al riso del padrone.
Lasciossi aggirare dalle insidie del Pasero anche il cardinale Maurizio; e a suggestione di lui andò a far visita al Cauda sotto specie di onorarlo, ma in reallaper mostrare che la somma delle cose stava in lui, e che fino i principi gli si doveano umiliare; mezzo sicuro di rovinarlo. Ma Cauda vedendolo comparire gridò: Altezza, i miei nemici mi vogliono perduto; e andò subito a piangerne col duca, il quale lo consolò, e lo assicurò che la sua grazia non gli fallirebbe.
Pasero vedendo che il Cauda era di diamante, e che tutti i suoi colpi spuntavansi, rivolse le sue persecuzioni contro gli amici di lui.
Era governatore di Savigliano, sua patria, il presidente Ottavio Ruffino, vecchio e zelante ministro, stato già presidente delle Finanze. In quella città, e nel monastero di San Pietro avea stanza Valeriano Castiglioni, abate Benedittino, famoso storico, che per gli ufficii del Pasero era stato da Carlo Emmamiele i chiamato al suo servigio, e creato istoriografo ducale; ma che non aveva a gran pezza l’animo altresì bello come l’ingegno. Costui si lasciò persuadere dal Pasero a scrivere un libello contra la nobiltà di Savigliano, per cui ebbe dal malvagio ministro parecchie minute e scandalose particolarità. Lo scrisse di suo pugno il Castiglioni, alterando il carattere, e lo pubblicò di nottetempo. La mattina quando fu conosciuto, sollevò a grande indegnazione tutti que’ patrizi, che venuti a furia a Torino, esposta la cosa al Pasero, lo costituirono loro procuratore a sollecitare contro all’ignoto autore i rigori della giustizia. E da notarsi che fra gli offesi, per meglio celare il gioco, era anche Pasero. Questi, andato dal duca, gli disse che come cristiano perdonava ai suoi offensori, ma che come ministro era obbligato di consigliare pronta giustizia e sommi rigori, essendo lesa la maestà del principe e la pubblica quiete, non che l’onore di tante principali famiglie. Il duca delegò il primo presidente Antonio Bellone ad istruire il procedimento. Il Pasero instava per la nobiltà di Savigliano.
De’ primi chiamati ad esame fu il Castiglioni, il quale disse che il libello era verosimilmente dettato da don Emmanuele Tesauro, a giudicarne dallo stile, e così disse perchè il Tesauro era amicissimo del presidente Ruffino. Ma il giudice era sagace; paragonate le scritture e lo stile, trovò che a Valeriano Castiglioni, anzichè al Tesauro potevasi con fondamento attribuire.
Castiglioni vedendosi a mal partito si consigliò di nuovo con Pasero, il quale lo esortò a confessare d’esserne l’autore, soggiungendo che l’avea scritto per ordine del presidente Ruffino, e sforzato dalla paura. Giurò il Pasero, ponendosi la mano sopra la croce, che da tal confessione, non deriverebbe ad esso Castiglioni il menomo danno, rendendosene egli medesimo mallevadore. Il Castiglioni vinto dalle sue lusinghe così fece. Falsi testimonii compri dal Pasero ne corroborarono i detti. Il povero presidente era in Torino a letto travagliato da dolorosa podagra, quando vide entrar nella camera i soldati di giustizia, che ravvoltolo nelle sue coperte lo portarono pubblicamente a braccia nel castello e lo serrarono nella torre. Assai tempo vi giacque quella vittima della più nera macchinazione, finchè chiamata la causa, difeso da Ludovico Tesauro, riportò per sentenza del Senato compiuta vittoria, onde fu dal duca restituito con lettere patenti agli antichi onori ed al governo di Savigliano. Mentre col calunniato erasi proceduto con tanto rigore, col calunniatore s’adoprarono termini di gran riguardo. Andava dicendo il Pasero: ch’egli era scrittore di quel valore che tutti sapeano; che aveva in petto i più gelosi arcani dello Stato; che potea dare colle sue storie nobile e perpetua fama a’ suoi signori. Come se potesse essere storico uno che mancò sì bruttamente di fede: come se avesse qualche virtù una penna contaminata nell’orditura d’un libello; come se il principe potesse far caso d’una lode che non sorga spontanea dai fatti, che non sia data da chi dispensa con uguale bilancia anche la giusta censura; d’una lode venale, d’una lode comprata con oltraggio della giustizia.
E nondimeno al Castiglioni fu assegnata a cortese prigione la casa dell’inquisizione, dove fu spettatore di nuova ribalderia ordita dal Pasero; vale a dire d’una fìnta indemoniata, che fu Margarita moglie d’un Antonio Roero, soldato della guardia del duca, bella, astuta ed impudica. Questa, dopo d’essere stata lungamente ammaestrata a sostener la commedia che dovea rappresentare, cominciava il sacrilego gioco torcendosi, divincolandosi, voltando gli occhi spaventosamente, e facendo tutte le smorfie degli ossessi: poi apriva la bocca, come invasa da spirito profetico, a sinistre predizioni, annunciando eslerminio de’ popoli, rovina della città, e della casa reale, se non si scacciavano immediatamente, il presidente Cauda, il conte Appiano, il senatore Barberis, perfidi ministri e già destinali all’inferno.
La plebe è dappertutto superstiziosa; e quando si tratta di superstizioni di certa qualità, anche molti uomini insigni son plebe. In quel secolo poi vie maggior forza aveano i pregiudizii, talché una volta la città si vuotò, e il popolo corse alla montagna per una voce sparsa da un matto malizioso che Torino dovea profondare. La finta indemoniata colle lugubri sue predizioni di fame, di peste, di guerra ed altri malanni, andava facendo gran senso. Ma il vicario dell’arcivescovo, uomo di fino giudicio, non si lasciò trarre in inganno; rise di quelle favole e domandò al duca gli si consegnassero la donna e il marito. Fecesi. Guardati con diligenza, esaminati sottilmente si scoprì la frode, e furono puniti. Ma del Pasero che n’era primo autore niuno fiatò.7
Frattanto il presidente Rullino non rifiniva di domandar giustizia. Egli, tenuto sì lungo tempo a gran torto in istretta prigione, vedeva il Gastiglioni suo calunniatore passeggiar liberamente ne’ chiostri di San Domenico, e andarsene perciò quasi impunito. Le sue continue doglianze mossero finalmente il duca a far rinchiudere il Castiglioni in castello, senza badare alle rimostranze del commendatore Pasero. Quando il Castiglioni, avvezzo a un viver lauto ed alle brigate gioviali, gustò l’amaro dal carcere, e vide che l’un giorno passava e I’altro ancora senza speranza di liberazione, arrovellato contro al Pasero, prima cagion de’ suoi mali, fatto chiamare il presidente Benso, gli svelò ogni cosa, e del libello infamatorio, e della falsa spiritata, alle quali turpi macchinazioni partecipava con Pasero anche il conte Messerati, generale delle poste. Sapute queste cose il duca giurò di dare un pubblico esempio di quei due scellerati ministri, e intanto li fe’ serrare ambedue nelle torri del castello (1654). Ma ogni ribaldo trova un più ribaldo di lui che lo prolegge, e uomini dabbene, semplici, ingannali, che hanno fede neli’ innocenza, che non hanno facoltà visiva pel male, i quali lo vogliono salvo. Queste doppie influenze sospesero la condanna dei disleali; finchè, morto il duca, nate le gare fra la duchessa e i cognati per le reggenza, il Richelieu consigliò Madama Cristina di valersi del Pasero e del Messerati, che aveano antica divozione co’principi, onde persuaderli a non entrare in Piemonte.8 La duchessa non consentì; ma rimise dell’antico rigore, e die a Pasero il castello di Saluzzo per carcere, al Messerati ordinò gli arresti nella propria casa. Ma l’uno e l’altro, corrotti i custodi, fuggirono, non senza aver tramalo una pratica per dare Carmagnola, e la cittadella di Torino in mano de’ principi. Pasero si ritirò a Loano, castello dei Doria, donde s’offerì tutto a’ servigi di Spagna, mentre continuava a mantener vive pratiche colla duchessa scrivendole: che mala stanza era il carcere e dura mercede a chi avea ben servito; supplicandola di grazia, e offerendole i suoi servigi se gli restituiva l’antico favore. Frattanto questo sciagurato ebbe dalla mano di Dio il primo gastigo delle sue ribalderie. Volendo aver seco due suoi figliuoli che erano rimasti in Piemonte, e temendo che ove viaggiassero palesemente, non fossero dalle genti Savoine trattenuti, li fe’ rinchiudere in certe casse, onde avesser libero il passo. Giunte le casse a Loano, fu sollecito d’aprirle e trovò duo cadaveri. I miseri fanciulli erano morit soffocali.
