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436 | libro terzo |
principe una condanna di 150ꞁm. ducatoni che gli era dovuta — che egli solo sapeva il fallo, e che con gli atti e le dottrine alla mano farebbe tacer tutti — esser vero che queste non erano parti di giudice, ma che il giudice non fa mai male quando fa ciò che porta il giusto. — I ministri che pensavano diversamente non poter essere che ciechi e maliziosi. — Che sperava d’essere giustificato, e poi pregherebbe S. A. di gradire la resignazione delle sue cariche, amando egli l’onore e non gli onori e dimettendo volontieri quelle pompose spoglie. »
Altra volte chiedeva un processo fulminante con cinque o sei ministri che lo sentissero mezz’ora col processo alla mano, e se si trovasse tardanza o colpa menomissima volea esser punito: io chiamo giudici rigorosi e non grazia, quando sia reo: castigo e non perdono. Così egli. Il duca deputò a sentirlo Novarina primo presidente, Blancardi, Leone, Balegno e Frichignono senatori; ma egli rispose: che cosa dirà ai delegati? Stima miglior partito far una scrittura in cui dirà di più di ciò che direbbe a voce; nuovamente giurando che in ciò che riguarda il servizio di S. A. e la giustizia non ha un peccato veniale.
Intanto spargevasi un infame libello contro al duca, del quale subito si fe’ correr voce esser Blancardi l’autore. Fu creduto agevolmente, per trattarsi d’uomo d’indole maledica e disgustatissimo. Avvertito della nuova accusa, scrisse a Truchi: benchè la