Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
capo sesto | 437 |
mia fede ed incorrotta integrità ricevano notabilissimi aggravii per ridicolissimi sospetti, io veramente rimango stupito di quanto al mio ritorno mi vien significato. Povero principel Poveri servitori! A questo segno giunge la perfidia di voler trionfare dell’innocenza! V. E. si compiaccia farmi pervenire quelle cieche infamie, perchè io svelerò quell’incarnato demonio che ne è l’autore, e non m’ingannerò, perchè riabbiamo molti riscontri urgenti ed infallibili...
A crescere la miseria di questo ministro gli sopraggiunse l’ 8 dicembre un’altra grave amarezza. Aveva egli casa e podere a Doirone, e non essendo di sua natura punto agevole, viveva in perpetue quislioni coi vicini. Il popolo dibassano, vedendolo scaduto dalla grazia del principe, sonata campana a martello, andò ad insultare i suoi massari, a diroccar le muraglie, a guastargli i giardini con parole contro di me che non si direbbero ai cani, fatti mille sprezzi come se fossimo nella Tracia, e in un paese in cui non vi fosse ne Dio, ne principe, ne legge... quanto a me, bramo morire per non sopravvìvere alle mie pubbliche ignominie. Tali angosciose querele mandava il Blancardi in lettera ai segretario di stato Buonfìglio.
La sua brama di morire fu pur troppo, e in modo crudelissimo, esaudita.
Fin dal 10 novembre 1674, Leone, uno dei delegati, accennando al libello, scriveva ad un ministro