Quando la reggente conchiuse raccordo co’ principi suoi cognati, volle nelle mani il Pasero, e lo riserrò in castello con animo si procedesse contro di lui fino a sentenza definitiva. Ma la morte fu pietosa, e lo liberò da tanti affanni prima della condanna.9
Una di quelle opinioni che fanno onta maggiore all’umana ragione, e che pure ne’ secoli passati seminavano sospetti e paure, mettean discordie e confusioni, generavano crudeltà inaudite, governate per maggior derisione colle forme de’ giudizii, ma rette da norme particolari dettate con gran pompa di erudizione da solenni giurisconsulti, meditate ed applicate da giudici che deliravano coi deliranti, è l’opinione de’ negromanti e delle streghe e del sovrumano loro potere. Questa stoltezza, che avea fatto ergere tanti roghi, insanguinar tanti palchi, era stata da molte leggi municipali ne’ tempi di mezzo guardata con occhio di compassione, considerata non come misfatto, ma come errore pregiudicievole all’ordine pubblico, e punito di sola pena pecuniale. Nell’economia politica del medio evo abbiam narrato il caso d’un tale punito in simil modo perchè facea sortilegi nel contemplar le stelle (in visione stellarum). Era forse un Plana in erba: ma lo studio della astronomia portava seco allora gravi pericoli. Questa mitezza fu abbandonata nel secolo xv, secolo s’altri fu mai persecutore ed intollerante, che tornò ad inspirarsi in materia di dritto penale (se dritto si può chiamare) entro alle barbare prescrizioni degli imperatori romani, aggravate dal considerar che si faceva il misfatto di stregoneria unito con quello d’apostasia, di patti col demonio, e colle nefande sozzure dei notturni conciliaboli delle maliarde e de’ loro amanti, e del laido caprone che li presedeva.
Essendo questo error comune, non è a dire che mancassero i colpevoli i quali di buona fede credevano tutte queste cose, di buona fede, anche fuor del tormento, confessavano talvolta d’avervi partecipato; ed era certamente in sogno; colpevoli, dico, almeno d’intenzione. Ma ed allora e più tardi non mancarono gli avveduti che, nulla credendo di queste baie, si tinsero negromanti, o per barare con quest’arte il prossimo, o per far parlare di se, o per altri fini meno onesti. A’ 27 di settembre del 1417, Giovanni Lageret, dottor di leggi, che avea seduto lungo tempo in uffici di magistratura, fu condannato nel capo e nell’avere come colpevole d’aver fatto, o lasciato fare da un tal Michele Decipati un imagine d’un leone sopra un ducato d’oro per guarire il mal di fianco e di reni. La figura d’uno scorpione sopra un altro ducato d’oro atto a procurare che le donne incinte non si sconciassero; una testa d’oro, azzurrata di sopra, a somiglianza d’un giovinetto, sovrana contro al vomito ed al mal caduco; un busto senza braccia con testa coronata ed un cuore in cui doveano confluire tutte le virtù celesti, affine di render esso Lageret più eloquente e sicuro, portandolo addosso, e fargli il duca amico, e condiscendente a tutte sue domande; un’altra figura con spada in mano, portando la quale non riceverebbe offesa dai nemici; ancora certe figure di legno che poste sulla casa non lasciavano entrar persona a dispetto del padrone; ancora altra figura che portala innanzi ai principi, col solo mutarla di luogo causava loro sanità, o malattia, li temperava a dolcezza, o li armava di rigore. Le quali figure il Decipati nello studio di Lageret avea circondate d’accese candele di cera vergine, profumate con mirra ed aloe, e con tremende invocazioni di deità infernali esorcizzate.
Giudice fu Giovanni Tarditi, il quale pronunciò la sua sentenza nella galleria del castello del Bourget, condannando il Lageret come colpevole dei delitti di matematica, di sortilegio e di lesa maestà.
Ma scendiamo a’ tempi a noi più vicini e torniamo alle memorie di questo castello. Abbiam già notato come la guerra della reggente Cristina co’ principi suoi cognati avesse diviso profondamente gli animi de’ cittadini, sicch`, anche sedate le discordie, e ricondotta la pace, molti desiderassero e fossero disposti a procurare di render capi del governo i principi in luogo della reggente. Che i principi sorridessero a queste disposizioni de’ loro fautori sì può credere facilmente, poichè ed il comando loro piaceva, ed essi credevano di meritarlo. Ma del rimanente niuna parte pigliavano nelle macchine che i loro fautori andavano invaginando per condurre a buon fine cotali desiderii, sebbene per la natura stessa della cosa, trattandosi di fatti, dai quali vantaggio loro tornava, il nome d’essi principi si trovasse sgraziatamente, e senza loro colpa mescolato in pratiche disgustose.
Sul finire del 1647 si pubblicavano a Mondovì dalla stamperia Rosso e Gislandi due almanacchi pel 1648, uno piccolo chiamato Almanacco Astrologico, l’altro grande chiamato Accademia Planetaria, Quest’ultimo contenea varie predizioni, e tra le altre quella della morte di Madama Reale e del duca suo figliuolo; adombrandosi Madama Reale sotto ai nomi, ora di Venere or di Cibele.
Siffatta predizione, ravvisata subito, dietro al velo trasparente che serviva a segnalarla piucchè a nasconderla, destò la vigilanza del governo, tanto più perchè i tempi che correvano erano pieni d’odio e di sospetto per le recenti e non rimarginate piaghe della guerra intestina. Cercossi chi fosse l’autore dell’almanacco, e si riseppe essere un monaco della Consolata, di nome Giovanni Gandolfi.
Fu preso a Ceva, sua patria, ne’ primi giorni di gennaio. La notte del 7 all’ 8 di quel mese tentò d’uccidersi aprendosi la vena d’un braccio con un temperino. Il sangue che ne spicciò, fece un rigagnolo sul pavimento, e seguendone il pendio si sparse fin sotto la porta della camera, sicchè i custodi che vegliavano nella stanza vicina, se ne avvidero, ed accorsi furono in tempo a riparare.
Condotto a Torino fu rinchiuso alcun tempo in castello, poi nelle carceri senatorie. Dagli esami si riseppe che il senatore Bernardino Sillano, l’aiutante di camera Giovanni Antonio Gioia e il monaco aveano trattato di far morire Madama Reale e il duca. S’era parlato di veleno, ma non piaceva quel mezzo, onde si giudicò di ricorrere alle incantagioni.
Il libro Centum regum, la clavicula Salomonis, ed altri tenebrosi maestri di tali scienze insegnarono al monaco siccome formando nel mese di settembre quando il sole entra in libbra una statua di cera vergine, recitando per un certo tempo sopra la medesima il salmo: Deus laudem meam ne tacueris, e giunto al versetto fiant dies eius pauci, prefìggendo alla persona che con detta imagine si è voluta raffigurare il termine entro il quale dovesse morire, e piantando in petto alla statua la spina d’un pesce chiamato micros, si procurava con effetto alla detta persona la morte. A queste baie, scellerate per l’intenzione, ma innocentissimc nel fatto, attendevano i congiurali.
