Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/2

Capitolo II. Prime armi di Raimondo

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Capitolo II

Prime armi di Raimondo


All’aprirsi del secondo periodo della guerra dei trent’anni, cioè nel 1625, ebbe Raimondo a conoscere Rambaldo di Collalto, friulano, rinomato generale al servizio dell’imperatore, che venne poi a morte cinque anni appresso, dopo avere la sua gloria oscurata col non impedire il saccheggio di Mantova, [p. 37 modifica]patria della moglie del sovrano pel quale militava, e dove egli stesso era nato, con che molto nocumento arrecò alla causa imperiale. A lui, se crediamo al Siri, anziché al Wallenstein che lo chiedeva, era stato concesso allora il comando delle truppe in Italia “come meno altiero e più dipendente”. Ad escusazione però del Collalto allegar si potrebbe che essendo egli al tempo del sacco di Mantova infermo, Aldringer e Galasso di questo si debbano chiamar responsabili; e il primo molto più che il secondo, avendo esso diretto le operazioni militari, e dati gli ordini pel saccheggio, nel quale a sé attribuì quanto era nel palazzo ducale, che fu trovato ascendere al valore di otto milioni di scudi, oltre quanto ritrasse vendendo prigionieri di guerra. Fulvio Testi che a nome del suo sovrano ebbe allora a trattare con lui, lo dice “vano, cupido di lodi, uno de’ più scaltri, de’ più avveduti, de’ più capricciosi uomini che si possano praticare nel mondo”. Nato lussemburghese, morì a Landshut in Baviera nel 1634. Era egli stato, al dire del Mailàth, servitore di un francese, che in Francia gli procacciò modo d’istruirsi, e passò poi scrivano a Trento. Rapidi avanzamenti nella milizia lo condussero finalmente, senza che segnalate imprese ei compiesse, ai più elevati gradi militari. Delle estorsioni delle truppe tedesche nel mantovano gran cose si dissero a Vienna, secondo di là scriveva Ottavio Bolognesi: e dichiarò anche il duca di Guastalla avere esse in due mesi consumato quanto bastato sarebbe per due anni. Molti di quei soldati che depredavano sul modenese furono uccisi dai contadini e dai cittadini con consenso, afferma lo Spaccini, del duca di Modena. Ma per rifarci alla venuta del Collalto a Modena nel 1625, non sappiamo se cagione della medesima fosse un incarico che dato gli avesse il generale Ernesto, o anche il duca di Modena, di condurre, come appunto fece, in Germania il giovane Raimondo desideroso d’intraprendere la carriera militare, ovvero se qui lo traesse il desiderio di visitarvi i Rangoni parenti suoi. Eragli nipote, secondo lo Spaccini, il marchese Fortunato: ed una figlia di Lodovico e di Bianca Rangoni s’era sposata nel 1622 al conte Marco Collalto, nella [p. 38 modifica]qual circostanza un fatto accadde che intralasciar non vogliamo di raccontare, dietro quanto lasciò scritto lo Spaccini. E fu che dopo compiuta la cerimonia nuziale, che ebbe luogo nel palazzo ducale, si gettò la sposa in ginocchio dinanzi al duca Cesare chiedendogli grazia per suo fratello Giulio, che vedremo poi militare in Germania, il quale era esule dallo stato, forse per essere andato nel precedente anno col fratello Baldassarre alle guerre di Piemonte, al quale scopo contrassero un debito di tremila ducatoni col comune del feudo loro di Spilamberto. Il prender soldo dalla casa di Savoia doveva infatti riescir molesto al duca di Modena costretto a mandar soldati ai nemici di que’ parenti suoi. Stette fermo il duca nel niego, ma alla nuora sua l’infanta Isabella concesse poi il ritorno di Giulio, purché non entrasse in Modena. Era stata codesta giovane, che recava in dote ventimila ducati, richiesta in matrimonio da due Gonzaghi, e da più nobili che si profferivano ancora di porre stanza in Modena; ma Bianca sua madre l’aveva a tutti ricusata . Prese adunque il Collalto con sé il sedicenne Raimondo nel suo ritorno in Germania, e ad Ernesto ch’esser doveva il suo mentore, lo condusse. Dispose Ernesto che come semplice soldato, ora tra i fanti, e ora in mezzo alla cavalleria o all’artiglieria le diverse fogge del combattere venisse imparando. Più lungamente però in quel primo stadio della sua vita militare rimase egli nella cavalleria; che sempre poi, e così accadde al Turenna, gli fu in predilezione, quantunque in una lettera sua al duca di Modena in molto pregio mostrasse di tenere la fanteria altresì, “nella quale si ha modo d’imparare bene la disciplina militare che dev’essere il fondamento d’ogni carico e d’ogni onore”. Passò egli adunque dall’una all’altra qualità di milizia, or colla picca or col moschetto in ispalla, come scrisse il Priorato, e salì poi pe’ gradi subalterni a quello d’alfiere, e successivamente all’altro di capitano di cavalli nel reggimento di Annibale Gonzaga principe di Bozzolo, dopo esser stato prima, come nota [p. 39 modifica]l’autore ch’or ora citammo militante pur esso allora in Germania, nel reggimento del colonnello Corpus, nella compagnia del capitano Hervart.

Nel 1626 fu egli a Modena, e rimane memoria che da sua madre mandato ei fosse, non so per qual cagione, a visitare un cavalier Baranzoni: ma tosto si restituì egli all’esercito del generale Ernesto. Raggiunse Raimondo, come credo, quest’ultimo nella Slesia da lui e da un conte Donà tenuta allora in custodia; e in tal caso avrà esso pure preso parte ai conflitti che in quell’anno e nel successivo ebbero luogo fra gli imperiali e le truppe del duca Bernardo di Weimar, avendo Ernesto, mentre durante un’infermità del Wallenstein tenne il comando supremo, riportato in più scontri notevoli vantaggi, come narra nella sua storia di Ferdinando II Gualdo Priorato. Nel giugno e nel luglio del 1627 furono poi le genti del Weimar, che numeravano colà dodici mila uomini, da Ernesto debellate e disperse, colla perdita di 35 stendardi e di molte bandiere che il Wallenstein mandò a Vienna. Ritornò Raimondo per più lungo soggiorno in Italia alla fine del 1627 allorché erano gl’imperiali ai quartieri d’inverno, e tosto volò a Montecuccolo per riabbracciarvi la madre e i fratelli. Colla madre venne egli a Modena, dove la narrazione dei fatti che allora accadevano in Germania può credersi ponesse in apprensione il cuor materno di lei, giacché quanto siamo per dire sembra lasciar luogo a congetturare che distorre lo volesse dal ritornare all’esercito imperiale. Vediamo infatti che lo affidava essa suo primi del 1628 al conte Francesco Montecuccoli che ci verrà più volte nominato, il quale moveva allora, crediamo a diporto, per Roma e Napoli: ed egli sel tenne infatti compagno in quel viaggio. Né andremo per avventura lungi dal vero reputando che dalla visita de’ monumenti famosi dell’antichità, da lui già veduti in età infantile a Roma, e dalle meraviglie della natura in quelle regioni fortunate, traesse la giovin’anima di Raimondo eccitamenti a volere colla virtù e col senno seguitare le orme di que’ grandi, le memorie de’ quali così vivaci perdurano, a Roma singolarmente. E che in quella città e in [p. 40 modifica]altre ad alcuni studi egli attendesse, lo dicono i biografi (ed è infatti credibile, per Roma, allorché vi fu egli paggio del cardinale d’Este); ma di ciò non forniscono le prove. E’ nell’archivio di stato a Modena una lettera da Raimondo il 22 aprile del 1628 indirizzata a Girolamo Torre, nella quale lamenta una infermità a quel tempo sopraggiunta a sua madre; ma quella viril donna o inferma o sana non cessava di occuparsi de’ figli suoi. Undici giorni innanzi che Raimondo scrivesse quella lettera, qualche pratica ebb’ella ad introdurre acciò venisse egli, che era allora sulle mosse per passare da Napoli a Roma, annoverato tra i cavalieri che accompagnar dovevano alla corte di Savoia il principe Francesco (che poi fu duca) “non ostante,” secondo scriveva essa “la debolezza della povera sua fortuna. Nulla ei bramerebbe di meglio,” soggiungeva poi, “che spendere in servigio del suo principe quella vita che già gli ha dedicata”. Nuova dimostrazione codesta, se male non m’appongo, del desiderio di lei di ritenere in patria quel figlio suo. Accettata dal duca l’offerta, veniva Raimondo chiamato a Modena; della qual cosa fa testimonianza la lettera colla quale il 22 aprile annunziavagli quest’ultimo l’imminente sua partenza da Roma . Se non che desideroso di continuare l’intrapresa carriera, l’incarico offertogli non accettò, preparandosi invece a ritornare in Germania. Il principe Francesco, propenso com’era a quanto avea tratto alla milizia, anziché di ciò dolersi, faceva plauso alla risoluzione da lui abbracciata in una lettera al generale Ernesto che trovo riportata nel manoscritto del Gregori, e reca la data del 21 giugno 1628, la quale parmi [p. 41 modifica]dovere a questo luogo riferire. “Io accompagno con mia lettera la venuta del Co. Raimondo in codeste parti dove son tante onorate occasioni di travagliarsi, come ho lodato grandemente la sua risoluzione. So che presso Lei che gli è parente è superfluo ogni officio, nondimeno ho voluto scrivere, non tanto per raccomandarglielo, quanto per assicurarlo ch’egli dotato di qualità degne della sua nascita merita ogni aiuto e favore”. Ci rimane poi la lettera colla quale a consimili raccomandazioni fattegli dal duca Cesare, rispose Ernesto promettendo favorire secondo suo potere il cugino, del quale aveva potuto apprezzare le singolari qualità dell’animo; e ciò vie più per meritare a sé la continuazione delle grazie del suo sovrano. Fu per avventura compagno di viaggio a Raimondo il fratello di Ernesto da noi nominato.

In Ulma rivide Raimondo il generale, e fu poscia nell’ottobre con incarichi militari a Colonia. Da una lettera che di colà scriveva il dì trenta di quel mese a Girolamo Torre ci è conto che di recente era stata sua madre nuovamente inferma, e il nome vi troviamo delle persone colle quali maggiori relazioni ebbe Raimondo durante la sua dimora in patria: ed erano una contessa Laura della quale non è indicato il cognome, due conti Cesi, il marchese Bevilacqua, il celebre Fulvio Testi, un Gherardini probabilmente del Frignano, un Torricelli, e un dottor Ricci, lo stesso, credo, che in Vienna sostenne per gli Estensi offici diplomatici. Dei Montecuccoli non sono in quella lettera nominati se non i conti di Renno, avversi già al padre di lui, secondo dicemmo; ed erano senza dubbio altri del parentado suo assenti allora da Modena. Ancora è parola nella lettera di un signor Sigismondo senz’altra indicazione. E da Colonia, donde scriveva Raimondo la lettera ora accennata, passò egli a Swanzig nel paese di Juliers, avviato, siccome al duca annunziava, alla Germania superiore al seguito del cugino Ernesto.

Non guari dopo il tempo in che queste notizie somministrava al principe suo il giovane guerriero, giungeva in Vienna, in officio di residente estense, e con lettere commendatizie pel conte Ernesto, Ottavio Bolognesi, ch’esser doveva poi confidente amico [p. 42 modifica]di Raimondo, intorno al quale copiosi ragguagli sarà per somministrarci. Rilevanti servigi egli aveva reso da prima a don Siro ultimo sovrano feudale di Correggio, patria di lui, della qual terra l’investitura lungamente dinegatagli ottenuto gli aveva con titolo di principe. Ma nato don Siro a condurre a ruina la casa sua, de’ consigli del suo ministro non tenendo conto, finì coll’aver confiscato il feudo che venne più tardi al duca di Modena Francesco I conferito. Trovò quest’ultimo già al servigio della casa d’Este il Bolognesi, accoltovi dal duca Alfonso III suo padre, e lo mandò, come or dicevamo, ministro suo alla corte imperiale. In quell’officio, ch’ei tenne 16 anni, di tanta avvedutezza e di cotanta attitudine alla trattazione degli affari diplomatici dette egli prova, che altri principi ancora e la repubblica di Genova di lui confidentemente si valsero, Vittorio Amedeo di Savoia singolarmente e il cardinal Maurizio . Al principe della Mirandola ottenne egli il titolo di duca. Conoscitore di più lingue, ebbe agio a bene addentrarsi nella informazione de’ pubblici negozii, e fu poi caro a tre imperatori, e ascritto da Ferdinando II nel 1633 alla nobiltà imperiale, in attestato, come ebbe esso ad esprimersi, della soddisfazion sua pel modo con che presso di lui rappresentato aveva la corte di Modena e quella ancora di Torino. Gli venne, o allora o più tardi, assegnato l’onorario di 2000 talleri annui, più 500 per aiuto di costa, secondo diceva in una lettera sua il maggiordomo Francesco Montecuccoli; il quale in altra spiega poi esser stata questa una giunta pel caro de’ viveri e per altre cose. Gli si pagava inoltre quanto avesse a spendere nella posta e nella spedizione de’ corrieri.

A Vienna era egli mandato per trattare della cessione di Correggio al duca di Modena, che dietro gli spedì in breve il suo ministro Testi, essendoché tanto s’era acceso nel desiderio [p. 43 modifica]di quell’acquisto, da reputare non essere mai soverchie le cure e le spese che potessero di tanto contentarlo. Giunse persino a dare facoltà a que’ suoi agenti di proporre al ministro imperiale Eggemberg, potentissimo allora, la mano della propria sorella Margherita, la quale ancora non avea raggiunta l’età di 12 anni, pel figlio di lui, con dote di 100.000 ducati, se l’intento suo gli facesse conseguire. Doveva altresì il Bolognesi adoperarsi acciò al duca stesso venisse data in moglie una figlia dell’imperatore: ma presto intorno a tutti questi progetti avendo il duca mutato avviso, mise invece ogni studio affinché le proposte non sortissero effetto, come infatti accadde . E anche desiderò ricompensare il ministro con denaro anzi che col sagrificio della sorella; se non che nulla essendosi per allora concluso circa Correggio, la cosa cadde da sé. Allorché riprendeva il Bolognesi in Vienna la carriera diplomatica, la casa d’Austria che ai giorni nostri soltanto cessò dall’avversare ogni conato di libertà ovunque si manifestasse, industriavasi ad agevolare al ramo suo regnante in Spagna gli sforzi che le soldatesche comandate da Ambrogio Spinola e da altri capitani andavano facendo per rivendicare al principe loro il possesso delle provincie de’ Paesi Bassi, che l’intolleranza di Filippo II e la crudeltà del duca d’Alba avevano tratte a ribellione. E durò poi la lotta, benché più volte intermessa, insino a che non ebbero quelle provincie nel 1678, mercé la pace particolare che precedé quella di Nimega, posta in sicuro la loro indipendenza. E questa contro la quale andava a combattere Raimondo Montecuccoli fu più tardi, per singolare rivolgimento di fortuna, da lui stesso tutelata allora che ebbero i francesi a porla a repentaglio.