Ma non li tenean per baie queste macchinazioni ne la reggente, nè i giudici; e non lo erano fuorchè nell’effetto indipendente dalla volontà de’ congiurati. Furono presi anche il Gioia ed il Sillano e posti in castello. Sillano arrestato il 30 dicembre 1647, fu messo nel carcere che era in cima alla lorre, con un cameriere per servirlo, che gli portava la vivanda da casa. Licenza questa assai misteriosa e grave, forse di qualche significazione. Diffatto dopo un primo interrogatorio in cui negò ogni partecipazione nel misfatto di cui si trattava, in sull’alba del primo di gennaio, s’alzò dal letto, prese due biscotti e un po’ di vino, e si pose a leggere, vicino al fuoco, l’ufficio della Madonna. Di quando in quando cessava dal pregare e dicea: Dio perdoni a chi è causa di questo. — Altre volte invece diceva: Dio lo castighi, è un infame; e intendeva del monaco. Poco stante ebbe uno svenimento e mancò di vita. Sillano usciva pur allora d’una lunga malattia, e non è chiaro di qual morte morisse. La stessa mattina undici medici e sei chirurghi vennero e fecero aprir il cadavere. La piucchè laconica relazione dice che nel cadavere non si trovò traccia di veleno; senza spiegare altrimenti la causa probabile della morte; senza neppur dire in che modo avessero proceduto all’esame; nè in che stato fossero i visceri, nè altro.
S’unì il Senato coi togati della Camera. Il Gioia condannato ad essere squartalo a coda di cavalli, previa emenda ed applicazione dalle tanaglie infuocate, fu strozzato invece segretamente nel suo carcere. Il monaco fu condannato similmente a morte e giustiziato in carcere ed appiccato poscia per un piede al patibolo pubblicamente. Una colonna infame fu eretta alla memoria di Gioia sul luogo stesso del patibolo, e dicea così:
1648 28 GENNAIO
ALL’INFAME ED ESECRABILE MEMORIA
DI GIOVANNI ANTONIO SOLIVO DETTO PER SOPRANNOME
GIOIA
CONDANNATO ALL’ULTIMO SUPPLICIO PER
AVER COSPIRATO NELLA VITA DI MADAMA REALE
E DI S. A. R. NOSTRO SIGNORE.
Il monaco fu giustiziato assai tempo dopo.
Essendo Sillano, Gioia e il monaco persone confidenti de’ principi, si menò gran rumore e delle accuse e delle pene, e se ne parlò, secondo l’affetto, diversamente. I principi ne pigliarono grande alterazione e si dolsero con Madama Reale di non aver potuto veder gli alti del processo, dell’essersi nella copia del medesimo Ietta in Senato, ommesse molle particolarità in seguito ad un ordine di Madama Reale; infine del supplizio segreto; quasichè tutto ciò si fosse fatto, se non con espresso fine, almeno coll’effetto d’aggravar la loro riputazione; massimamente che si era passato oltre alla condanna del monaco, senza averne facoltà dalla S. Sede, la quale persuasa (sebbene a torto) che fosser calunnie indirizzale a ferir l’onore de’ principi, non avea mai voluto autorizzare il relativo procedimento. Madama Reale quietò con buone parole i principi, e li assicurò solennemente, che ombra di sospetto non era passala in capo a lei, nò al duca, rispetto all’illibatezza della loro fede. Nella copia poi del processo non s’erano ommessi che quei capi nei quali gli accusati i testimonii riferivano parole e giudizi che offendevano la riputazione della duchessa.
La medesima superstizione delle statue di cera, battezzate col nome d’alcuno, e poi trafitte per uccidere il personaggio che vi si rappresentava, condusse nel 1710 al patibolo Giovanni Antonio Bocalaro di Caselle. Questi si trovava in carcere come sospetto d’omicidio, e sperava, quando venisse a morte Vittorio Amedeo ii, un indulto che gli aprisse le porte della prigione. Queste invece gli furon dischiuse il 30 di gennaio di quell’ anno per condurlo all’udienza del Senato, sedente in toga rossa, ove domandò, con una torcia in mano, perdono a Dio, al principe, alla giustizia; e donde, attanagliato pervia dal carnefice, passò alla piazza dell’erbe. Cola fu strangolato, e poscia appeso per un piede e lasciato fino al terzo giorno. Ed in ultimo squartato. Anche a lui s’eresse colonna infame. Oggi si durerà fatica a credere che un congresso di ministri accusasse il Senato di troppa clemenza per trattarsi, dicevano querelanti, di misfatto di lesa maestà aggravato da sortilegio ereticale!
Nel 1716 Clara Maria Brigida Ribollet, originaria di Grenoble, maritata ad un Astigiano, fuggita di casa con un suo drudo, fu sostenuta nel castello di Miolans. Narrava un millione di cose una più paurosa dell’altra; rapimenti per aria, balli e conventi notturni di streghe e di demonii, congiura per far morire il principe di Piemonte coll’usato mezzo di una statua di cera, a compor la quale s’adoperava terra di cimitero, agnus Dei, ostia consecrata, olio santo, sangue e cervella di piccioli bambini, sangue di gatto, ecc., accusava di questi enormi misfatti principi, ministri, sacerdoti, mezza la corte. La menzogna era evidente. Diffatto la Ribollet, tocca dai rimorsi, illuminata da un raggio della divina grazia, confessò che erano state le sue parole tutte favole ed invenzioni, e mostrò gran dolore d’aver accusato a torto tante oneste persone. Allora fu messa al tormento spietatamente. Ma essa ricomperò con un coraggio superiore al sesso le passate suo colpe, dicendo ai giudici: Se mi facessero star sempre in aria non dirò differente (sic), e questo tormento mi servirà d’un grado per andar al cielo... confido in Dio che mi conserverà il mio buon sentimento di sostenere la verità e mai più accusare persona a torto. E Dio l’aiutò; finchè il chirurgo avendo protestato che non potea reggere maggior tormento, fu calata.
In settembre del 1717 fu avviata a Torino con Calterina Core sua complice, ma più perversa di lei. Tanta paura destavano ancora a quel tempo le imaginazioni de’ poteri sovrannaturali delle maliarde, che quelle due donne incatenate, peste e rotte dalla tortura, erano guardate da un nerbo di cavalleria, e le comunità avean ordine di dare, occorrendo, man forte.
Condannate all’estremo supplizio, la Ribollet per calunnie nere ed esecrabili, senzachè si dicesse di più, la Core per patti col demonio, e per commercio carnale col medesimo, ed anche per nere calunnie, furono condotte al patibolo senzachè il pubblico potesse sapere il perchè, non essendosi pubblicata la sentenza, nè permesso l’accesso al confortatorio ad altri che ai confessori.
Nel 1723 un conte Dupleoz, pari d’Aosta, accusato d’aver praticato le stesse arti malvage dell’imagine di cera nel suo castello di Sorley per far morire Margarita sua moglie, fu giudicato a perder la testa, e decollato sulla piazza del convento di San Francesco in quella città.10
Cotanto traviava ancora il senso pubblico, il senso legale in tempi da noi non lontani: or che dirà di noi medesimi, dopo un altro secolo la posterità, non punto e con ragione indulgente, quando si tratta di supplizi! Se non crediamo più alle streghe, potrebbe darsi che altri pregiudizi ci travolgessero il celabro, e che in qualche luogo s’adoperasse la scure in casi ne’ quali sarebbero appena permessi i ceppi e le ritorte.
Nel 1673, in queste torri medesime fu sostenuto il conte Catalano Alfieri, cav. della Nunziata, generale in capo dell’esercito che invadeva l’anno prima con infelici successi il Genovesato. Gli fu apposta a delitto colale disgrazia, e si ebbe sospetto della sua fede. Secondo la consueta umana viltà, quando si seppe che il conte Alfieri era in mala vista, si trovò più d’uno che per giustificar se medesimo aggravava il capitano. L’Alfieri prima ebbe ordine di recarsi al suo castello di Magliano e di non partirsi di là. Poscia in agosto del 1673 il fiscal generale Comotto gli recò nuovi comandi del duca che gli prescriveano di recarsi a Moncalieri all’asteria di qua dal Po chiamata Taglialargo, dove il maggior delle guardie Umberto si recherebbe a pigliarlo. Obbediva Catalano, ed a’ 23 d’agosto era preso e condotto in castello, dove si guardava a vista. Fu deputato a far inquisizione contro di lui il presidente Carl’ Antonio Blancardi, che i fautori del conte diceano, aver con l’inquisito un’antica ruggine. Si procedette lungamente, e con tutto il rigore, e durante l’inquisizione fu provvisoriamente levato al conte Alfieri il piccolo collare dell’ordine. Sentironsi oltre a 200 testimonii. Il fisco formò infine ventitré capi di contestazione, più facili, per quel che pare, a formar che a provare. Ma frattanto il conte Alfieri, che era antico d’anni e pativa da assai tempo una malattia di cuore, aggravato dal dolore e dai patimenti, rendette nel suo carcere l’anima a Dio il 14 di settembre 1674.
Allora cambiossi a suo riguardo la piega degli umani affetti, e l’ira sollevatasi in sulle prime contro di lui, si riversò, forse con uguale ingiustizia, contro al rigoroso giudice procedente.
Blancardi, di natura subita e risentita, era uso ad aggravare colla durezza de’ modi l’esercizio d’un’autorità rigorosa. Nel proprio uffizio ei ravvisava piucchè un augusto ministero da compiere, un amor proprio da soddisfare, e nel trionfo della propria opinione mettea tutto quell’impegno che avrebbe dovuto collocare esclusivamente nella ricerca imparziale del vero. Tenace de’suoi propositi, sprezzator de’ colleghi, rotto alla maldicenza era odiato non meno dagli altri giudici, che dagli infelici che ne sperimentavano la superba fierezza. Non è dunque maraviglia se alle tante cause che già davan luogo ad odiarlo, aggiuntasi la morte del misero Catalano fra lo squallore d’un carcere, la lunghezza del procedimento, l’ostinazione con cui Blancardi avea procurato di raccogliere ogni menomissimo indizio utile al fìsco, e il niun conto in che mostrava: tenere i leslimonii favorevoli all’accusato; non è maraviglia, dico, se le voci che gli amici del conte di Magliano avevano costantemente sparse, sulla supposta iniquità con cui si procedeva, si moltiplicarono allora e si rinforzarono al punto da piegare a qualche sospetto il retto animo del principe. Diffatto il duca ordinò che la visita del cadavere del conte Alfieri fosse fatta dal senator Leone e non dal Blancardi; poi comandò che gli atti del processo fossero dal medesimo senatore esaminati e parafrati a ciascun foglio; e die breve termine al Blancardi perchè pronunziasse la sentenza. Scrisse inoltre a qualche suo confidente che s’accorgeva come in quest’affare egli era stato tradito. Quanta alterazione pigliasse il Blancardi di tali inaspettati colpi è facile imaginarlo. Cercava udienza dal principe, ma non l’otteneva, onde riparavasi dal ministro delle finanze Giambastista Truchi che gli avea tenuto un figliuolo a battesimo, e lagnavasi in sue lettere: « ch’egli trovava tutte le porte chiuse: cieco, sordo e muto ogni nume — dichiarava che giustissimamente si poteva venir alla condanna della memoria del conte Alfieri, e che era stoltezza levar al principe una condanna di 150ꞁm. ducatoni che gli era dovuta — che egli solo sapeva il fallo, e che con gli atti e le dottrine alla mano farebbe tacer tutti — esser vero che queste non erano parti di giudice, ma che il giudice non fa mai male quando fa ciò che porta il giusto. — I ministri che pensavano diversamente non poter essere che ciechi e maliziosi. — Che sperava d’essere giustificato, e poi pregherebbe S. A. di gradire la resignazione delle sue cariche, amando egli l’onore e non gli onori e dimettendo volontieri quelle pompose spoglie. »
Altra volte chiedeva un processo fulminante con cinque o sei ministri che lo sentissero mezz’ora col processo alla mano, e se si trovasse tardanza o colpa menomissima volea esser punito: io chiamo giudici rigorosi e non grazia, quando sia reo: castigo e non perdono. Così egli. Il duca deputò a sentirlo Novarina primo presidente, Blancardi, Leone, Balegno e Frichignono senatori; ma egli rispose: che cosa dirà ai delegati? Stima miglior partito far una scrittura in cui dirà di più di ciò che direbbe a voce; nuovamente giurando che in ciò che riguarda il servizio di S. A. e la giustizia non ha un peccato veniale.
Intanto spargevasi un infame libello contro al duca, del quale subito si fe’ correr voce esser Blancardi l’autore. Fu creduto agevolmente, per trattarsi d’uomo d’indole maledica e disgustatissimo. Avvertito della nuova accusa, scrisse a Truchi: benchè la mia fede ed incorrotta integrità ricevano notabilissimi aggravii per ridicolissimi sospetti, io veramente rimango stupito di quanto al mio ritorno mi vien significato. Povero principel Poveri servitori! A questo segno giunge la perfidia di voler trionfare dell’innocenza! V. E. si compiaccia farmi pervenire quelle cieche infamie, perchè io svelerò quell’incarnato demonio che ne è l’autore, e non m’ingannerò, perchè riabbiamo molti riscontri urgenti ed infallibili...
A crescere la miseria di questo ministro gli sopraggiunse l’ 8 dicembre un’altra grave amarezza. Aveva egli casa e podere a Doirone, e non essendo di sua natura punto agevole, viveva in perpetue quislioni coi vicini. Il popolo dibassano, vedendolo scaduto dalla grazia del principe, sonata campana a martello, andò ad insultare i suoi massari, a diroccar le muraglie, a guastargli i giardini con parole contro di me che non si direbbero ai cani, fatti mille sprezzi come se fossimo nella Tracia, e in un paese in cui non vi fosse ne Dio, ne principe, ne legge... quanto a me, bramo morire per non sopravvìvere alle mie pubbliche ignominie. Tali angosciose querele mandava il Blancardi in lettera ai segretario di stato Buonfìglio.
La sua brama di morire fu pur troppo, e in modo crudelissimo, esaudita.
Fin dal 10 novembre 1674, Leone, uno dei delegati, accennando al libello, scriveva ad un ministro essere il Blancardi autore della maggiore delle scelleraggini; doversi cominciare dall’arrestarlo; esservi perciò prove soprabbondanti; esservi prova d’una falsità giudiciale; poter fuggire ed accrescere le maldicenze, e con la sua mala natura li pericoli, sicchè vi voleva una soda e ferma deliberazione di S. A. R. di lasciar fare alla giustizia il suo corso.11
Appoggiavansi questi giudici troppo solleciti non tanto ai delitti di lesa giustizia, quanto a quelli di lesa maestà per la maldicenza contro al principe; ma Carlo Emmanuele prudentissimo non si risolvea, finche stretto da molti lati, e persuaso della reità., permise si procedesse. In gennaio del 1675, all’uscir d’un congresso tenuto in casa del primo presidente Novarina, Blancardi fu da un maggiore di piazza arrestato, fatto entrare in una sedia, portato in castello, e per maggior crudeltà, rinchiuso nel carcere stesso del conte Catalano Alfieri, dove raccapricciò vedendo sopra la tavola, sulla quale erane stato aperto il corpo, una traccia di sangue; questa macchia di sangue gli percosse per tal modo l’imaginazione, che, da qualunque lato girasse lo sguardo, dicono, che l’avesse poi perpetuamente avanti agli occhi.