Mandò adunque nel 1629 l’imperatore un corpo ausiliare agli spagnoli, affidandone il comando ad Ernesto Montecuccoli. [p. 44 modifica]Una delle prime lettere del Bolognesi dopo il suo arrivo a Vienna, colla data del 12 gennaio di quell’anno, annunziava al duca la partenza di quel generale a capo di 17.000 uomini; e successivamente scriveva che unitosi Ernesto agli spagnoli del conte di Berga, erano insieme entrati a forza nelle isole vallone, uccidendo due mila (ed altri dissero cinquemila) olandesi in tre fazioni campali. E col cugino era allora Raimondo; del quale ci vien saputo avere ne’ Paesi Bassi avuto parte negli infruttuosi tentativi che si fecero per soccorrere Bois-le-duc, che assediata dall’Orange finì col cadere in poter suo, non essendosi egli da quella impresa lasciato distorre dalle abili mosse del generale Ernesto, che contro di sé tentava richiamare lo sforzo delle truppe olandesi, manovrando in modo da prender posizione tra la Zwidersee e il Reno, la qual cosa sarebbe stata agli olandesi perniciosissima . E questi allora fecero, con largo sborso di moneta, affrettare leve di soldati in Inghilterra e in Germania, sino al numero di 20.000 uomini. Per agevolare le imprese che meditava, apprestavasi intanto il Montecuccoli ad assediare Arnheim, la qual cosa empì di terrore, appena vi fu conosciuta, il campo nemico; e in Amsterdam tumultuava il popolo, e mettevano in salvo i più doviziosi le cose loro, ond’è che tremila uomini dovettero spedirsi ad assicurare quella piazza . Ma colà accorreva intanto con molte forze Ernesto di Nassau; ond’è che il Montecuccoli, mutato pensiero, si gettò sopra Amersdorf, vicino alla qual città era un castello che fu espugnato da Raimondo, entrandovi primo per la breccia colla bandiera imperiale. E primo entrò pur anche nella città conquistata da Ernesto, benché non ancora ne fosse uscita la guarnigione di due mila fanti e due compagnie di cavalli, come e il Bolognesi e il Priorato nelle Vite di Ferdinando II e III raccontarono. Del conquisto del forte non tacque poi lo stesso Raimondo, allorché i principali suoi fatti d’arme ebbe a ricordare all’imperatore in un Memoriale che altre volte ci verrà nominato. [p. 45 modifica]

Era egli a quel tempo, secondo lo stesso Priorato ci riferisce, passato dalla cavalleria ad un reggimento di fanti comandato da un colonnello Wangler, o meglio Wangher, come lo chiama nel Memoriale il Montecuccoli; il quale negli Aforismi notò eziandio essere stato codesto reggimento il solo che dopo la battaglia perduta a Lipsia si ritraesse illeso alla città. Aveva allora Raimondo il grado di alfiere. E della dimostrazione che far poté nella circostanza che dicevamo del valor suo al cospetto di tutto l’esercito, avendo Raimondo dato contezza al duca di Modena, lusinghiero incoraggiamento ne ritraeva a proseguire nella carriera incominciata. L’assicurava esso al tempo medesimo che “degli avanzamenti suoi ne sentirebbe particolar contentezza, e cercherebbe cooperare a quelli con tutto lo spirito”.

Ebbero le truppe imperiali per concessione di Margherita Farnese governatrice de’ Paesi Bassi i quartieri d’inverno in quelle parti, ma a Raimondo e al reggimento suo furono destinati in Colonia. Di là scriveva il 4 dicembre al duca di Modena una lettera di augurio, nella quale dava anche conto di sé e della guerra colle seguenti parole: “Gli Hollandesi insuperbiti dal favore della fortuna ci molestano ancor ne’ quartieri, e ci mettono in necessità di tenerci ben fortificati, et allestiti con buone guardie, e con ciò che si conviene; e nonostante la buona diligenza un Capitano d’Infanteria et un altro di Cavalleria sono ancora stati battuti e fatti prigionieri; e la cagione principale è la pessima natura di questi paesani, i quali se bene sono suggetti ad un principe cattolico, al duca di Neuburg, sono però d’animo ribelli, e la maggior parte di fede Calvinisti”. E con quest’ultima circostanza accennò Raimondo alla ragion precipua che micidiale cotanto e così lunga rese la guerra che fu detta de’ trent’anni; l’aver cioè i protestanti tedeschi favorito quasi ovunque, per ottenere libertà di culto, i nemici dell’impero. Ma questa guerra che costò agli olandesi la perdita del famoso lor condottiero Maurizio di Nassau, morto di dolore per la caduta della fortezza di Breda dopo lungo assedio in potere dello Spinola, fu poi dovuta troncare a mezzo, l’occupazione [p. 46 modifica]della piazza di Wesel fatta dagli olandesi a tradimento colà introdotti da un cittadino, avendo privato delle provvigioni e dei viveri i nemici loro, costretti perciò a ritirarsi mentre stava Ernesto assediando la fortezza di Hattem, la caduta della quale sarebbe tornata di molto pericolo per l’Olanda. Anche la perdita di Bois-le-duc venne a rendere peggiore la condizione degl’imperiali. Si ritrassero essi allora a Rimberg, donde andò Ernesto a Brusselles; ed ebbero durante la lontananza di lui le truppe sue uno scontro con esito infelice con quelle del duca di Nassau. Onde parve all’imperatore che s’avesse a rinforzare quell’esercito: e il Bolognesi ci avvisava che ordinò partissero otto mila uomini alla volta di Fiandra, il che ignoro se avesse luogo.

Le guerre de’ Paesi Bassi, come nelle sue storie notò il Cantù, furono una palestra continua di tattica, e grandi generali si formarono nel campo di Maurizio d’Oranges; il quale, dice egli, conosceva l’arte degli accampamenti e delle marce quanto Montecuccoli (intendasi Raimondo in età più provetta) e il fortificar piazze quanto Vauban. E furono queste guerre medesime campo di gloria ad Ernesto Montecuccoli, circa il quale lasciò scritto Ugo Grozio queste memorabili parole: “Numquam res Ordinum pejori loco visæ, quam cum Ernestus Montecucculus Bataviam premeret”. E sì che ostacoli grandissimi al guerreggiare in quelle contrade opponevano la qualità de’ luoghi, le innondazioni, l’ardore di que’ popoli nel difendere le loro contrastate libertà civili e religiose contro il dispotismo e l’intolleranza di Filippo II di Spagna e degli alleati suoi. Grande scuola del rimanente codeste guerre per chi, come Raimondo, vi faceva le prime sue prove nell’arringo militare .

Durante la guerra batava lo zelo imprevidente e funesto dell’imperatore Ferdinando II, odiatore implacabile de’ protestanti, gli faceva proclamare quell’editto del 22 maggio 1629, che si disse di restituzione, pel quale ai protestanti quelle proprietà già ecclesiastiche si toglievano, delle quali da più tempo, [p. 47 modifica]e in alcuni casi da un secolo, erano in possesso. Fomite codesto a quell’accrescimento degli odii religiosi che turbavano la Germania, e che indusse gli svedesi, guidati dal celebre loro re Gustavo Adolfo, ad assumere in Allemagna il compito che il re di Danimarca, più volte battuto dalla lega cattolica diretta da Tilly e astretto in fine a far pace da Wallenstein, aveva dovuto abbandonare. Il terzo periodo incominciava allora della guerra dei trent’anni . E appunto insin da quando calde istanze ebbe a fare il cardinale Richelieu a Gustavo perché movesse contro l’imperatore le armi sue poderose, con più vigore insistevano nella dieta di Ratisbona presso Ferdinando i principi, perché al Wallenstein, che era il più fortunato tra i generali dell’impero, venisse tolto il comando, del quale a dir vero egli abusava estorcendo denaro per ogni dove, che in parte poi distribuiva tra i partigiani suoi, e in parte profondeva ai soldati che ligi voleva a sé solo . Lui odiavano i principi alemanni, paventando ciascuno di essi per sé, minacciato avendo egli di cacciarli tutti di Germania: e perché più forti di quelli degli altri erano i reclami dell’elettor di Baviera capo della lega cattolica, l’imperatore scosso ancora dalla severa condanna che alla politica sua inflisse la dieta germanica, si vide astretto a licenziarlo. E con ciò certi singolari progetti venivano meno che il giovane duca di Modena, abbagliato forse dall’aureola di gloria che circondato [p. 48 modifica]aveva insino allora il nome di Wallenstein, o attratto anche dalla fama delle straordinarie ricchezze da quel generale accumulate, e facendo disegno di averlo aiutatore nelle imprese e negli acquisti che meditava, sembra avesse cominciato allora a formare progetti che ci vengono da una lettera di lui manifestati, nella quale chiedeva al Bolognesi se vero fosse non avere il Wallenstein se non una figlia sola; e voleva schiarimenti circa l’età di essa e la dote. E non aveva infatti quel generale se non una figlia, della quale son noti i soavissimi affetti che lo Schiller nel magnifico suo poema drammatico Wallenstein disse, o meglio immaginò a lei, in età troppo tenera allora per cotale bisogna, inspirati da un colonnello Piccolomini, uno di que’ nipoti del generale stati a quella guerra, e che quasi tutti perirono combattendo.

Era intanto l’imperatore uscito dalla dieta con isminuta riputazione, senza generale e quasi senza esercito proprio, essendo da prevedere che quello di Wallenstein sarebbe senza di lui andato disperso. Ma egli che dagli storici suol venire rappresentato non privo di vigore, geloso molto del decoro dell’impero e a bastanza desideroso del bene dei sudditi; con che intenderanno dire di quelli che erano cattolici, e non certo degli altri; io stimo che molto minor pensiero si desse degli affari dello stato di quello che attribuito gli viene. Ottavio Bolognesi ministro del duca di Modena presso di lui, confidente suo e de’ ministri e cortigiani imperiali, uomo, secondo dicevamo, di fino accorgimento e che d’ogni cosa teneva nota, non si peritò, quantunque a Ferdinando affezionato, e zelante dell’onore dell’impero, di porgere ragguaglio al principe suo circa a quei particolari ancora che non tornavano ad encomio dell’imperatore. Così mentre il Mailàth, storico non sempre imparziale, troppo facendo a fidanza con quanto intorno a Ferdinando scriveva il gesuita belga Lamormain , ce lo rappresenta di continuo [p. 49 modifica]occupato in affari di stato, e solo prendersi a sollievo delle fatiche il divertimento della caccia, il Bolognesi che vedeva come le cose davvero passassero alla corte, ci mostra invece alieno Ferdinando dalla trattazione degli affari, e ben tre quarte parti dell’anno spendere nel correr paese cacciando o pescando, insieme a cortigiani, e talvolta accompagnato dalla moglie: ond’è poi che dei duecento cavalli delle sue scuderie ne andasse una buona porzione per le fatiche rovinata. Una tabella, che è tra le carte del Bolognesi, e dice delle diverse qualità di caccie e delle epoche nelle quali ad esse prendeva parte l’imperatore (La riprodurremo in nota), porgerà su questo particolare curiosi ragguagli . Anche Sebastiano Venier nunzio veneto scrivea al senato di questa smodata passione dell’imperatore Ferdinando per la caccia, e diceva che costretto a fare economie, aveva preferito che cadessero sulla cucina di corte, nulla volendo detratto ai 650.000 fiorini che spendeva in musiche e caccie. Luogo di convegno per le caccie era più comunemente Ebersdorf, ove i ministri che sbrigar doveano gli affari era di mestieri andassero di frequente per far munire i documenti della firma imperiale, e talora per alquanto tempo vi dimorassero: più volte ebbe perciò il Bolognesi ad intraprendere quel viaggio per intrattenersi di commissione del duca di Modena col principal ministro Trautmansdorf. E perché era questi giuocatore instancabile, gli convenne una volta ritornarsene a Vienna senza averlo veduto, essendoché dato avesse ordine che nessuno fosse lasciato entrare in sua casa, volendo l’intera giornata aver libera per soddisfare a quella passion sua. Minor danno però in altra consimile circostanza gl’incolse, perché essendogli riuscito introdursi nella camera da giuoco; quantunque gli toccasse rimaner spettatore per cinque ore degli spassi di quel ministro, finché vinti non avesse al conte Girolamo Montecuccoli 1400 ungheri, e 115 ad un conte Wolenstein, poté nondimeno, essendo già notte, dar corso all’affare che colà lo aveva menato . Uomo per altro il Trautmansdorf di alacre ingegno, [p. 50 modifica]sapeva trovar tempo ancora per attendere alle cose dello stato, salvo che procedevan esse con lentezza maggiore di quello che al bisogno del paese occorresse, e a quello specialmente dei soldati; i quali, mentre egli giuocava, e l’imperatore correva i boschi, morivano di fame. Il padre Quiroga, un antico soldato fattosi cappuccino, che bazzicava alla corte, lasciò una volta sfuggirsi di bocca essere il Trautmansdorf un quarto Ferdinando, della qual cosa alquanta gelosia ebbe a prendere l’imperator vero, che volle da sé definire il primo affare che gli venne alle mani. Se non che, continua il Bolognesi, furono poi i successivi trattati, secondo il solito, dal ministro, essendo l’imperatore ritornato alle sue caccie, incurante delle rimostranze che a quando a quando gli facevano i ministri perché, nelle circostanze almeno di maggior momento non avesse ad allontanarsi dalla capitale . Piacevasi altresì l’imperatore Ferdinando de’ conviti, ne’ quali largamente beveva: e il Bolognesi, che seco trovossi ad un pranzo datogli dall’elettore di Magonza, il quale, quantunque ecclesiastico era, per dirlo colle parole del diplomatico modenese, un veterano di Bacco, lasciò ricordo che ben diciotto bicchieri di vino senza punto alterarsi in breve spazio di tempo si bevve il buon Ferdinando. Quell’elettore poi, che così bene gli teneva bordone, racconta Bolognesi che dette un altro de’ suoi sardanapaleschi conviti pochi dì innanzi a quello in cui disse la sua prima messa, per essere quindi dal nunzio pontificio consacrato vescovo; la gravità del quale officio non sarà stata forse, per riguardo alla dominazione temporale, reputata allora incompatibile col viver gaio, e ancora colle imprese militari di taluni principi ecclesiastici. Ma per ritornare ormai a tener parola della guerra che si rinnovava, avviserò posto dall’imperatore a capo delle milizie rimastegli il Tilly generale delle truppe bavare e della lega, fortunato pur esso in più battaglie e reputato per ciò valentissimo, ma che trovatosi a fronte di Gustavo Adolfo era destinato a perdere i conseguiti allori. Piccolo e brutto ce lo descrive lo [p. 51 modifica]Schiller, che truce ancora lo disse e crudelissimo (e qui esagerava alquanto quello storico della guerra de’ trent’anni): nativo di Liegi, riformatore dell’esercito bavaro, a più guerre era intervenuto, in quelle distinguendosi dei Paesi Bassi. Restavano allora all’esercito imperiale agli ordini del Tilly quaranta mila uomini, dei cento mila arrolati già da Wallenstein, avendo gli altri abbandonato col loro duce il servizio, e molti di essi essendo passati successivamente nelle file dei nemici dell’imperatore. Fra i rimasti aveva grado di capitano il giovane Raimondo. Ma in mala condizione erano quelle truppe; assai meglio le cose procedendo nell’esercito della lega cattolica, che contava un egual numero di combattenti. Dieci giorni dopo la deposizione del Wallenstein, quindicimila uomini fra svedesi e tedeschi, guidati dal re Gustavo e da officiali già provati nelle guerre contro la Polonia, o altrove, alcuni de’ quali salir dovevano poi a grande rinomanza, sbarcavano nella Pomerania, col consenso, dice il Bolognesi, di quel duca; il quale però è molto dubbio se volentieri lo desse; sembrando piuttosto che solo il mancare di forze bastevoli a fare opposizione agli svedesi lo inducesse ad allearsi con loro, che vollero nel trattato introdurre il patto di presidiargli la sua capitale Stettino.