Nella inquisizione che si fece svanì l’accusa di prevaricazione a danno dei conte Alfieri, ed invece il fìsco credette potergli imputare una falsità, che si disse commessa da un notaio, per favorire il conte Ricci suo suocero, una alterazione d’un mandato per esigere due volte la medesima somma, ed un libello famoso; reati tutti difficili a credersi, più difficili a provarsi. Nondimeno l’infelice Blancardi fu condannato da una delegazione speciale alla pena di morte, previa la degradazione e la tortura. Spogliato colle consuete cerimonie di tutte le nobili insegne che portava ed anche della laurea dottorale, fu messo al tormento, donde più morto che vivo12 condotto alla piazza, che trovasi presso la porta della cittadella, ora ombreggiata da annosi viali, gli fu sur un alto palco tagliata la testa.
Il cadavere rimase tutto quel giorno esposto in quel luogo in mezzo a molti doppieri accesi. Questa tragica scena fu a’ 7 di marzo 1676, e ai considerar quanl’odio avea dovuto accumulare sopra al suo capo il processo che andava formando contro al conte Catalano Alfieri, personaggio sì potente per seguito e per parentadi, come pigliato per un misfatto sia stato condannato per altri di ben diversa natura e tali che agevolissimo era in quei tempi impetrarne per danaro la rimessione; come sia stato acerba sopra ogni ragione la pena, e come tutto ciò accadesse nel mentre si moltiplicavano i favori al conte di Magliano figliuolo del defunto conte Alfieri, e si cancellava nelle lettere patenti date a chi gli succedette nella carica di luogotenente generale della fanteria ogni espressione che ne potesse offendere la memoria; come infine alle ed attive influenze congiurassero fin da Parigi in odio del Blancardi, lutto ciò mi da forti sospetti che la giustizia abbia da piangere ne’ casi da noi narrati, non una ma due vittime delle passioni degli uomini e della debolezza de’ governi.
Questo castello aveva una facciata semplice, ma gentile, che s’armonizzava benissimo colle sue torri surmontate d’una tettoia di bella forma che dava loro una certa sveltezza. Madama Reale Maria Giovanna Battista madre del Re Vittorio Amedeo ii, che lo abitava, lo decorò nel 1718 del doppio scalone di cui non si da forse più bello al mondo, e poi della maestosa facciata marmorea a colonne e pilastri corintii.13 Filippo Juvara ne fu l’architetto. Le statue, i vasi, i trofei sono del cav. Gio. Baratta.14 I marmi derivano dalle cave di Prales. Questo castello che sul finir dello scorso secolo era stanza dei duchi di Savoia e di Monferrato; che nel governo francese era sede del tribunale d’appello; che ora è nobilitalo dalla Reale Pinacoteca, univasi altrevolte verso il nord al palazzo per una lunga galleria; al sud un piccolo fabbricato lo disgiungeva dalla porta della città che in principio del secolo xvii s’apriva sulla linea della strada de’ Guardinfanti; e chiamavasi porta Castello.
A far capo dal tempo in cui Emmanuele Filiberto si mise in possesso del palazzo arcivescovile, si può dire che mai non si dimettesse di lavorare attorno a quel vasto edilìzio. Cominciò Emmanuele Filiberto a murare un nuovo palazzo allato a San Giovanni nel sito prima occupato dalla canonica. Crebbe a maggior altezza inver l’oriente l’ala chiamata paradiso. Rifece e nobilitò il giardino. Vi fe’ una fontana, un bagno ed una grotta.
Ne meno operosa fu la cura di Carlo Emmanuele i intorno agli edifici Palatini.
Già in una piccola galleria presso al giardino, essendo egli ancora principe di Piemonte, avea fatto conserva di belle e rare armature, di rarissimi quadri, e di curiosità d’arte o di natura. Più lardi fe’ bellamente apparecchiare l’altra galleria che giungeva il castello al palazzo; e vi ripose la sua collezione. Egli non solo propose i soggetti dei dipinti, di cui doveva ornarsi, ma dettò il modo con cui si dovean comporre, e le fantasie, e le allegorie, ed ogni altro accessorio, e fino gli scompartimenti delle vôlte.
La sua famosa galleria conteneva i ritratti de’ principi di Savoia suoi antecessori, de’ quali, pe’non conosciuti, indicò l’abito e le fattezze. Allato a loro effigiavansi i paesi conquistati, i santi protettori d’essi paesi, le grandi fabbriche costrutte, come Altacomba e la chiesa di Brou per Umberto iii e per Filiberto il Bello; e per se medesimo il santuario di Vico. Trovò anche le divise appropriate all’indole di ciascun principe, ed in breve tutto l’onore dell’invenzione di quella galleria tanto lodata fu di Carlo Emmanuele i. In una nota di sua mano conservata nell’archivio di corte si vede donde traesse l’effigie de’ suoi gloriosi predecessori. Avea rinvenuto quella d’Amedeo v (morto nel 1523) in una pittura conservata in una sala del palazzo, o castello di Pinerolo; quelli d’Umberto iii (morto nel 1188) e d’Aimone (morto nel 1343) toglieva dalle statue giacenti sui loro sepolcri nella badia d’Altacomba. Quella d’Edoardo (morto nel 1329) dal libro vecchio, ed era forse un qualche ufficio od altro codice miniato. Amedeo vi, il conte Verde (morto nel 1383), avea tolto da un dipinto che si vedeva a Lanzo. Amedeo viii (morto nel 1451) avea trovato dipinto a Roma e nel castello di Rivoli. Di Ludovico i, serbava l’effigie in un piombo; di Ludovico re di Cipro, in una stampa. Amedeo ix, il Beato, rinveniva nella santa cappella di Ciamberì, a Ivrea, a Rivoli, a Pinerolo, e noi potremmo soggiungere, nella cappella del Forno di Lemie. Carlo i era dipinto a Lemens; di Filiberto i, avea l’effigie stampata; Carlo Giovanni Amedeo trovava ne’ dipinti del castello di Rivoli; Filippo ii, in que’ di Lemens e nelle monete. Nelle monete e medaglie, Filiberto il Bello. Dell’avolo e del padre non mancavan ritratti; per altri più antichi riferivasi a certi disegni che si vedono in un libro del Pingone, i quali sono affatto privi d’autenticità. Non debbo tralasciare di notare l’errore che prese circa a un altro principe de’ più illustri della sua casa,- ed è d’aver tolto il ritratto di Tommaso i (morto nel 1252) dal sepolcro che si vede nella cattedrale d’Aosta, e che ora si è trovato appartenere invece a Tommaso ii (morto nel 1259). Le sembianze di questa Itala Dinastia, riprodotte più tardi nelle opere del Guichenon, e del Ferrero, e nelle gallerie de’ castelli reali, non sono pertanto imaginarie fuorchè per pochi dei primi sovrani; avendo fondamento di vero quelle di Umberto iii (il Beato), di Tommaso ii (sotto nome di Tommaso i), d’Amedeo v (il grande), d’Odoardo, d’Aimone, d’Amedeo vi (conte Verde), d’Amedeo viii, del duca Ludovico, e di Ludovico re di Cipro, di Amedeo ix (il Beato), di Carlo i, di Filiberto i, di Carlo ii, di Filippo ii, di Filiberto il Bello e de’ loro successori.
In quella stupenda galleria Carlo Emmanuele avea raccolto oggetti rari appartenenti ai tre regni della storia naturale e mandati a comprare in Olanda.
In una nota pure di sua mano egli comanda l’acquisto non solo di lioni e di tigri, ma anche d’onze, giraffe, ippopotami.
In quanto ai cani ei ne divisa di quattordici sorta, dai limieri grandi di Brettagna, fino ai barbetti ed ai turchetti piccioli di Lione per dama. Volle anche far mostra delle ricchezze minerali del suo Stato; e nella galleria comparivano i saggi de’ seguenti marmi, alcuni de’ quali non si sono continuati a scavare:
Di Frabosa — bianco che pende in bigio; negro; lionato.
Di Coazze — bianco.
Di Gassino — bigio broccatello.
Di Pesio — negro, bianco, e giallo.
Di Lanzo - marmo color di zolfo.
Di Rivoli — giallo diverso o ensejado.
Di Venasca — bianco venato di negro.
Di Garessio — rosso venato di bianco.
— rosso a grandi macchie bianche.
— lionato con del rosso assai.
— negro, aranciato, e giallo.
Dipinsero nella galleria tra gli altri, sul finir del secolo xvi, ed in principio del seguente, Giovanni Carracha Fiammingo, Giacomo Rossignoli, Antonino Parentani, Nicolò Ventura, ed il cavaliere Federigo Zuccari,15 per tacer d’altri molti, il cui pennello venne anche adoperato nelle sale del castello, ed in altri luoghi delle case palatine.
Pochi anni dopo faticavano a rallegrare cogli splendori dell’arte le reali dimore il cav. Isidoro Bianchi, i cav. Francesco Cayre (ambedue rinomati discepoli del Morazzone e fatti cavalieri dal nostro duca), Giulio Mayno (d’Asti) che dipingeva i principi a cavallo ed i martiri Tebei, Pellegrino Broccato, Vittorio Mombarchi, Cristoforo Lucchese, Carlo Conti che pennelleggiava fiori ed uccelli, il cav. Francesco de’ Franceschi che raffigurava in varie tavole i santi Tebei, Ambrogio Cantù che dipingeva gli affreschi delle volle, Pompeo e Francesco fratelli Bianchi, Giovanni Francesco ed Antonio Cerniti Fea, che dipinsero nel castello di Moncalieri ed alla vigna chiamata poi della Regina ed allora della principessa Ludovica, Innocenzo Guiscardi o Guicciardi, Agostino Parenlani, Giovanni Grattapaglia e Bartolomeo Caravoglia che dipinsero il palazzo di San Giovanni, e in castello, Monsieur Dauphin, Andrea e Giacomo Casella scolari di Pier da Cortona, Domenico Marnano, Alessandro Maccagno, Amando Perlasca, Luigi Tuffo, ed altri molti.
Ma le sale della reggia s’abbellivano, a’ tempi di Carlo Emmanuele i, di tavole fatte venir da lontano e con gran dispendio raccolte.
Nella sala del giardino vedevasi una Venere, nuda tutta, di Messer Alessandro (Allori). — La bella melancolia, quadro già stato perso. — La Spagnuola vestita a la italiana data dal Sucarello et portata da Genova.
I gran quadri del Vasari, fiera, Vulcano, rapto delle Sabine et quattro stagioni et altri.
I gran quadri del Veronese, Regina Saba et figlia di Faraone, David, et Judit con le teste di Golia et d’Oloferne.
Del Palma, San Quintino et Golia. Così da nota scritta di mano del duca, che non vi comprese il mirabile cartone di Sant’Anna di Leonardo da Vinci con sì squisita diligenza testè restaurato dal professore Volpato, ne tanti altri insigni dipinti e disegni, de’ quali per altre memorie autentiche appare aver il medesimo accolto prezioso tesoro.
Ora qual maraviglia se un principe nato di stirpe così gloriosa ed italiana, capitano e guerriero di provato valore, di spiriti bellicosi e cavallereschi, che amava le lettere e le arti, le coltivava, le proteggeva, che mostravasi insofferente d’ogni dominazione straniera in Italia, e massime dell’oppressione spagnolesca, sollevasse dall’Alpi al mar di Sicilia le speranze di questa povera Italia, e ne fosse, ed in versi ed in prosa gridalo liberatore? Certo s’egli avesse saputo meglio temperar colla prudenza la foga della sua imaginazione e la grandezza de’ suoi smisurali concetti, aspettar tempo e ferire, avrebbe forse potuto adempiere in qualche parte almeno quel pietoso divisamente, quella nobile ambizione, e contentar il giusto desiderio di quei che pensano che i popoli sono commessi, piucchè all’imperio alla tutela dei principi per esserne con lieve ed onorato freno governati, con forte braccio difesi, e non oltraggiati, tiranneggiali e premuti.
Ecco alcuni bei versi fra i tanti che furono a Carlo Emmanuele i, sesto fra gli avi del Re Carlo Alberto, da ogni lato d’Italia indirizzati:
Sonetto
O dell’antica Italia eccelse e chiare Ben di voi Viva, immensa luce appare, E sgombrar tenti all’infelice il seno Sol d’un gran Carlo al ciel d’ornarla piace, |
Il palazzo che ora chiamano del Chiablese era una appartenenza del palagio ducale ed aveva annesso un giardino. V’abitò, ai tempi d’Emmanuele Filiberto, Beatrice Langosca, marchesa di Pianezza, madre di donna Matilde di Savoia; nel 1609 v’avea stanza il cardinale Aldobrandino nipote di Clemente vai;16 varii anni dopo fu dato al principe Maurizio di Savoia, la cui vedova Ludovica lo abitò finchè visse.17
Più tardi v’ebbero sede alcuni ufficii e magistrati. Nel secolo scorso fu da Carlo Emmanuele iii concesso in appanaggio al duca del Chiablese, suo figliuolo secondogenito, e venne in lai occasione ampliato e restaurato sui disegni del conte Benedetto Alfieri.
Dopo il duca del Chiablese suo zio, l’abitò dal 1817 al 1831 Carlo Felice, di gloriosa memoria. Ora è placida stanza della piissima vedova Regina Maria Cristina, la cui beneficenza abbraccia desiderosa ogni maniera di carità, la cui protezione ricerca e conforta ogni merito di lettere o d’arti.
Il cardinale Aldobrandino, nipote di papa Clemente viii, che abitò, come abbiam detto, questo palazzo, era venuto sul cader di marzo 1608 incaricato di negoziazioni politiche;18 e, siccome quello che si piaceva di conversare con nobili ingegni, avea condotto seco Giambattista Marino Napolitano, poeta di calda e ricca fantasia, copioso d’invenzioni, di penna facile, arguta e brillante, troppo forse esaltato a ’suoi tempi, ma troppo ancora e troppo ingiustamente negletto al dì d’oggi.
Il Marini dovea piacere, e piacque a Carlo Emmanuele principe così letterato., e col poemetto intitolato il Ritratto, panegirico d’esso duca indirizzato all’insigne pittor di ritratti Ambrogio Figino, tanto s’insinuò nella sua grazia, che in gennaio dell’anno seguente fu annoverato tra i cavalieri dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro.