Al muovere delle sue armi aveva fatto precedere il re Gustavo la pubblicazione di un proclama nel quale, senza toccare a cose di religione, due forti motivi esponeva che lui costringevano a dichiarar guerra all’imperatore: il soccorso cioè di 15.000 uomini da esso mandato ai polacchi combattenti contro di lui, che seco non aveva guerra; e l’occupazione di territorii sul Baltico, con minaccia ai suoi stati, imprese entrambe consigliate dal Wallenstein. Alle truppe di Gustavo molti soldati di questo generale s’unirono tosto, secondo dicevamo; come pure colle genti loro alquanti principi tedeschi, e colle sue l’avventuriere Mannsfeld; ed anche la guarnigione imperiale di Wolgast, [p. 52 modifica]poiché fu la città costretta ad arrendersi, venne tra i soldati svedesi incorporata: con nuove truppe giungeva poscia dalla Svezia il general Horn. Di tutto ciò nondimeno sembra che poco pensiero si dessero la corte e i ministri di Vienna, non provvedendo con quella sollecitudine che il caso richiedeva alla difesa de’ confini. Ivi erano le truppe del general Conti romano , che a quel tempo trovavasi, secondo scrisse il Bisaccioni, a curarsi a Gars sull’Oder di una ferita in una gamba; gente scarsa, affamata, disperata, per usare le parole del Bolognesi, dalla quale non era da aspettarsi che potesse far resistenza alle fresche e ben pasciute truppe di Gustavo; e scarsa infatti l’opposero, sotto gli ordini dell’altro romano Savelli, che momentaneamente, secondo io credo, tenne il luogo del Conti. Un grave pericolo corse per altro Gustavo, non so se allora, ma senza meno ne’ primi scontri ch’egli ebbe in terra germanica. Leggesi infatti nell’opera di Federico Spanheim intitolata Il soldato svezzese, che essendo andato quel re a riconoscere con poca scorta il forte di Gorz, venne da alcune compagnie di napoletani, che però non lo riconobbero, assalito; ma sopraggiunto non guari dopo un corpo di cavalleria finlandese, lui da quel pericolo liberò. Il favore che trovava Gustavo ne’ principi e nei popoli di que’ paesi gli dava agio a procedere innanzi occupandoli, e battendo qua e colà i manipoli di truppe imperiali lasciati a guardia delle fortezze.

Mosse contro Gustavo il maresciallo Schaumburg che aveva assunto il comando delle truppe cesaree in quelle parti, ma preso da sgomento alla prima sconfitta patita, vilmente fuggì gettando nel fiume i cannoni, come il Mailàth, che aveva detto ignoranti il Conti (assente come dicevamo) e il Savelli, vien raccontando, senza appor nota di biasimo alla condotta dello Schaumburg, forse perché non era italiano. Di questa sua fuga fu egli invece da Tilly rimproverato; ed addusse a discolpa sua la demoralizzazione de’ suoi soldati, che erano di quelli di Wallenstein, non più dalla ferrea sua mano governati, né colle in[p. 53 modifica]genti largizioni mantenuti in fede. Delle enormità infatti da costoro commesse sono piene le storie. Ed ai croati che erano tra i peggiori predoni, racconta il Gejier, che una special punizione, allorché cadevano prigionieri, infliggevano gli svedesi, quella cioè de’ lavori forzati nelle miniere di Svezia. Ma la fuga dello Schaumburg tolse ogni ostacolo al progredire degli svedesi. Trovavasi a quel tempo Ernesto Montecuccoli (e forse Raimondo con lui) in Slesia, ove il compito gli era stato affidato d’impadronirsi dei beni ecclesiastici che ritorre si volevano ai protestanti; cura che per la gravità delle circostanze lasciò egli ad altri, andando ad abboccarsi con Wallenstein, che quantunque licenziato dal servigio, era in grado di procurargli qualche polso di soldati; sapendosi da una lettera di Ernesto che esso procedé anche più oltre per ricercarne. Fece poscia una punta in Pomerania, donde scriveva aver raccolto intorno a sé le truppe del Conti gravemente malato; ma presto ripiegò egli verso Francfort, ove anche lo Schaumburg si ridusse, essendovi già il generale Tiphenbach e il Tilly; il quale per altro appena colà si fermò, volgendosi colle sue truppe verso il Meklemburg. A Francfort una buona difesa sarebbesi potuta fare, senonché i cittadini fecero fuoco contro gl’imperiali ed apriron le porte agli svedesi: e lo stesso Ernesto, come il Bisaccioni, il Bolognesi e il Brusoni lasciarono scritto, in grave pericolo trovossi di rimaner prigioniero. A nulla valsero poi al Tiphenbach e allo Schaumburg le oche che in dispregio di Gustavo collocato avevano sulle mura di Francfort, perché nella città entrò trionfante quel re, che divenne allora l’eroe popolare leggendario di gran parte della Germania protestante. Grandissimo di statura, come lo descrive il Menzel, con l’occhio ceruleo e grande, e l’aspetto nobile ed imponente ma dolce, pareva fatto per piacere al popolo, che lo chiamava il re d’oro (perché biondo) e il leone di mezzanotte.

I rapidi progressi di questo re scossero finalmente l’apatia dell’imperatore; il quale, come il Bolognesi scriveva, tutto occupato nelle sue caccie, a chi precedentemente cercò porlo sull’avviso rispondeva che quel re di neve, com’ei diceva, liquefatto sarebbesi in clima men rigido del suo; non pensando di [p. 54 modifica]quanta maggior virtù andasse Gustavo provveduto a paragone di quel palatino Federico, che dicemmo essere stato soprannominato il re d’inverno. E qui accennerò ad una opinione poco accettabile del Menzel, che l’inerzia dell’imperatore ascriveva al suo desiderio di veder abbassati dallo svedese l’elettore di Baviera e la lega cattolica, dai quali soltanto sperar poteva soccorso al bisogno suo. Ma già in quel tempo erano le mosse strategiche incominciate colle quali se non poté il Tilly, per esser giunto troppo tardi, arrestare la marcia trionfale del re svedese, alcun notabile vantaggio ebbe per altro a conseguire. Pose assedio da prima a Magdeburg, ch’era stimata la più bella città della Germania, e mentre i cittadini suoi per lunghi odii avversi agli imperiali, coraggiosamente si difendevano sostenuti da 500 soldati svedesi, fece Tilly assalire Neubrandeburg dal colonnello Crasi, che colà molta artiglieria condusse e 12.000 uomini. Eroicamente si difesero i due mila svedesi che quella fortezza avevano in custodia ; ma soggiacendo finalmente al numero e allo sforzo degli imperiali, furono astretti ad arrendersi, e li fece Tilly, contro i patti convenuti, massacrare; della qual cosa cotanto si sdegnò Gustavo che impossessatosi di Francfort, volle che tanti soldati imperiali venissero uccisi quanti erano quelli dopo la resa di quel forte fatti morire . Nella presa di Neubrandeburg molto si distinse il giovane Raimondo, capitano, per usare le parole sue, nel reggimento del vecchio Wangher; e fu egli che le chiavi della fortezza presentò al Tilly; il quale molte lodi gli compartì, come il Montecuccoli racconta nel suo Memoriale all’imperatore, e come Priorato conferma. Fu quella piazza allora rasa al suolo, e ne rioccuparono poscia il luogo gli svedesi. Prese quindi parte Raimondo all’assedio di Mag[p. 55 modifica]deburg, l’eroica resistenza della qual città non poté esser domata se non dopo una accanita lotta nelle sue strade; poiché giunsero a penetrarvi gl’imperiali usando l’astuzia di mostrarsi propensi a trattative, e cessando perciò il fuoco, con che venne lor fatto di distogliere i cittadini da quella vigilanza che insino allora aveva impedito ogni sorpresa dalla parte nemica. Andò la città consunta dal fuoco, e fu detto per opera degli stessi suoi abitanti, che lasciar non la vollero agl’imperiali. Un monaco premonstratense, testimonio di que’ fatti, che ne lasciò una descrizione intitolata: Diarium in quo triplex rebellio et excidium civitatis Magdeburgensium continetur etc. , dice consigliati gli abitanti a ciò fare dal Falkemberg comandante della guarnigione svedese. Altri invece di ciò chiamarono in colpa gl’imperiali; ma è molto probabile che casuale fosse quell’incendio. Rimasero in piedi la cattedrale, un convento e 139 capanne di pescatori, come scrisse il Mailàth; mentre il Bolognesi annunciava al duca di Modena salvate solo 50 case di legno, aggiungendo ventisette mila persone (30.000 disse Mailàth) tra cittadini e soldati essere in cotal circostanza rimaste uccise. Che nefandità fra quelle rovine si commettessero allora dagli imperiali, non vale la penna a ritrarlo; e invano tenta il Mailàth di togliere al Tilly la nota che gli si appone per quelle infamie, dappoiché egli, non entrato in Magdeburg se non tre giorni dopo che fu presa, non cercò d’impedirle. O connivente o estremamente debole, fu certo in colpa quel generale; e debole massimamente sembra che lo stimi il Menzel, ove dice che egli in effetto non era crudele, ma impedir non sapeva sempre lo fossero i suoi soldati. La sventura di Magdeburg e il massacro de’ suoi abitanti, al quale non scamparono, come scrisse Federico II di Prussia, se non 1400 persone, furono compianti da amici e da nemici, al dire del medesimo storico reale. Molto poi fu parlato allora circa il non aver soccorso il re Gustavo una città che in lui fidava: ma gli negava i passi il vacillante elettor di Sassonia; e dovette egli assicurarsi del cognato suo Giorgio [p. 56 modifica]Guglielmo elettore di Brandeburg, costringendolo a seco allearsi, e a concedergli di porre guarnigione svedese in Spandau.

La presa di Magdeburg così gran cosa parve all’imperatore Ferdinando da trarne incitamento a nuove violenze verso i protestanti, con che viemaggiormente l’animo de’ principi tedeschi non cattolici da sé alienò. Alcuni di loro tosto si strinsero in alleanza colla Svezia; l’elettore di Sassonia tra gli altri, quando Tilly devastandogli lo stato costringer lo voleva ad uscire dall’ambigua neutralità in che s’era insino allora mantenuto. E Francia ancora obbligossi verso Gustavo ad un sussidio annuo di quattrocentomila talleri, ponendo patto tenesse egli in armi contro l’impero trentamila uomini, rispettasse la religione cattolica e reintegrasse nei diritti suoi l’Allemagna. Dall’Italia invece movevano per ascriversi all’esercito imperiale capitani già provati nelle armi, e giovani desiderosi di battaglie e di gloria. Alcuni di essi, e singolarmente due principi, Gonzaga e un marchese Pallavicini andati allora in Germania, ci verran nominati in appresso. Li raggiunse nel successivo anno quel marchese Giulio Rangoni modenese, al quale più sopra accennammo, che portava, secondo narra il cronista Spaccini, impressi sul volto i segni delle ferite riportate nelle guerre di Piemonte, e fu allora posto a capo di un reggimento di fanti e di due compagnie di corazze, gente da lui arrolata e condotta in Germania (erano al dire del Bolognesi tremila fanti e cinquecento cavalli), ricevendo più tardi il grado di colonnello di cavalleria coll’incarico di arrolare mille uomini a cavallo. E qui soggiungerò che al tempo medesimo Baldassarre fratello di lui (bandito già da Modena nel 1623 per un omicidio commesso, e andato allora capitano di cento corazze al servigio de’ veneti) passava in Fiandra come scudiere del cardinal di Savoia, andando poscia mastro di campo in Piemonte (Spaccini, Cronica) .