Fin dall’ottobre del 1607 era stato ritenuto ai servigi del duca in qualità di segretario il genovese Gaspare Murtola, uomo di molte lettere, venuto al seguito di Pietro Francesco Costa, vescovo di Savona, nunzio apostolico. Verseggiava egli pure, e si studiava secondo le forze di onorare sì generoso signore, sia nella Creazione della Perla, scritta per le nozze dell’infanta donna Margarita di Savoia col duca di Mantova, sia nel poema della Creazione del Mondo, più notabile per la maestà del concetto che per la bellezza dell’esecuzione. Imperocché se niuno per la facoltà poetica poteva in quel secolo paragonarsi col Marini, moltissimi all’incontro d’assai minor fama, superavano facilmente il segretario genovese. Sorta tra il Murtola ed il Marini gelosa gara, minutamente narrata dal Marini stesso in una delle sue lettere; allargato dall’una parte e dall’altra il freno alla maldicenza, il Marini scrisse varii sonetti intitolati la Murtoleide, fischiate; alle quali il Murtola contrappose la Marineide, risate. Ma debole egli era a petto al Marini così nello stil satirico, come nell’eroico. Tutti ridevano, ma non del Marini; del che il Murtola oltre ogni ragione alterato, macchinò più rio disegno: ma udiamo il Marini: «domenica passata che fu il primo di febbraio (1609), vigilia della Purificazione della Santissima Vergine, giorno per me sempre memorabile, sulla strada maestra presso la piazza pubblica poco innanzi alle 24 hore, il Murtola, mentre ch’io di lui non mi guardava, mi appostò con una pistolella carica di cinque palle ben grosse, et di sua propria mano molto da vicino mi tirò alla volta della vita. Delle palle tre ne andarono a colpire la porta d’una bottega che ancor se ne vede segnata, l’altre due mi passarono strisciando su per lo braccio sinistro e giunsero a ferire il Braida, giovane virtuoso, ben nato, et mio partiate amico il quale mi era allora a lato, et veniva meco passeggiando: talchè piaccia a Dio che la scampi. Questo è stato uno dei più sensibili et evidenti miracoli che sia seguito da gran tempo in qua. Miracolo certo della Beatissima Vergine, la quale per la particolar divotione ch’io le porto non volse soffrire ch’io in un giorno della sua festività fossi morto così villanamente per man d’un traditore: et miracolo anco di San Maurilio del quale agli 11 del mese passato io presi il sagro abito; et se ne vede la prova manifesta poichè tutta la parte sinistra del mantello nuovo è lacera et forata dalle palle eccetto la croce che sola vi è rimasa intatta et senza offesa alcuna. Il Murtola fuggendo, appena fu in piazza, diede tra i birri e fu preso, e condotto in prigione dove subito confessò d’aver tirato al Marini con animo deliberalo d’ucciderlo, affermando che quando avesse potuto gli avrebbe dato di bel mezzodì quando io era in carozza col duca,19 e coi cardinali.»
Il Murtola correa pericolo della forca se lo stesso Marini non si fosse reso intercessore per quello sciagurato, il quale recossi poscia a Roma dove fu adoperato in varii governi; forse perchè all’eia ferrigna non ripugnavano uomini capaci di spedienti risoluti e terminativi.
Si consolava il Marini d’aver fuggita la morte, cantando:
Pensò forse il fellon quando m’offese |
Ma col Murtola non s’erano allontanati da Torino tutti i nemici del poeta. Altezza d’ingegno, e liberta di favella bastavano a procacciargliene un nugolo in qualsivoglia corte, anche la meglio ordinata; e tanto più da temersi in quantochè occulti ed usi a saettar nelle tenebre. Marini avea composto a Napoli nella sua prima giovinezza, e prima quasi che cominciasse a risuonargli all’orecchio il nome di Carlo Emmanuele, un poema satirico intitolato la Cuccagna, in cui trafiggeva coll’usata mordacità i vizi veri o supposti dei grandi che avean maneggio d’affari o preponderanza in quella città. A Torino navca lasciato copia a qualche amico. L’arte de’ traditori fu di persuadere al duca che alcune di quelle allegorie fossero scritte in oltraggio di lui. Carlo Emmanuel e die orecchio ai malvagi, e subitaneo com’era nelle sue risoluzioni, prima di dar adito alle discolpe fe’ trarre in carcere il Marini, e porre sotto sequestro tutti i suoi libri e manoscritti.
Fra tutti i vizi che possono cadere in un principe è la precipitazione uno dei più pericolosi, massime quando si tratta di fatti, ne’ quali ei medesimo si tiene offeso, e di persone dalle quali ha avuto per l’addielro prove di devozione e d’affetto. Resistere egli debbe ai primi moti dell’amor proprio leso, ai primi consigli dell’ira, e rammentare che non è mai tanto grande, come quando sa vincer se stesso; gli conviene esser lento a ritirare altrui la sua grazia, più lento ancora a punire.
Mal ne seppe al cuor generoso di Carlo Emmanuele i di non aver seguitato queste norme, dell’esser passato col Marini dalle carezze ai birri, quando da uomini che avean veduto il malaugurato poema in Napoli, nella prima giovinezza del Marini, fu certificato non esservi ombra di vero in quello che gli era stato supposto. Alora i maligni, veduta crollar la macchina da loro indirizzata contro al poeta, cercavano di persuadere al duca, che se s’aprivan le porte della prigione al Marini, egli di sua natura, maledico e fiero, si vendicherebbe con velenose rime dell’oltraggio; e la fama di Sua Altezza ne rimarrebbe in perpetuo diminuita. Questa nuova malvagità rattenne breve tempo il duca, il quale prosciolse il poeta, e lo restituì nella sua grazia; ma nel rendere i manoscritti, annullò il poema, causa d’un tanto errore. E il Marino sapendo che i soli uomini impeccabili hanno ragione di chieder principi impeccabili; che la menzogna e l’adulazione assediando costantemente gli accessi del trono, bisognerebbe ai monarchi una tempra angelica per non cader mai in errore; che ad ogni modo il principe si debbe amar come principio quando non si può amar come uomo; e che per difetti anche soprabbondanti dell’indole sua, Carlo Emmanuele non lasciava d’esser primo capitano e primo uomo di stato de’ suoi tempi pio, umano, affabile, letteralissimo, e dell’indipendenza italiana caldo amico e promotore efficace; Marini, dico, continuò ad amare ed onorare il duca e gli altri principi di Savoia, a cantarne le lodi, a riceverne tenerezze e segnalati favori.
« Non volle il Marini fermarsi sotto quel cielo dove F ombre erano creduli corpi, e le apparenze sostanze. » Così il Loredano, suo biografo, generalizzando, secondo il solito error di logica, un fatto particolare, anzi eccezionale. Il vero è che Marini andò a Parigi onde stamparvi l’Adone, che qui non avrebbe potuto stampare. Dedicò quel poema a Maria de’ Medici, da cui fu regalmente guiderdonato con una pensione di 1500 scudi, e con presenti di gioie, e di moneta di grandissimo valore. E bene è da dolere che sien quei canti corrotti da alcune lascivie e non di solo stile, che giustamente li fecero condannare; perchè rifulgono di bellezze peregrine e mostrano un’altezza d’ingegno, e un magistero di versi certamente rarissimi; valga d’esempio l’invocazione, da cui s’inaugura il poema.
Io chiamo te per cui si volge e muove |
Tornato il Marini in Italia, ricevè a Torino tutti quegli incontri e quegli onori che Alessandro avrebbe renduti ad Omero;20 dedicò al principe Tommaso di Savoia il suo poema della Zampogna e n’ebbe in dono una ricca collana d’oro; il principe cardinale Maurizio lo volle seco nel viaggio di Roma. Ed in quella città e a Napoli ebbe onori ed incensi straordinarissimi, come sono usi, i troppo modesti o troppo gelosi Italiani, a renderli a que’soli il cui merito sia stato in paese straniero preconizzato. Morì a Napoli in marzo del 1625 d’anni 56, e mostrò in sul declinar de’ suoi giorni così profondo sentimento di dolore de’suoi peccati, e massime degli oltraggi dati al buon costume, che mosse a pietà tutti gli astanti. Finì la vita pronunciando il versetto: Miserere mei Deus, secundum magnani miserìcordiam tuam. Fu sepolto con pompa regia in San Domenico maggiore di Napoli.
Ma finita sì lunga descrizione torniamo al palazzo dei duchi di Savoia.
Carlo Emmanuele ii cominciò la nuova fabbrica del palazzo reale negli ultimi anni del suo regno co’ disegni del conte Amedeo di Castellamonte. Essa fu proseguita da Maria Giovanna Battista e dal re suo figliuolo. Grandi ne sono le proporzioni, ma non soda a gran pezza come ne apparisce la struttura. Nel sito in cui ora si vede la cancellata di ferro, un eleganle padiglione ornato di colonne, di marmi e di statue serviva come d’antiporta al palazzo, e compensava il difetto d’ornamenti nella facciata. Da quel padiglione mostravasi al popolo l’insigne reliquia della SS. Sindone; e furono talora a simil festa fino a sedici vescovi ed un cardinale.21 Dopo di essersi esposta alla pubblica venerazione dal padiglione, esponeasi ugualmente per maggior appagamento del popolo dalle due gallerie del castello, come abbiam veduto farsi nell’auspicatissime nozze dell’augusto Vittorio Emmanuele duca di Savoia colla Imperiale Arciduchessa Maria Adelaide.