Circa il tempo in che codesti fatti accadevano i quali sull’animo di Raimondo, che non contava allora più che 21 anni [p. 57 modifica]di età, non lieve impressione avranno senz’altro prodotto, una grave sventura patì la famiglia di lui. In una lettera scritta da sua madre al duca in quell’anno 1630, così funesto a Modena per la peste che molte vite vi spense, leggiamo che un figlio suo ivi di quel morbo era morto, dopo che un servo di lui d’egual maniera aveva dovuto soccombere. Sarà stato codesto fratello di Raimondo quel Fabrizio che una sol volta trovai nominato nelle carte de’ Montecuccoli, all’epoca cioè della sua nascita. Era quel giovane addetto alla corte del duca Francesco I d’Este, che forse lo aveva lasciato infermo a Modena allorquando riparò egli a Reggio, ove entrò di nascosto “recandovi, dice il cronista Lazzarelli, il contagio ch’era in alcuni della sua corte”.

Si ritrasse allora la contessa a Montecuccolo coll’altro figlio Alberto, che nella sua età di 15 o 16 anni era pur egli al servizio della corte. Ed essendo stata costretta di raccomandare in tale circostanza al duca gli altri suoi figli, condolendosi esso del lagrimevol caso, prometteva compensarla in parte, ogni volta che il potesse, di tanta perdita. Né è improbabile che poco di poi a Raimondo già maggiorenne fosse data l’investitura del feudo, non trovando più traccia del governo di sua madre, ma solo di quello del podestà, o commissario di Montecuccolo, che era allora Camillo Poggioli . E più lettere di lui rimangonci insino al 1644, nelle quali dà conto al duca di danari da lui riscossi per le gabelle erariali, o per multe esatte da chi venduto avesse, contro il divieto, filugelli a forestieri, o per donativi in occasione di nascite o di matrimoni principeschi. Ma delle imprese militari di Raimondo rifacendoci a tener discorso, troviamo che all’espugnazione di due fortezze prese egli parte; di una delle quali, che nomavasi Kalbe, invano altre volte dagl’imperiali tentata, presentò le bandiere a Tilly, come Raimondo medesimo in una sua relazione all’imperatore, [p. 58 modifica]che già citammo, racconta. Al qual fatto accenna anche il Priorato, parlando insieme di altri assalti di fortezze cui prese parte Raimondo, ma avvenuti in altri tempi. Men fortunato il generale Ernesto ebbe a vedere il reggimento suo di corazzieri lasciare combattendo cogli svedesi duecento de’ suoi morti sul campo, tre leghe al di là di Magdeburg, a fatica potendo evitare egli stesso di cadere nelle mani dei nemici . E il Bolognesi che di questo fatto dava conto al duca di Modena, già nel precedente gennaio annunziato aveva trovarsi in assai scabrosa posizione quel generale, attorniato com’era da più corpi di nemici: ma ebbe la ventura d’uscire incolume da quel periglio. E vendicò esso in parte i danni ricevuti, due volte respingendo gli svedesi che assediavano Landsberg; quantunque dovesse poi quella piazza per manco di viveri, e perché non soccorsa da Tilly, arrendersi agli svedesi, mentre era andato Ernesto con Tiphenbach nella Slesia. Sulle frontiere della qual provincia egli conquistò Zilosch, e due altre terre dell’elettore di Brandeburg .

La fiducia che nel senno e nel valore del re Gustavo Adolfo riposto avevano gli alleati suoi, vie più crebbe dopo la memorabile battaglia, nella quale, il 7 settembre 1631, quantunque mal secondato dai sassoni che finirono col darsi alla fuga, sconfiggeva a Lipsia, e lasciava ferito sul campo, il Tilly, in età allora di 72 anni; il quale era stato indotto a combattere dall’audacia in que’ momenti inopportuna di Pappenheim. Onde il [p. 59 modifica]Tilly, che se morto fosse innanzi a quella battaglia maggior rinomanza di certo conseguito avrebbe di quella che ora gli si concede, nella fiducia de’ suoi decadde allora sì fattamente da vedersi l’elettor di Baviera astretto a vietargli di mai più cimentarsi in battaglia campale. L’imperatore per altro che tranquillamente accolto aveva la notizia di quella sconfitta, limitossi, al dire del Bolognesi, a mandar condoglianze al generale sfortunato. Ad escusazione del quale non va per altro taciuto quanto il diplomatico medesimo scriveva circa i soldati di lui, mancanti di viveri e di vestimenta, non potendo levar contribuzioni se non a forza. A Vienna indirizzava egli lettere da far piangere, così il Bolognesi; ma non v’eran denari da mandargli. Quant’è al numero de’ suoi soldati in quella battaglia rimasti sul campo, variano i computi degli storici, dai mille dello Schiller ai sette mila di Rotteck e di Mailàth, e agli ottomila di Priorato; i quali ultimi tenner conto per avventura dei molti sbandati che dopo la battaglia furono uccisi dai contadini sassoni. Sbandati che Pappenheim, se crediamo allo Spanheim, disse essere stati diecimila, ad ottomila facendo esso salire i morti combattendo: ma questo a pochi forse parrà credibile. Settecento imperiali rimasero prigionieri: degli svedesi settecento morirono, dei sassoni forse due mila. E fu presente Raimondo alla mal riescita impresa come capitano nel reggimento de’ corazzieri del cugino, il quale curavasi allora in Vienna di un’infermità sopraggiuntagli; e fu quello il reggimento che, trovandosi agli avamposti, avvisò Tilly dell’avvicinarsi del nemico.

Della battaglia di Lipsia tiene Raimondo più volte parola negli Aforismi, e nell’opuscolo inedito intitolato: Delle battaglie, ove biasima Tilly per essersi lasciato sorprendere dal nemico; per aver tenuto due ore l’esercito sotto il fuoco dei piccoli cannoni svedesi senza attaccare, in aspettazione forse di altre truppe; per avere schierato l’esercito tutto di fronte, senza né retroguardia né riserve; e nota che per l’errata disposizione delle truppe questa battaglia, a differenza di più altre, riescì breve. Quant’è a lui, vi fece prova, come di consueto, di valore e di audacia; avendosi contezza che più volte i cavalieri nemici [p. 60 modifica]con grand’impeto affrontasse, finché quasi solo rimasto, e venendogli meno per una ferita ricevuta le forze, cadde in potere degli svedesi . Ma condotto ad Halle in Sassonia, colà poté ricuperare la sanità durante la prigionia protrattasi per sei mesi, finché non gli riuscì di riscattarsi con denaro proprio, come egli stesso lasciò scritto. Il Bolognesi per altro nel render conto al duca di Modena dell’impiego di settemila talleri consegnatigli da Fulvio Testi, notò spesi mille talleri per la liberazione di Raimondo: ma intender si può che un’egual somma venisse prima o poi restituita in Modena al duca; molto più sapendosi per altra lettera del Bolognesi stesso, che 500 talleri vennero dal duca effettivamente per cagion di riscatto prestati una volta a Raimondo, e il rimanente gli fu forse anticipato dalla camera ducale per le regalie ed altre spese connesse alla sua liberazione. Ma non va nemmanco taciuto che essendo la presentazione dei detti conti posteriore alla seconda prigionia di Raimondo, che ci verrà raccontata a suo luogo, può anche darsi che le parole del Bolognesi a questa prima prigionia non si riferiscano affatto. Infruttuoso poi non sarà tornato al nobile prigioniero il tempo da lui passato in Halle; ché riandando le fasi memorabili delle guerre alle quali aveva preso parte, ne avrà tratto per avventura argomento a severe meditazioni. E forse, quantunque a ciò non sembrassero invitarlo le circostanze sue, insin d’allora in lui quell’ammirazione destar si poté per Gustavo Adolfo, della quale fece egli dimostrazione quando, come diremo, ne lamentò poetando la morte. E amiamo eziandio imaginare che alla patria, alla madre, ai fratelli, sarannosi in que’ tristi giorni rivolti più che mai i pensieri del prigioniero. Al duca di Modena, poiché ebbe racquistata la libertà, scriveva Raimondo l’8 maggio del 1632, proferendoglisi grato perché a quella sventura che gl’incontrò avesse mostrato prender [p. 61 modifica]parte, calorosamente per la liberazione sua adoperandosi presso Ernesto. E quest’ultimo al duca stesso rispondendo, accennava alla malattia della quale più sopra dicevamo, che impedito gli aveva di dar opera più efficace per giovare al cugino. Non passerò poi sotto silenzio quanto nella lettera sua al duca soggiungeva: Raimondo andare cioè ricercando “di apprendere il modo di saper spendere utilmente per lui il sangue, acciocché quando il servizio di S. A. il richieda, possa conoscer negli effetti quanto cumulo di ossequii aggiunga la elezione a quello che la natura per obbligo gli ha imposto”. Da Vienna passò egli in Boemia con grado di sergente maggiore in un reggimento di fanteria allora da Ernesto messo insieme in Passau. Da quanto poi insino ad ora venimmo dicendo, apparirà non vero quanto nelle sua Antichità estensi ed italiane racconta il Muratori: che essendo cioè andato in quell’anno a Vienna il cappuccino Giambattista d’Este (già Alfonso III duca di Modena) lo facesse l’imperatore invitare alla corte dal conte Raimondo cameriere della chiave d’oro. Perché ebbe invece quell’incarico e quell’ufficio aulico il conte Girolamo fratello di Ernesto, che dal servizio della Toscana era nel 1629 passato a quello dell’imperatore Ferdinando, al quale fu carissimo. Nella quale occasione, scriveva il Bolognesi, che Girolamo assistendo, come era suo ufficio, l’imperatore mentre quella sera stava per coricarsi, gli parlò esso della soddisfazione provata nel conversare col cappuccino d’Este, aggiungendo molto avergli piaciuto l’intender da lui che fosse stato pur esso cacciatore.

Disperso dopo la battaglia di Lipsia l’esercito di Tilly, libera rimaneva a Gustavo Adolfo, al quale un gran numero di soldati imperiali fuggitivi aveva cresciuto l’esercito, la strada di Boemia e quella di Vienna; e potuto avrebbe allora agevolmente quella capitale conquistare, secondo affermano e il Bolognesi ed altri storici con lui; ma non afferrò egli tosto il momento opportuno, forse perché più gli giovasse militare in paese di protestanti, donde poteva ritrarre maggiori aiuti. Checché [p. 62 modifica]ne sia, dell’impresa della Boemia lasciò l’incarico ai sassoni, e andò egli stesso ad Erfurh, che spontanea gli aprì le porte, e dove il suo quartier generale si stabiliva. Mosse quindi di là al conquisto di Würzburg, di Francfort sul Meno e di altre città; Magonza, sgombrata dagli Spagnoli, volentieri lo accolse. A Königstein pose Gustavo le mani sulle ricche prede raccolte da Pappenheim, che colà come in luogo sicuro le aveva depositate, e le distribuiva tra i soldati.

Il pericolo in che erano Vienna e la corte imperiale indusse allora Ernesto ad accorrervi da Glogau, ove s’era dapprima temuto fosse per voltarsi Gustavo: ma inaspritasi vieppiù a Vienna l’infermità che da più tempo lo teneva in angustie (ed era, secondo credo, la gotta della quale sappiamo che soffriva frequentemente) dovette porsi in letto. E intorno a quel letto, scriveva il Bolognesi al duca, essersi adunato per ordine dell’imperatore il consiglio di guerra, nel quale il riordinamento fu decretato dell’esercito di Tilly, e statuito che a difesa di Vienna rimarrebbero i diciottomila soldati di Ernesto, che erano, durante l’infermità di lui, governati dal generale Tiphenpost . Comunicavagli al tempo medesimo l’imperatore aver designato mandarlo, quando prendessero le truppe i quartieri d’inverno, in Italia per sciogliervi non so che voto suo alla Madonna di Loreto; nella qual circostanza, soggiungeva il Bolognesi nella lettera che questa notizia ci somministra, avrebbe avuto Ernesto la soddisfazione di presentare gli omaggi suoi al sovrano suo naturale. Ma gli svedesi dall’aspro clima nativo induriti alle fatiche, non consentirono agio agli imperiali di riparare ne’ riposi iemali le sbattute lor forze, né ad Ernesto d’intraprendere quel viaggio. Fu egli spedito invece nel dicembre al campo di Tilly a metter pace tra quel generale e gli altri a lui sottoposti, essendosi, come negli eserciti sconfitti intervenir suole, una fiera discordia suscitata tra i capitani. Andò poscia presso il duca di Lorena, il quale in mal punto prendendo parte alla guerra, avea tratto contro di sé [p. 63 modifica]i francesi che invasero i suoi stati; mentre le genti raccogliticcie ch’egli intanto aveva inviato contro il re di Svezia, venivano da questo sconfitte. E fu dunque Ernesto mandato presso di lui con grado di sergente generale di battaglia, che era il settimo tra quelli dei generali; e in questo caso sostener doveva l’ufficio di un vice comandante di esercito e di consigliere di guerra. Incarico suo speciale era poi quello di mantenere in fede quel duca. Le gravi circostanze in che l’impero si ritrovava avevano intanto forzato l’imperatore a riporre a capo delle sue truppe il Wallenstein , troppo pericoloso stimando l’averlo nemico; essendosi anche detto che aveva offerta l’opera propria a Gustavo, da questo non accettata. E invero ostilmente procedettero allora appunto contro di lui gli svedesi assediando la città di Wismar, nel ducato già suo di Meklemburg; donde sgombrar dovettero i 3200 soldati imperiali che rimasti vi erano, secondo narra lo Schröder storico di quella città, la quale nel 1648 fu poi ceduta alla Svezia. Ancora fu detto di Wallenstein che segretamente favorito avesse l’elettore di Sassonia nelle conquiste che andava facendo in Boemia, e che tenesse pratiche coi protestanti boemi. Ma quali che fossero i pensieri di quel generale, i talenti suoi militari, l’influenza da lui esercitata sulle truppe, che era tanta da rendere difficile ad altri il comando, e il favore ch’ei godeva presso i migliori generali imperiali, lui rendevano in tanto abbassamento delle cose dell’impero, presso che indispensabile. E ciò ben sapendo egli, e volendo dei torti ricevuti vendicarsi, umilianti condizioni impose; quella tra l’altre che a disposizion di lui le conquiste rimarrebbero che si facessero, e la facoltà senza controllo di far confische pel mantenimento dell’esercito, secondo ei diceva. E qui torna in acconcio una considerazione. Che se i principi italiani che le so[p. 64 modifica]stanze loro, e più quelle de’ sudditi, sacrificavano in servigio di questo o di quel potentato straniero cupido di ottener dominii in Italia, avessero invece ad uno, o a diversi di quei generali italiani che gran fama in quel secolo conseguirono, quei patti o proposti o consentiti che Wallenstein allora otteneva, agevol cosa probabilmente sarebbe riescita il liberare essi principi e l’Italia dal predominio degli stranieri. Ma troppo erano a quell’età meschine ambizioni, odii e pregiudizii radicati nelle corti italiane, perché un fatto così salutare potesse aver luogo.