Sopra lo scalone dei palazzo reale è la statua equestre di Vittorio Amedeo i, popolarmente famosa sotto al nome di cavallo di marmo. I montanari che dai gioghi e dalle valli alpine scendono in città non aveano altre volte idea di maggior opera dell’arte della scoltura. Ora che cominciano, per munificenza del Re, a vedersi pubblici monumenti, come si conviene a citta italiana, il cavallo di marmo è scaduto dell’antica fama. Fu modellato questo cavallo da Pietro Tacca di Carrara discepolo di Giovanni Bologna, ma è lavoro mediocre. Bella invece è la statua del duca in bronzo del Duprè. I due schiavi di marmo incurvati sotto al cavallo, di egregio lavoro, diconsi di Giovanni Bologna. L’atrio, e lo scalone di questo palazzo s’adornano di busti e di statue antiche, le quali derivano dal castello di Casalmonferrato, come quelle che vedonsi nel castello, e quelle che si vedeano nella galleria delle R. Segreterie di Stato.
Molte volte sono state descritte le opere d’arte che adornan la reggia; noi non ridiremo il già detto: ai nomi di Giovanni Miele, Daniele Seiter, Carlo Delfino, Claudio Beaumont, che vi dipinsero, conviene ora aggiunger quelli di Palagio Palagi Bolognese, di Podesti, d’Arienti, di Migliaia, d’Hayez, di Storelli, ed altri molti.
Molti pittori, la cui memoria è perita, contribuirono co’ loro pennelli all’abbellimento di questa reggia. Ho trovato i nomi d’alcuni di loro, e sono Luigi Vanier, Lorenzo Bononcelli, Salvator Bianco, Pietr’Antonio Pallone, Gerolamo Ghersi, Aurelio Gambone, che operarono dal 1686 al 1694.22
Ma l’arte a quel tempo era scaduta, e maggior copia, certo d’illustri pennelli ebbero a’ loro servigi Emmanuele Filiberto e soprattutto Carlo Emmanuele i e Maria Cristina, sua nuora, che non Carlo Emmanuele ii e Maria Giovanna Battista. E nondimeno la reggia Torinese e ancora per l’interno suo splendore una delle più ricche e più magnifiche; e la camera chiamata dell’alcova, tutla ornala di grandissimi vasi del Giappone, non teme confronti.
Il padiglione che dividea la piazza Castello dal palazzo reale e la galleria, che congiungeva il castello, o palazzo di Madama col palazzo del re, furono atterrali ne’ primi anni del governo francese.23 Allora si trattò pure di distruggere il castello sotto colore di togliere ogni ingombro alla piazza.
Per buona sorte l’occhio di Napoleone fu più artistico e la sua volontà più discreta che quella dei barbari che avean messo innanzi un disegno lanto balordo, e il castello rimase.
Note
- ↑ [p. 462 modifica]Conto del tesorier generale.
- ↑ [p. 462 modifica]Monsignor di Montigian, e monsignor di Termes che occupavano le case del generale Sebastiano Ferreri (stipite degli antichi e del moderno principe di Masserano), situate nella parrocchia di Santa Maria. Prima della guerra abitava nell’arcivescovado Gotier Lopez, ambasciadore di Carlo v.
- ↑ [p. 462 modifica]S.Carlo Borromeo fu alloggiato in casa della conlessa di Pancalieri. V. informazioni prese dal cardinale Lauro sull’utilità della vendita del palazzo arcivescovile. Questa vendita non fu stipulata che il 12 febbraio 1583, ed approvata il 14 dicembre 1584. V’era allora il progetto di costruire col prezzo della vendita (12ꞁm. scudi, cresciuti poi fino a 15ꞁm.) un altro palazzo arcivescovile sulla piazza di San Giovanni, di fronte al duomo.
- ↑ [p. 462 modifica]V. Storia di Torino, voi. i, 260.
- ↑ [p. 462 modifica]Inventaire du chateau de Turin.
- ↑ [p. 462 modifica]Conto del tesorier generale Valle.
- ↑ [p. 462 modifica]Pasero ed i padri Robiolio e Ballada avevano perfino cercato di persuadere all’Inquisizione di Roma che per arie magica il Cauda scopriva i segreti de’ gabinetti de’ principi, e li rivelava al duca; ond’era ventilo l’ordine al padre inquisitore di procedere contro al Cauda. Ma il duca non lo permise.
- ↑ [p. 462 modifica]Memoria sulle calunnie nere ed esecrabili contro alli presidenti Cauda, Ruffino, ecc. Archivio di corte.
- ↑ [p. 462 modifica]Questo si ha dalle storie del Castiglioni medesimo, il quale delincando il ritratto del Pasero, lo chiama: amatore di novità, di spirito inclinato ai risentimenti, dedito alle vendette, pronto alle violenze.— Archivi di corte.
- ↑ [p. 463 modifica]Tutte le cose narrate risultano dagli atti de’ relativi procedimenti. Del supplicio delle due donne parla anche il Soleri nel Diario già citato.
Nel 1720 v’era a Castellamonte una donna chiamata Antonia Polletta, creduta dal volgo regina delle streghe. — Poco prima, in Savoia, un canonico era condannato, in contumacia, dal Senato alla pena di morte, per aver passato tre dì e tre notti nella caverna des Balmes per far sortilegi coi libri d’Agrippa, e trovar tesori. - ↑ [p. 463 modifica]Archivio di corte. Materie criminali.
- ↑ [p. 463 modifica]Lasciatolo quasi per morto, restò senza poter più muover la lingua quasi esanimato. V. La calunnia svelata', ovvero Li riscontri dell’innocenza difesa, dell’illustrissimo ed eccellentissimo signor conte Catalano Alfieri. Libro a stampa nella biblioteca di Sua Maestà.
- ↑ [p. 463 modifica]Soleri, Diario.
- ↑ [p. 463 modifica]Biblioteca Modenese, vi, 312.
- ↑ [p. 463 modifica]Più de’ fiorini 7475 pagati al signor cavaliere Zuccaro, pittore per intiero pagamento della servitù fatta, si da lui, che da’ suoi uomini, tanto alla galleria, ch’ altr’opere, sino per tutto aprile prossimo passalo. — Conto del tesoriere Valle. 1606.
- ↑ [p. 463 modifica]Monnier, Antiquités, memoires, etc., de France, Bourgogne, Savoie, Piedmont, atc. Lille, 1614, pag. 46.
- ↑ [p. 463 modifica]Theatrum statuum R. Cels. Sabaudiae ducis, etc.
- ↑ [p. 463 modifica]Nell’Archivio dell’insigne badia di Montecassino, dove fui accolto colla più cortese ed amorevole ospitalità, e dove contrassi care corrispondenze d’affetto, si conserva un registro di lettere del cardinale Aldobrandino del negociato della pace conclusa in Lione tra Arrigo iv e Carlo Emmanuele i.
- ↑ [p. 463 modifica]Così onoravansi da quel principe i nobili intelletti.— E il Chiabrera, non ornalo d’altri ricami che del proprio merito, fu dallo stesso duca fatto servire, mentre dimorò a Torino, d’una delle sue carrozze a quattro cavalli, dimostrazione d’amorevolezza, la quale, come nota il biografo, solea farsi agli ambasciatori de’ principi. — Del Marini e del Murtola parlano il Cinelli nella Biblioteca volante, iii, 379; il Ghilini, nel Teatro d’uomini letterati, 104.
- ↑ [p. 463 modifica]Gianfrancesco Loredano nella Vita del Marini.
- ↑ [p. 463 modifica]Guida di Torino 1753 (del Craveri).
- ↑ [p. 463 modifica]Conti dei tesorieri generali.
- ↑ [p. 463 modifica]Fu ordinata la demolizione in marzo del 1801.