Ebbe dunque Wallenstein il comando dell’esercito con poteri illimitati, e tosto mandava ufficiali ad arrolar gente in diversi paesi d’Europa. Vennero, per esempio, in Italia per sue commissioni, il marchese Giulio Rangoni e il marchese Cornelio Bentivoglio, o per far leve, ovvero ad acquistarvi corazze per la cavalleria, secondo disse il Priorato, e forse per l’una cosa e per l’altra. In breve liberò poi Wallenstein la Boemia dai sassoni, facendo correre il loro stesso paese dalle genti del venturiere Holk. Ed offeriva egli in quel tempo ad Ernesto, intimo suo amico, come nel precedente anno lo aveva detto il Bolognesi scrivendo al principe suo, di affidargli ventimila uomini nel paese di Juliers con titolo di generale di artiglieria, essendo già occupato, come scriveva il diplomatico ora citato, il posto che a lui sarebbe spettato di mastro di campo . Onde Ernesto, che già passato aveva il Reno col duca di Lorena, apprestavasi a raggiungerlo: se non che andato a Vienna vi fu di nuovo trattenuto dalla podagra, e narra il Bolognesi avere allora molti elogi intesi ch’ei faceva di Wallenstein. Ma risanato ch’ei fu, non volle l’imperatore privare il duca di Lorena del sussidio di quell’esperto consigliere, e lo rimandò a capo di quindici mila uomini in Alsazia. La memoria delle cose da Er[p. 65 modifica]nesto in quella e nelle vicine provincie in quel tempo operate meglio che dagli altri storici venne conservata dallo Spanheim autore del Soldato svezzese, e da Giuseppe Ricci nella sua opera De bellis germanicis edita nel 1638: e noi dalle opere loro ciò che torni all’uopo nostro verremo estraendo. Troviamo da prima aver egli dato opera a rialzare la parte imperiale assai sbattuta in quelle contrade, coadiuvato in questo e nel portare le sue forze a ventimila uomini dal marchese di Baden; e il Ricci dice ch’eran soldati in gran parte della lega cattolica. Centro alle operazioni sue militari, o piazza d’armi, come allora dicevasi, esser doveva Strasburgo; ma a questo non avendo que’ che la città governavano consentito, limitar si dovette a porre le sue truppe ne’ vicini paesi. Campeggiò poscia sul Reno, giungendo improvviso sopra questa o quella terra, col quale espediente gli riuscì di fare acquisti vantaggiosissimi. Così una volta, passato coll’Ossa commissario della cavalleria il Reno, seguitandolo 25 compagnie di cavalli ed alcuni reggimenti di fanti, giunse pel basso badese presso Durlac ove impose taglie di guerra; e piombò poscia sulla città di Pretem (o Brett) nel basso Palatinato; e a questo luogo racconta il Priorato un’astuzia di guerra che gli valse l’acquisto di quella terra. Trovandosi con iscarso numero di uomini dinanzi ad essa, fece egli che rapidamente d’uno in altro luogo si trasmutassero; ond’è che la guarnigione, che era composta di 400 svedesi (200 li disse lo Spanheim), credendolo a capo di un numeroso esercito, e temendo dovere col ritardo a più duri patti sottostare, aprì le porte, accettando quegli uomini di venir incorporati nelle truppe imperiali. Della qual cosa poiché fu in cognizione re Gustavo, ebbe a far proposito, troncatogli poi dalla morte, di volere ad ogni modo Ernesto nelle sue mani.

Schivava egli intanto l’incontro dei virtemberghesi, girando loro intorno, per assalire Knittlingen, che fu poi da lui presa, quattrocento de’ suoi difensori rimanendovi estinti, e andando la terra in quattro luoghi incendiata. Così lo Spanheim: il quale maggior fede merita dell’anonimo cronista citato da Menzel, che scrisse colà tutti gli abitanti essere stati uccisi per ordine [p. 66 modifica]del colonnello Montecuccoli, e avrebbe dovuto dire generale; se pure non alluda la cronica a Raimondo, allora maggiore, che per ordine del cugino occupato avesse quella città. Vero è soltanto che una recrudescenza di odii religiosi allora avvenuta, dette luogo altrove a carneficine con altre carneficine vendicate.

Dalle ardite imprese di Ernesto prendendo esempio il comandante di Heidelberg, che era un Metternich, tentò impadronirsi di Wittstock; ma non gli venne a bene il tentativo, e poco anzi mancò che da lui non venisse Montecuccoli esposto a grave pericolo. Ed ecco come racconta il Ricci il caso allora avvenuto. Spediva il Metternich un messo al Montecuccoli e all’Ossa commissario della sua cavalleria, invitandoli a venire in soccorso di lui: caduta col messaggere la lettera in mano dell’Horn, pensò tosto che un grosso corpo d’imperiali avrebbe mosso a quella volta, e mandata la lettera al suo destino, aspettò in imboscata il passaggio di quella gente; se non che essendo corsa voce nel campo che già caduta fosse quella piazza, non furono mandati se non mille cavalieri de’ più spigliati per accattar notizie. E questi giunti al luogo dell’imboscata validamente si difesero, duecento svedesi uccisero, e di carriera si posero in salvo. Una parte di loro rimase nondimeno prigioniera, ma pochi furono i morti. Vedendo poi Ernesto prevalente di forze l’Horn, andò per pochi giorni oltre il Reno; combatté poscia di qua o di là di quel fiume, secondo portavano le circostanze, avendo a fronte l’Horn, al quale un mal tiro fece egli una volta, fresche truppe introducendo in Offenburg di accordo cogli abitanti, mentre esso e i virtemberghesi la stavano assediando. Poté nondimeno con grande sforzo di artiglierie avere l’Horn quella città, libera però concedendo l’uscita ai soldati imperiali. E a lui, dice il Ricci, senza combattere vilmente si arrese la guarnigione imperiale di Obenheim.

Nel gennaio del 1632 era Ernesto in quella fortezza di Breisach che più tardi tornar gli doveva funesta, e si trovava pei casi della guerra separato dal duca di Lorena: di là in sullo scorcio di quel mese venne chiamato a Vienna ad un consiglio di generali, che avvisar doveva al modo di concentrare [p. 67 modifica]colà un ragguardevol numero di truppe. Nuove offerte ricevette allora da Wallenstein: ma l’imperatore, che appena una volta consentì che per breve tempo valere di lui si potesse il generale in capo, lo mandò invece a passar rivista ad un corpo di dieci mila croati; ma pare fosse questo uno degli strattagemmi coi quali eludeva qualche volta quel monarca le disposizioni di Wallenstein, perché fu Ernesto raggiunto poco lungi da Vienna da un corriere che lo richiamava presso l’imperatore. E di consiglio aveva esso veramente mestieri ne’ critici momenti in che l’impero allora trovavasi per la cresciuta potenza di Gustavo, e per l’ambigua condotta di Wallenstein: la quale mostrossi affatto pericolosa, allorché in odio all’elettore di Baviera, autore della precedente sua deposizione dal comando, lasciava gli devastassero gli svedesi lo stato; perdendo l’elettore nel cercar di difenderlo il generale suo e della lega Tilly, mortalmente ferito presso il fiume Lech, e morto ad Ingolstadt. S’indugiava d’altro lato a quel tempo il Wallenstein a fronteggiare, senza combattere, il re Gustavo; che non aveva da opporre ai 60.000 imperiali se non 16.000 svedesi, collocati per altro da lui in ottima posizione presso Norimberga: sicché non valse il Wallenstein a rimoverlo di là, come non poté Gustavo, poi che ebbe ricevuto rinforzi, sforzare il campo di lui; e quando lo tentò, alquanti de’ migliori suoi generali rimasero nel conflitto o morti o prigionieri. La fame che fece vittime a migliaia nei due eserciti finalmente li separò, ritraendosi primo il re.

Da Vienna venne quindi Ernesto rimandato in Alsazia a prendervi il comando di quelle truppe e dell’esercito di Svevia, con incarico di difendere anche il Tirolo. Ma ad Innsbruck in pessima condizione trovò egli i soldati; sbandatosi anzi il reggimento Altemps; e frequenti erano le diserzioni: ond’è che giunto in Alsazia non si trovasse ad aver messo insieme più che sedici mila uomini da opporre ai ventidue mila degli avversarii. E molta parte della sua gente tener doveva a difesa di Breisach, che il Priorato ed altri ingegneri militari venivano fortificando. Da questa città inviava egli Raimondo a prendere accordi col duca di Lorena; se non che trovò esso che i francesi entrati [p. 68 modifica]come alleati de’ protestanti in quella provincia, e sconfitti i soldati del duca, astretto lo avevano a desistere dalla guerra, lor consegnando quattro delle sue fortezze, E fu questa la cagione che ad Ernesto impedì di più oltre rimanere in Alsazia. La partenza di lui e la morte dell’arciduca Leopoldo, notava il Bolognesi aver fatto temere ai ministri non evitabile la perdita di quella provincia, nella quale per altro diremo come ritornasse Ernesto. Andò poi egli dall’Alsazia al campo di Wallenstein con sette reggimenti, passando subito in Baviera; e lo troviamo in seguito occupare nella state di quell’anno 1632 i paesi che dalle soldatesche francesi s’andavano sgombrando in Allemagna. L’undici settembre scriveva egli stesso al fratello Girolamo trovarsi allora in Lindau, falsa asserendo la voce allora corsa che fosse stato battuto dal nemico nel ducato di Württemberg. E sempre con lui era allora Raimondo. Andarono poscia all’esercito di Tilly, testimonii forse della morte di quel generale, avvenuta, come or ora dicevamo, ad Ingolstadt. E fu Ernesto, che dopo il passaggio del Lech fatto dagli svedesi, ricuperar poté due forti lungo quel fiume; e conquistò anche Rahin, che era tenuto per antemurale della Baviera da quella parte, in essa lasciando seicento de’ suoi a presidiarla. Accorreva intanto Gustavo per soccorrere quella piazza: ma informato a Donauwerth che si era arresa, non altro poté fare se non sottoporre a processo, e far poscia decapitare il colonnello Minznal, il quale innanzi che gli mancassero i viveri, o che fosse fatta la breccia, era venuto a patti. D’ugual viltà nondimeno fecero prova alla lor volta i bavari ivi lasciati da Ernesto, i quali all’avvicinarsi delle truppe di Gustavo, senza la minima resistenza opporre capitolarono, e se n’andarono con Dio; senza cavalli però e cavalieri, e con sola la spada i fanti, non altro avendo loro concesso il re. Invano cercò poscia Ernesto di riavere quella piazza; ché gli svedesi edotti dall’esperienza del passato, sempre la tennero con buona guardia. Ed Ernesto che con appena quattro mila uomini campeggiava allora presso il Danubio, si vide venir sopra i quindici mila di Gustavo: riparò allora tostamente ad Ingolstadt, ov’erano l’elettore di Baviera [p. 69 modifica]e l’Aldringer, non avendo tutti tre insieme più che dodici mila soldati. A Ratisbona, ove passò Ernesto, si abboccò col marchese Giulio Rangoni, che veniva dal campo di Wallenstein, avendo (forse nell’abbandonare il servigio imperiale) rinunziato, come impariamo da una lettera del Bolognesi, il reggimento di cavalli che aveva, il quale fu dato al napoletano Carafa, morto poi non guari dopo combattendo alla testa di quel reggimento. Ma non tardò molto il Rangoni a levare un altro reggimento a sue spese, e l’offrì a Luigi XIII di Francia che il grado gli dette di maresciallo di campo. Morì esso nel 1639 per ferita riportata in un fatto d’arme a Moncalieri, essendo allora governatore delle Langhe, e cavaliere dell’ordine dell’Annunziata. Dal Rangoni stesso ebbe il Bolognesi in Vienna le notizie che siamo venuti ultimamente sponendo, e che egli comunicava allora al duca di Modena. Andò non molto dopo il generale Ernesto per ordine di Wallenstein a tentare (e credo con buon successo) d’impedire colla sua cavalleria agli svedesi l’assedio di Landsberg; dopo di che congiungevasi all’elettore di Baviera per assalire Donauwerth, e fece incursioni sulle terre del marchese di Durlac sospettato di relazioni cogli svedesi. Ma a proposito di questi campeggiamenti di Ernesto in Baviera non può esser taciuto, che l’indisciplina delle truppe imperiali, le quali non trovavan modo di procacciarsi, salvo che con violenza, i viveri, ebbe una volta a trarre contro di esse a sollevazione i bavari. Il che raccontando il Bolognesi, che diceva subillati i bavari da un colonnello svedese, aggiungeva che allora di là trovavasi assente Ernesto, avendolo Wallenstein chiamato al suo campo (Lettera del 4 settembre 1632).

Le ultime imprese peraltro del Montecuccoli alle quali accennavamo pur dianzi, furono dai gravi avvenimenti che in breve accaddero troncate a mezzo. Era allora Gustavo Adolfo in procinto di avviarsi verso Vienna; se non che avendo inteso minacciati da Wallenstein gli stati dell’elettor di Sassonia alleato suo, già corsi da Galasso e da Holk, stimò doversi innanzi tratto a quelli recar soccorso. Onde lasciati gli svizzeri di nuova leva ed altre truppe in quella parte della Baviera da lui occupata, [p. 70 modifica]andò con dodici mila fanti e sei mila cinquecento cavalli, secondo i computi del Gejier , verso Erfurth, ove si congedò dalla moglie, e procedendo poscia quasi in trionfo tra popolazioni che in ginocchio gli rendevano grazie per quanto aveva operato in pro della libertà civile e religiosa della Germania, come scrisse lo Schiller, giunse sotto Neuburg, della qual città s’impadronì. Approfittando poi opportunamente, come in un opuscolo che citammo notava Raimondo, dell’assenza di Pappenheim, andato ad espugnare Halle in Sassonia (ove dicemmo essere stato Raimondo prigioniero), piombò sopra Wallenstein che da Merseburg s’era trasferito a Lützen: e fu là che ebbe luogo quella memorabile battaglia, il 16 novembre del 1632, la quale in sostanza andò perduta per gl’imperiali, dappoiché dieci o dodici mila de’ loro lasciarono sul campo, in cattiva condizione rimanendo i due terzi dell’esercito, per usar le parole dello Spanheim; le quali concordano con quelle dello Schiller, che disse quasi non essere rimasti soldati validi al Wallenstein allorché egli fuggiva. Lo storico Mailàth attenuò assai, come pare, le perdite dell’esercito di lui, allorché scrisse dieci mila essere stati fra tutti i morti e i feriti, metà de’ quali svedesi. Fu però la battaglia ben diretta dal Wallenstein, anche allora che gli acuti dolori della podagra l’obbligarono a smontare da cavallo, quantunque avesse le staffe fasciate di seta, e a farsi portare in lettiga, restando poi esso leggermente ferito: Prodigi di valore vi fece Piccolomini, ch’ebbe sei cavalli uccisi sotto di sé, e riportò egli stesso cinque ferite: si distinsero eziandio Colloredo e il marchese di Grana , pur esso ferito, che perciò ebbe da Wallenstein un donativo di 4094 fiorini, come narra il Förster. E a costoro il Priorato aggiunge Galasso, che il Gejier asserì invece non essere arrivato in tempo a prender parte alla battaglia. Con suo danno, finalmente, vi giunse il Pappenheim, che per ferro nemico gloriosamente finì [p. 71 modifica]colla vita l’avventurosa sua carriera militare. Ma se la perdita di quell’audace condottiero di cavalli grave danno arrecò agl’imperiali, uno anche maggiore ne incontrarono allora gli svedesi colla morte dell’eroico loro re Gustavo Adolfo, del senno e della virtù militare del quale non sarà mai detto abbastanza. Cadde quel gran capitano non per tradimento del duca Alberto di Sassonia Lauenburg, come da prima fu creduto, e come riferì nella sua storia di Svezia il Puffendorf; ma perché ferito da prima da un ufficiale de’ corazzieri del Piccolomini, che il Kevenüller storico contemporaneo disse esser stato il tenente colonnello Falkemberg (dal quale alcuni erroneamente intitolarono quel reggimento), ebbe poi il colpo di pistola che lo uccise da un soldato di quel reggimento. Il qual soldato, in una biografia manoscritta del Piccolomini posseduta dal marchese Gino Capponi, è detto fosse un Mantellini italiano, corazziere nel reggimento di Piccolomini; e la medesima cosa nella biografia di lui lasciò scritto il Priorato, a quel Mantellini il grado però attribuendo di sergente maggiore, e crediamo a ragione: essendoché tale sia detto in una relazione di quella battaglia scritta da Silvio Piccolomini, che vi rimase ferito, edita nell’Archivio Storico Italiano (serie terza, volume XIV). In questa annunziandosi la morte di lui, è detto che era generale opinione nel campo che da quel reggimento nel quale entrambi militavano, il colpo partisse che uccise il re. Aggiungeva poi la biografia più sopra citata aver avuto tempo il Mantellini d’inviare innanzi la sua morte all’imperatore il collare stesso del re, che in effetto anche il Duller racconta esser venuto in mano di Ferdinando. Non sembra peraltro avessero gli storici alemanni notizia alcuna di questo Mantellini, né di un altro di egual cognome che ci verrà più tardi ricordato. Chiunque nondimeno l’uccisore sia stato di Gustavo, adempì esso senz’altro al debito suo di soldato, e un servigio eminente a prezzo del suo sangue fu da lui reso al principe sotto le bandiere del quale militava, che forse ogni autorità perduto avrebbe in Germania se fosse a Gustavo riescito di farsi coronare imperatore in Francfort, come fu scritto essere stato intendimento suo; con che, dice lo [p. 72 modifica]Spanheim, verificato avrebbe il proprio anagramma da Gustavo mutando in Avgusto. Ma di questo pur convenendo, ben lamentar si può che innanzi tempo venisse privato il mondo di uno degli uomini che più l’onoravano. Un dispaccio dell’Antelmi ambasciator veneto, del 25 dicembre 1632, confermando essersi in quella battaglia sopra gli altri distinti i corazzieri di Piccolomini, soggiunge a quest’ultimo largito da Wallenstein un donativo di venti mila fiorini, al tempo medesimo il grado conferendogli di sergente maggiore di battaglia, o piuttosto, come scrisse Priorato, quello di generale di cavalleria . A lui la scelta ancora lasciavasi del luogo ove più comodamente albergar potesse nell’inverno quel reggimento. Ma quegli altri reggimenti di cavalleria per contro, che obbedivano al Pappenheim, alla morte di lui essendosi disordinati, volsero poscia in fuga e tornarono alle lor case, secondo dice l’Antelmi; il quale a gran ventura degl’imperiali attribuì una folta nebbia che involse il campo loro, e quella fuga celò agli svedesi che da essa trar potevano immensi vantaggi. Ecco ora il laconico messaggio con che annunziò Wallenstein all’imperatore l’esito di quella battaglia, che riporterò colle parole medesime dell’Antelmi che lo avrà tradotto. “Ci siamo battuti col re, il quale è rimasto morto. Io e Papnehin (Pappenheim) feriti: et s’è fatta gran strage da ambe le parti” .

Ma troppo celeremente si ritirò dopo quella battaglia il Wallenstein, non arrestandosi se non in Boemia; così che le artiglierie e le bandiere stesse che lasciò dietro di sé rimasero in potere degli svedesi: i quali poi non avendo modo di levar dal campo que’ cannoni li inchiodarono, come far dovettero di alcuni dei loro, secondo nella relazione di Silvio Piccolomini ora accennata si legge. E di questo abbandono delle artiglierie dié biasimo il Montecuccoli al Wallenstein nel suo opuscolo inedito Delle battaglie, dicendo che se per manco di cavalli lasciato [p. 73 modifica]aveva quelle artiglierie sul campo, non gli sarebbe mancato modo di levarle di là se ritornato ei vi fosse; ma non pensava invece che alla ritirata, che coprì agli svedesi coll’incendio di Lützen. Se Wallenstein, così continua Raimondo, saputo avesse lo stato in che dopo la battaglia si trovava il nemico, o se a questo sulla condizione degl’imperiali non fossero mancati precisi ragguagli “uno dei due avrebbe certamente avuto la vittoria intera, che nessuno ebbe, e che entrambi si attribuirono”. Scrive invece Federico II nelle sue Memorie di Brandeburgo che gli svedesi vincitori stimaronsi battuti, più non avendo il loro eroe a governarli, e gl’imperiali vinti si crederono vincitori non avendo più Gustavo Adolfo da combattere. Del rimanente ai casi di Wallenstein in quella circostanza convenir potrebbe quell’osservazione dello stesso real scrittore nelle sue Istituzioni militari, che dice: “In una battaglia perduta il più gran male non è la perdita degli uomini, ma lo scoraggiamento delle truppe che ad essa tien dietro”. Scoramento che da una così precipitosa ritirata in que’ frangenti doveva derivare. Una medaglia allegorica venne allora coniata che alludeva alla morte di Gustavo e alla vittoria degli svedesi coll’iscrizione: Etiam post funera victor.

Appena trovossi Wallenstein in luogo sicuro, a Galasso e ad Aldringer ordinò venissero a raggiungerlo colle loro truppe, per aver agio forse di riordinare intanto le proprie. Credé il Muratori alla battaglia di Lützen intervenuto Ernesto Montecuccoli; e v’era in effetto il reggimento di sua proprietà: ma scrisse il Bolognesi esser egli il 2 novembre da Ratisbona, ove si trovava, partito per affrontare il palatino di Birchenfels da Gustavo lasciato a guardia dei passi del Lech, e che aveva altresì in animo di ritentare l’acquisto di Landsberg. E negò anche indirettamente il Gejier che fosse egli a Lützen, dicendo che non vi si trovò il Priorato che era allora coll’esercito di Ernesto. Ben vi fu Raimondo, che aveva a quel tempo il grado di tenente colonnello del reggimento di cavalleria Fiston; e, per usare le parole del Bolognesi, si batté da disperato insieme ad altri italiani: e forse fu il suo tra quei tre reggi[p. 74 modifica]menti di cavalli ai quali si dovette se fino dal principio non furono gl’imperiali sconfitti. E ancora si sa essere stato Raimondo in quella battaglia lievemente ferito. Vivissima impressione poi avranno fatto senz’altro sull’animo di lui gli eventi di quella memorabile giornata e la morte di Gustavo Adolfo, pel quale dicevamo credere che concepito avesse grandissima ammirazione. Ecco in fatti ciò che al duca di Modena scriveva egli poco di poi: “La gloria, il valore, la prodezza del re de’ Svedi, il quale fece tremare i maggiori signori della Terra giacque in un punto, non lasciando altro di sé che un buon nome d’esser morto da valoroso soldato. La sua caduta non fu per altro senza gran rovina dell’armata di S. M. I., perché tutti gli ufficiali maggiori restarono o morti o feriti, e la maggior parte de’ soldati disfatta”. Nell’opuscolo Delle Battaglie lo loda poi come oratore potente, che infiammava colle parlate al momento della pugna l’animo de’ suoi soldati, a differenza di Tilly, che poco esperto della lingua tedesca (essendo vallone) faceva parlare ai soldati da un commissario delle battaglie che gli stava al fianco a cavallo. Ernesto altresì ebbe a manifestare la sua ammirazione per Gustavo Adolfo ch’ei disse “gran capitano, maturo, diligente, che dalla sua setta era tenuto per santo”. Il diplomatico Bolognesi molto lodò e molto biasimò, a seconda delle circostanze, l’eroe svedese, e lasciò anche scritto aver esso divisato di farsi coronare imperatore a Francfort, e di andare anche, più tardi, a Roma: gran capitano del rimanente, secondo egli scriveva, giusto, diligente, puntuale nel pagare mensilmente i soldati, “mentre il nostro esercito (l’imperiale) si dissipa non avendo da mangiare, e si è sempre in pericolo di ammutinamento”. Il Priorato lodandolo di valore e di bellezza, diceva: “il crine e la barba bionda lo rendevano così risplendente che molti lo chiamavano il re d’oro”, e così appunto veniva, come già notammo, dal popolo nominato.

Accennavamo più addietro come un canto poetico venisse da Raimondo composto sulla morte di Gustavo Adolfo. E a lui infatti pertiene senz’altro la poesia che da noi verrà riprodotta nell’Appendice, copiandola dal manoscritto, invero scor[p. 75 modifica]retto, che è nell’archivio di stato fra le carte dei Montecuccoli, ed è inedita, come avvisò già il Tiraboschi. Il maschio stile della medesima e i generosi sentimenti che l’informano la mostrano invero opera di un soldato conscio della gloria imperitura che trattando le armi può un ingegno privilegiato conseguire, e insieme della caducità di ogni umana cosa; verità che s’impara più che altrove sui campi di battaglia, dove baldanzosa gioventù poc’anzi per atti di valore ammirata, giace, o moribonda o spenta, sul nudo terreno. Notabile poi questa poesia di un giovane di 23 anni, che altre cura avean distratto dal culto delle Muse; e indirizzata a Fulvio Testi, stato con Raimondo in relazioni di amicizia; dappoiché specialmente in discreta misura vi si ritrovino quei giuochi di parole e quelle antitesi che erano così care ai poeti di quel tempo, e che nelle lodi di un tanto eroe largo campo trovato avrebbero per far pompa di quell’orpello che al giudicio corrotto dei più pareva moneta del miglior conio . Anche del Graziani lodato poeta del suo tempo, e che tenne più tardi alla corte di Modena il luogo occupato allora da Fulvio Testi, ci rimane un sonetto sulla morte di Gustavo Adolfo. Terremo anche ricordo a questo luogo dell’intervento alla battaglia pur ora menzionata de’ principi estensi Borso e Foresto zii del duca di Modena, i quali, secondo una narrazione manoscritta nell’archivio estense intitolata Successi della guerra di Allemagna et ationi eroiche del principe Borso d’Este, “furono dei più avvanzati e ne uscirono con molta gloria e nessun danno” . A Borso, come scrisse il Muratori, fu dato l’incarico di riferire all’imperatore in Vienna l’esito della battaglia. E quando i due principi vennero nel precedente ottobre in Germania, incontrati furono lungo la via per ordine dell’imperatore dal conte Girolamo Montecuccoli, che poscia all’udienza di lui li introdusse; ed erano peculiarmente dal duca e dal Testi raccomandati al generale Ernesto, che ad essi procacciò [p. 76 modifica]un reggimento. Di loro scriveva il Testi: “sono ambedue valenti, ma Borso specialmente è dotato di tanta virtù e cortesia che gli attira l’ammirazione di tutti”. E riescì infatti soldato di vaglia. A fianco di Wallenstein combatterono parimente colà i principi Francesco e Mattia de Medici.

“Vienna, Monaco e Roma, dice il Cantù nella Storia Universale, tripudiarono alla morte di Gustavo Adolfo, Madrid tripudiò undici giorni insultando alla memoria dell’estinto”. Il che in gran parte fu vero: se non che fu anche detto spiaciuta al papa la morte di un uomo che teneva umiliata la casa d’Austria, e spiaciuta allo stesso imperatore: il quale disse avrebbe più presto desiderato che con sanità fosse il re di Svezia ritornato al proprio regno: parole che non parranno inverosimili a chi pensi come un segreto istinto sforzi talora anche l’uomo più indolente e ingeneroso ad ammirare coloro che per quelle virtù militari, e per quella fruttuosa operosità andarono celebrati che ad essi fece difetto.

Non furono tripudii nel campo di Wallenstein: ottantacinque mila fiorini dispensò egli fra coloro che maggiormente nella battaglia si erano distinti, severamente castigando al tempo medesimo i fuggitivi. Un buon numero di ufficiali fu allora da lui dannato a morte non volendo, diceva, che mai più si rinnovasse la vergogna di Lützen . E questa sarebbe stata ancora maggiore di quella che fu, aggiunge il Förster, se il disordinato suo ritrarsi dal campo non fosse stato, per esser giunti sei reggimenti al termine della battaglia sul luogo del conflitto, nascosto al nemico. Ben fortunato il Wallenstein, continua il biografo medesimo, che i dissensi sorti tra i generali di Gustavo dopo la morte di lui, ai quali tra breve accenneremo, impedissero agli alleati di venire sopra di lui e di annientarlo. Attesero essi invece poco dipoi a scacciare dalla Sassonia gl’imperiali; e Bauer e Horn battevano Aldringer in Baviera. [p. 77 modifica]

Opportunissima intanto tornava la morte del valoroso re, colle incertezze che dietro sé lasciava nell’animo de’ collegati, al risorgere della fortuna della casa d’Austria; ai servigi della quale allora tornavano que’ soldati della lega cattolica che abbandonato avevano Tilly nel punto che contraria gli si volse la fortuna, come narra nella sua opera Il Guerriero prudente lo storico Priorato. Gli svedesi per altro riavutisi dallo sgomento provato, quantunque una fanciulla di soli sei anni (la celebre Cristina) fosse stata assunta a capo di lor nazione sotto il governo di una reggenza, ad una pace dannosa anteposero la continuazione della guerra. Fidavano essi nel valore dei generali allievi di Gustavo, e nel senno di Oxenstierna confidente ministro di lui, il quale assunse in Germania la direzione suprema delle cose pertinenti alla guerra e alla politica. Difficile per altro, più che non fu, sarebbe riescito il compito degli svedesi, se seguitato avesse l’imperator Ferdinando il consiglio di Wallenstein di attrarre a sé gli alleati loro, mercé una completa amnistia. Ma l’iracondo monarca, il quale da un partito implacabile era dominato che non a pacificare i popoli ma a domarli anelava, così si diportò che la più parte de’ principi tedeschi, dopo alquante esitanze, più strettamente s’unì agli svedesi. Coi quali, ma più specialmente coi francesi e i sassoni loro alleati, il Wallenstein ridotto a mal partito dalla gotta, e desideroso di godersi con più quiete le accumulate ricchezze, aprì trattative di pace; trattative, che Schiller e Menzel dicono si proponesse far accettare anche colla forza dall’imperatore. E caldamente allora, secondo l’Antelmi scriveva, adoperavasi per la pace il duca di Savoia che a tal uopo mandò al campo di Wallenstein il marchese di Clavesana. Mailàth notò pur esso un gran cangiamento avvenuto nel Wallenstein; come specialmente apparve dalle rivelazioni di Arnheim generale de’ sassoni ad Oxenstierna, sul colloquio avuto con lui; nel quale il suo desiderio esprimeva di vendicarsi dei torti ricevuti dall’imperatore, e di andare da nemico a Vienna, mentre muoverebbe altro generale contro la Baviera e gli spagnoli. Ma Oxenstierna sospettoso d’insidia esitò: e Wallenstein in[p. 78 modifica]tanto, che non avrebbe voluto svelati così tosto i suoi progetti agli svedesi, ruppe bruscamente l’armistizio. Accennò allora a voler invadere la Sassonia; e quando a difenderla accorse Arnheim, voltatosi con trentamila uomini verso la Slesia, circondò e fece prigionieri seimila tra svedesi, sassoni e brandeburghesi, e sforzò poi Berlino a pagargli un tributo. Neppure va qui taciuta l’infelice idea che alcun tempo egli coltivò di comporre un terzo partito in Germania, che non tenesse né per l’imperatore né per la Svezia; che sarebbe stato un perpetuare la guerra civile in quel paese, e un favorire i disegni della Francia. Il Förster però, difensore caldissimo del Wallenstein, pur consentendo che negli ultimi suoi giorni, sapendo in pericolo la liberà e forse la vita sua, trattasse quel generale senza mistero coi nemici dell’imperatore, nega che criminose fossero le pratiche delle quali or dicevamo, e le precedenti. Se non che pubblica egli medesimo una lettera dell’Arnheim generale dei sassoni, nella quale, narrando un colloquio da lui avuto con Wallenstein, che gli proponeva di unirsi a lui per cacciare dalla Germania gli stranieri, afferma avergli risposto: “che pure in addietro erasi esso medesimo dichiarato pronto a fare alleanza colla Svezia”. E che allora soggiunse Wallenstein: volere ciò differire sin che fosse possibile, mancando la condizion principale del successo, l’esservi cioè chi a lui prestasse fede . La stessa cosa si trova in una lettera del Feuquières, ministro francese a Dresda, riferita dal Förster; tutto scusando poi questo storico col dire queste essere state astuzie per trarre in inganno i nemici, che lagnaronsi infatti ch’ei li tradisse.

Comunque, preoccupazioni gravissime destò a Vienna la condotta di Wallenstein; e fu spedito al suo campo il general Slick per spiare ciò che là accadesse, e per incitare il generale a nuove imprese. Ma dagli amici di Vienna informato esso della venuto dello Slick, alcune truppe mandò fuori a piccole fazioni di guerra, secondo l’Antelmi racconta, ond’è che reduce a Vienna il messo imperiale, riferisse tutto procedere a dovere. [p. 79 modifica]Ma poco essendo durata la satisfazione ricevuta dalla corte per cotali notizie, fu mandato a scoprir terreno lo stesso ministro Trautmansdorf, al quale disse Wallenstein indispensabile la pace, e che se di lui si dubitasse ritirato sarebbesi a vita privata . Ma fece poi, ad allontanare i sospetti, le imprese delle quali toccammo più sopra, vinse il 18 ottobre 1633 la battaglia di Steinau, e liberò dai nemici la Slesia, dove quelle bestiali efferatezze e turpitudini lasciò commettere a’ suoi soldati che legger si possono nella storia del Menzel. Ma non ritrasse egli da quelle fazioni gli sperati vantaggi, essendoché troppo presto agli ozii della Boemia si riducesse; donde a levarlo non valsero né le istanze, né i comandi dell’imperatore, bastando a lui che Aldringer e Strozzi, generali suoi, recassero con alcune truppe soccorso all’elettor di Baviera; il quale instò allora presso l’imperatore acciò levasse a Wallenstein il comando dell’esercito, il che infatti si propose egli di fare. Aveva intanto il valoroso Bernardo di Sassonia Weimar conquistato Ingolstadt e Ratisbona (Regensburg), e campeggiava lo svedese Horn nella Svevia, altri nel Palatinato, in Westfalia e altrove. “Fu un incendio generale, dice lo Schiller, per tutta la Germania, e l’anno susseguente alla morte di Gustavo (il 1633) fu agli svedesi così prospero, come se quel gran monarca avesse egli stesso continuato a comandarli”. E più avrebbero essi fatto se la discordia non si fosse posta tra i generali loro, i quali come appartenenti a nazioni diverse avevano altresì diversi i pensieri e gl’intenti.

Fece l’imperatore in quel tempo arrolar gente in Italia dallo spagnolo duca di Feria; ma tali ostacoli ai nuovi venuti copertamente suscitò Wallenstein, che ridottisi finalmente al Reno, colà miseramente si consumarono, e il comandante loro ne morì di cordoglio, lasciando a capo di quelle genti sminuite troppo di numero il generale Serbelloni. Aveva già il Priorato avvertito che la venuta del Feria in Germania con autorità indipendente [p. 80 modifica]da Wallenstein; al quale, secondo i patti convenuti, chicchessia doveva rimanere sottoposto; contribuì non poco a suscitare o ad accrescere nell’animo superbissimo di lui quel malcontento che tardar non doveva a trarlo in rovina . Ora poi diremo come nell’anno 1633, del quale insino ad ora narrammo gli avvenimenti, perdeva la famiglia imperiale uno de’ più fedeli e dei più valenti condottieri de’ suoi eserciti, essendo venuto a morte combattendo il conte Ernesto Montecuccoli.

Pressanti inviti aveagli mandato, dopo la battaglia di Lützen, il Wallenstein acciò passasse in Alsazia a difendervi Brissac (Breisach), che era presso che la sola fortezza in quelle parti rimasta agl’imperiali. Non aveva egli da prima, quasi presago di quanto era per accadergli, accettato quell’incarico; ma tre corrieri recanti nuove istanze di quel generale vinsero l’esitazion sua: e levati dalla Lorena quattromila uomini dell’elettore di Baviera a spese di esso elettore, a quelli li aggiunse che il duca di quel paese ebbe a licenziare, e agli altri di un Metternich già da noi nominato, che avendo dovuto per manco di viveri abbandonare Haidelberg, venne con essi a porsi sotto i suoi ordini. E una parte almeno di codesti arrolamenti di soldati fu fatta verosimilmente spedendovi Ernesto denaro suo e del fratello, essendo da riferire probabilmente a quest’epoca quanto diceva nel 1680 Raimondo in una esposizione all’imperatore. Protestavasi egli in quella tuttavia creditore di una porzione dei 270.000 fiorini spesi dai cugini suoi (de’ quali fu erede) per assoldare tre reggimenti a loro spese: del qual credito non aveva egli riscosso se non 50.000 fiorini. Quantun[p. 81 modifica]que non sia neppur da tacere esser corsa voce a quel tempo in Vienna che da Wallenstein avesse Ernesto ricevuto allora 200.000 fiorini da impiegarsi in far leve; ma poté anche quel denaro, se giunse veramente ad Ernesto, non esser bastato all’uopo.

Ma prima di aver posto insieme quel po’ di truppe, si trovò il generale Ernesto a ben duri passi, dovendo aggirarsi per luoghi occupati dal nemico; sicché a Lindau gli accadde di dover travestirsi da contadino per poter scampare di mezzo a loro. Scriveva in cotal circostanza il Bolognesi: “questi sono i buoni bocconi che si danno alla nazione italiana: mandare un cavaliere che ha servizio così lungo a rischio manifesto e di vita e di riputazione, perché dove va non vi sono provvigioni se non da disperati”. Ridottosi nondimeno Ernesto in Alsazia, e congiuntosi col mastro di campo Schaumburg, gli venne fatto d’introdurre vettovaglie per sei mesi in Breisach, e di tenere in sospetto gli assedianti con frequenti sortite dalla città, in una delle quali con un’astuzia di guerra gli riuscì di far prigioniero il presidio di Bossingen, dopo che molti di que’ soldati erano rimasti uccisi, rimandando esso liberi i prigionieri perché non aveva con che alimentarli, secondo scrisse Priorato. Ancora si legge nella storia della Baviera del Blanc avere Ernesto respinto un assalto dato a Brissac (Breisach) dal palatino del Reno, che già un grave danno agli imperiali aveva cagionato, tagliando a pezzi quegli alsaziani che da esso Ernesto erano stati armati a difesa della provincia loro. Narra Priorato occupasse il nostro generale Neuburg sul Reno ed Hagenau, ove fece prigioniero il colonnello Croneck che vi era comandante. Ma riebbero la prima di quelle terre gli svedesi; i quali notabili rinforzi avendo ricevuto, costrinsero Ernesto a non poter sortire da Breisach, dopo che per mancanza di viveri e di foraggi allontanar ne dovette, salvo trecento uomini, la sua cavalleria, mandata da lui a Costanza ad attendervi le truppe che venir dovevano in suo soccorso. A capo di que’ cavalli era il marchese di Baden, col quale sappiamo dal Bolognesi aver il Montecuccoli in Breisach avuto gravi dissidii, circa i quali fece esso marchese presentare sue lagnanze ai ministri di Vienna e a Wallenstein. Con [p. 82 modifica]lui uscì allora da Breisach anche il marchese Cornelio Bentivoglio. Ma finalmente una sortita di Ernesto gli tornò a male, e lo trasse innanzi tempo alla tomba. Il Bisaccioni ne’ suoi commentarii, e Gualdo Priorato nelle sue storie narrano come le cose procedessero, e noi le orme loro seguiremo. Dice adunque il Bissaccioni, che volendo il conte di Nassau (ossia il conte del Reno) cogliere in agguato gl’imperiali, lasciò due compagnie di cavalli nascoste in luogo opportuno, e due altre ne mandò verso Breisach; benché il Priorato faccia ammontare l’insieme di quelle truppe a quattrocento cavalli e a settecento fanti. Si avanzò una parte della cavalleria quasi a sfida fin sotto le mura della città: e invano i maggiori capitani suoi che seco allora sedevano a mensa, trattenner vollero Ernesto dall’uscire egli contro un così piccolo nucleo di uomini; ché volle ad ogni modo mettersi a capo de’ soldati che affrontar dovevano que’ nemici, apparentemente impiegati a fare scorta ad un convoglio di viveri. Si dettero questi, come ne avevano ordine, alla fuga; e seguitandoli egli, cadde nella tesagli imboscata. Imboscata eseguita, conforme asserisce il Priorato, da un Colombac (o Calombac) luogotenente colonnello nelle truppe del conte del Reno; il quale vendicar voleva il danno da Ernesto arrecato a’ suoi nell’improvviso assalto ch’ei dette ad una porzione delle proprie genti, quelle forse di Bossingen. Valorosamente si difendeva co’ pochi suoi uomini il prode generale, che trovossi a fronte improvvisamente tutte quelle genti del Colombac: se non che portato dal cavallo imbizzarritosi in una prateria paludosa, colà tre moschettate ricevette e due colpi di spada, cadendo perciò presso che morente in potere degli svedesi, che generosamente la sventura di lui lamentarono; a segno che il Colombac, che lo voleva prigioniero e non morto, ebbe a dire: che quantunque da quel fatto a lui venisse gloria, dato avrebbe la vita per salvare, se fosse stato possibile, quella di un così prode generale, secondo racconta il Priorato. Cento soldati imperiali, scrive il Bisaccioni, erano nella mischia rimasti sul campo . [p. 83 modifica]E s’adoperò sollecitamente l’imperatore, al quale premurose istanze perciò sappiamo dal Bolognesi aver fatto Claudia de’ Medici arciduchessa del Tirolo, affine di procurare di levar Ernesto di mano al nemico mercé uno scambio, essendo venuto notizia anche a suo fratello Girolamo che mortali non fossero le sue ferite: ma tali erano esse in effetto; sicché a nulla giovando le cure usate a salvarlo, venne egli a morte in Colmar, ove trasportato lo avevano, il 18 di luglio del 1633. Non contava più che 49 anni di età, essendo nato, come dicemmo, nel 1584. Due cappuccini che assistito lo avevano al letto di morte il tristo annunzio della sua fine portarono al fratello di lui. Aveva Ernesto a quel tempo il grado di generale d’artiglieria e di comandante le armi imperiali nell’Alsazia, provincia che non tardò molti anni a venir tutta in potestà de’ francesi, che la conservarono fino all’anno 1871.

“Non lasciò questo onorato capitano,” dice ancora il Bisaccioni “di far prova del suo core, non fu mai veduto volgere le spalle, e nelle ritirate istesse fulminando colla spada mettea terrore ne’ vincitori”. Lamenta egli poscia che morir dovesse in piccola, benché sanguinosa zuffa, e non in battaglia grande dove molti fossero stati spettatori delle ultime azioni sue . Gualdo Priorato, poiché la morte di Ernesto ebbe raccontata, soggiungeva: “Era di placidissimo aspetto, di dolci costumi, di maniere amabili... né vi sarebbe stato in Germania capitano che l’avesse avvanzato d’intelligenza, quando la fortuna avesse voluto esser condottiera delle sue vittorie”. E noi alla fortuna aggiungeremo la previdenza dei ministri di Vienna, perché la mancanza di questa lo lasciò talora senza viveri, e senza o munizioni o soldati, come più addietro avemmo già ad avvertire. Dell’affetto suo alla patria e agli Estensi per noi fu detto: dell’amabilità del suo carattere e della liberalità [p. 84 modifica]sua nello spendere in pro di soldati e di amici da più riscontri si ha contezza. “Egli, scriveva suo fratello Girolamo, fu liberale a segno che quello ch’egli aveva era per gli amici, e in quest’anno, tempo in cui non trovasi denaro neanche sopra pegno, diede in prestito gratis et amore al marchese Cornelio Bentivoglio 1800 talleri, somma per lui non indifferente”: e soggiungeva a lui suo erede esser toccato di pagare varii debiti da esso lasciati, il che fece “per riputazione di quella grand’anima e della Casa”. Di quel prestito poi troviamo che quattro anni più tardi faceva Girolamo istanza al duca di Modena acciò dal Bentivoglio volesse procurargliene il rimborso, e promise l’Estense di prendere a cuore tale bisogna. Dal carteggio del conte Tiburzio Masdoni, ministro estense a Roma, si ha infatti che nel maggio del 1639 trattava egli colà per incarico del duca col marchese Bentivoglio acciò venisse Girolamo reintegrato nell’aver suo. Perché poi non guari dopo la morte di Ernesto (cioè nel 1635) le carte archiviali ci mostrano che il feudo di Sassostorno nel Frignano, precedentemente ai fratelli Montecuccoli appartenuto, passò in diretto dominio della casa d’Este che lo incorporò in quella parte della provincia del Frignano che non era infeudata, io congetturo che Girolamo ad assestare le cose sue, e per pagare i debiti del fratello, nella difficoltà di riscuoterne i crediti, quel feudo vendesse allora la duca di Modena. Lo riebbero però più tardi altri della famiglia, e troviamo lo possedesse nel 1679 Ferrante Montecuccoli. Era stato Girolamo da Ernesto introdotto alla corte imperiale, dove non tardò guari ad ottenere nella grazia dell’imperatore Ferdinando II un luogo non men distinto di quello che vi teneva Ernesto: al qual ultimo dette Ferdinando una dimostrazione di affetto anche in occasione della sua morte, facendo sottoporre a processo un Ajazzi di Vercelli colonnello del marchese di Baden, e da esso mandato a Vienna, perché sparlava di Ernesto . Il marchese assunse poi il carico da quest’ultimo sostenuto in Alsazia. [p. 85 modifica]

Con molto dolore sarà stata senza più accolta da Raimondo non solo, ma da tutto il parentado, l’annunzio dell’immatura morte di un sì illustre congiunto, chiamato anche dal Tournemine negli Annali di Trévoux (sotto l’anno 1707) col nome di gran capitano, e che aveva accresciuto di certo molto decoro alla sua famiglia. E ben può credersi che anche alla corte estense, colla quale quelle relazioni Ernesto mantenne che venimmo accennando, molto grave sarà tornata quella notizia, non che a quanti furono che lo conobbero. Al giungere delle prime novelle, che non erano le peggiori, il cardinal Campori scriveva all’abate Fontana: “Gli avvisi d’Alsazia che V. S. si è compiaciuta di comunicarmi mi hanno turbato assai per la prigionia del Montecuccoli e per il pericolo in che si ritrova la piazza di Breisach” (lettera del 9 luglio 1633). E ben maggiore sarà stato il suo rammarico allorché la morte avrà saputa di Ernesto. Io poi non so se presso di lui si trovasse in Breisach il suo cugino Raimondo, quantunque sia molto probabile che egli pure intervenisse per alcun tempo almeno a quella guerra di Alsazia, nonostante che non ne rimanga speciale ricordo; e solo sapendosi che precedentemente alla morte di Ernesto era egli stato a Modena, come da questa rubrica s’impara della cronica dello Spaccini: “1633 31 marzo. E’ qui il Co: Raimondo del già Co: Galeotto Montecuccoli, giovane d’honorate qualità et valoroso soldato in Allemagna, et è vestito molto alla bizzarra”. Né altro particolare veruno essendo a mia cognizione circa il soggiorno in patria di Raimondo, amo però supporre che in cotal circostanza avrà egli avuto partecipazione dei lamenti che appunto allora, a approfittando forse dell’occasione della sua dimora in Modena, indirizzavano, per mezzo di un messo speciale, al duca i sudditi suoi di Montecuccolo; ai quali il lor podestà per incarico sovrano aveva fatto istanza in pieno consiglio del comune acciò saldassero certi debiti che con esso duca avevano per donativi di nozze. Né a ciò solo limitavansi le rimostranze di quegli uomini; ché in uno agli abitanti di Renno e di Montecenere, feudi pur essi de’ Montecuccoli, lamentavano le ruine fatte tra loro da un collettore [p. 86 modifica]d’imposte, che chiamavasi appunto Ruina, in tempo che il manco de’ prodotti della terra colpita da tempeste, e le tasse per quartieri allemanni, come dicevansi, avevano ridotto il paese in povertà. E forse a Raimondo si dovette se men aspra del consueto, trattandosi di far denari, tornò la risposta del principe; Il quale delegò i fattori generali all’esame di quanto quelle genti esponevano: concessione per altro che avrà recato per avventura a que’ miseri o nessuno o bene scarso sollievo. Accennerò inoltre che poté Raimondo vedere in cotal circostanza in Modena quel gaio e inarrivabile autore del poema La Secchia rapita che fu Alessandro Tassoni, reduce sino dal precedente anno alla patria in officio di gentiluomo di lettere del duca Francesco I d’Este. E non sarà qui fuor di luogo il ricordare il feudatario di uno de’ castelli de’ Montecuccoli, di quello cioè di Renno, che era il conte Andrea, del quale già tenemmo parola. Ad istanza probabilmente del conte Girolamo Montecuccoli, gli aveva l’arciduca del Tirolo impetrato dal duca di Modena la remissione dell’esiglio al quale per omicidio era stato condannato, e militò poscia in varie contrade. In Germania, ove al seguito del principe Borso d’Este aveva preso parte alla battaglia di Lützen, fece egli da testimonio nel duello ch’ebbe luogo fra detto principe e il conte Terzica (Terzki); del quale duello abbiamo la descrizione in una lettera del primo di essi, e nel manoscritto da noi citato Dei successi d’Allemagna ec., e diede luogo ad una scrittura del Testi in difesa di Borso. Il duello ebbe origine dal rifiuto del Terzki di accettare un gioiello fattogli offerire dal principe al quale ceduto aveva un reggimento, e dall’aver poscia rifiutato un cavallo altresì, protestando che gli si erano mostrati solo i peggiori. Invano ricorso avendo Borso al Wallenstein; del quale era il Terzki cognato, e tanto amico da voler divisa con lui la sciagura che l’anno successivo lo colpì; andò quegli a Vienna, ove si dimise dal servigio militare, per isfidare a duello l’offensore: il quale ebbe a padrino lo stesso general Piccolomini, mentre erano padrini di Borso il conte Andrea e il conte di San Bonifacio. Rimase Terzki colpito da una palla, se non che [p. 87 modifica]certo collare di ferro che portava al collo lo salvò: s’azzuffarono anche i padrini, ma vennero separati, e le discordie assopironsi. Borso partì allora per l’Italia, e il suo reggimento fu tra quelli dall’imperatore mandati in Fiandra . Non ritornò poi quel principe estense se non più tardi al servigio imperiale, dopo cioè la morte di Wallenstein. Ed ora il nome di questo generale c’invita a ricordare un donativo nel 1630 inviatogli dal duca di Modena: erano due cavalli condottigli a Memingen da un giovane Florestano Grillenzoni, al quale trecento fiorini ei regalò, come si ha da una lettera del Bolognesi. Accadde poi che detto giovane, carissimo al duca Francesco I, e secondo il Testi, addirittura suo amico, gravemente l’anno stesso (1630) s’infermò in Coira, mentre altri cavalli conduceva all’imperatore; al quale furono invece presentati da un proprio paggio, come lo stesso duca scriveva; e in altra lettera la morte del Grillenzoni lamentando, dicevalo uomo ragguardevolissimo nel suo mestiere. Lo Spaccini invece, parco lodatore com’era, notando nella sua cronica che morisse di peste, più abile lo asseriva nel saltare e nel ballare sui cavalli che nel maneggiarli.

Al pari dei due principi estensi venivano nelle convenienze loro offesi da Wallenstein Francesco e Mattia de’ Medici, essendoché obbligar li volesse a trattare con titolo d’illustrissimi i colonnelli e i gentiluomini suoi, minacciando che se non obbedissero farebbe dare ad essi del voi come cogli inferiori si usava. Risposero essi allora che se osasse alcuno maltrattarli a parole sarebbe da loro, come si espressero, maltrattato nei fatti; e tosto levandosi dal campo andarono ad Olmütz, di là spedendo a Vienna il cavalier Guicciardini lor maggiordomo ad esporre le proprie lagnanze all’imperatore. Il quale peraltro non osò prendere le parti loro, accettando, per quanto valer potesse, l’asserto di Wallenstein che non aveva già comandato [p. 88 modifica]ma soltanto consigliato quel modo di procedere. Volle poi il granduca di Toscana che ritornassero que’ suoi fratelli al campo di Wallenstein, mentre egli erasi affrettato a conferire a questo e a quel generale i reggimenti loro, non volendo ad essi più darne altri. Dei quali affronti i due principi toscani presero in appresso quell’onesta vendetta che noi vedremo. Il marchese di Grana eziandio abbandonava allora per offese ricevute il campo di Wallenstein, al quale, come scrisse l’Antelmi narratore di questi fatti, i due reggimenti suoi rinunziava, altri ottenendone poscia dalla Spagna. E lo stesso Piccolomini erasi deliberato passare al servizio di quella potenza se la guerra cessava, disgustato com’era de’ modi arroganti del generalissimo .

S’aprì il nuovo anno1634 con una catastrofe rimasta memorabile nella storia, colla tragica fine cioè del duce supremo degl’imperiali, che pure con fortunate imprese, e col largo uso delle smisurate sue ricchezze (non tutte a dir vero onestamente acquistate), più volte poté le vacillanti sorti dell’impero sostenere, da imminente ruina preservandolo. Dalle cose per noi narrate apparirà, credo, in qual trista condizione venuti fossero gli stati imperiali,, per opera certamente di molti, ma più del Wallenstein; il quale un’autorità erasi arrogata maggiore di quella del suo sovrano, alle cui lettere, come a quelle dei suoi ministri, afferma il Bolognesi che neppur sempre ei rispondesse. Erano le cose a tal punto pervenute che si rifiutassero ufficiali superiori di eseguire un ordine dell’imperatore, allegando che un altro in senso opposto dal generalissimo ne avevano ricevuto; così avendo fatto, ad esempio, un barone Suys. Ed era anche accaduto una volta che ingiungendo a Wallenstein l’imperatore di accorrere alla difesa di un alleato suo, facesse egli invece una tregua coi nemici . [p. 89 modifica]Alle bizzarre sue trattative con questi, da lui iniziate, rotte, riprese, avemmo già occasione di accennare più avanti; e di quelle colla Francia si ha un documento nelle memorie di Richelieu e di Feuquieres, nei dispacci del Soranzo ambasciator veneto a Parigi e in più storie. Se non che dicono i difensori di lui mirasse egli con questi modi ad ingannare i nemici (e questo sospettò ancora l’Oxenstierna), o ad indurre l’imperatore alla pace. Fin dove peraltro il Wallenstein aderisse ai progetti propostigli dai francesi, annuente la Svezia, pei quali conseguito avrebbe il trono di Boemia non può con certezza affermarsi; non avendosi neppure per certo che egli realmente protestasse, come dai francesi fu asserito, volere per sé quel regno e la Moravia in compenso del Meklemburgo e degli altri suoi feudi perduti in guerra. A Vienna nondimeno si tennero per indubitati questi propositi, come ne faceva fede il Bolognesi, che aggiungeva aver la Francia posto per patto al suo consenso che s’adoprerebbe il futuro re a farle ottenere le tanto agognate provincie tedesche lungo il Reno. Trattative senza dubbio vi furono, e di esse si hanno alle stampe più documenti. Le quali trame, onde è fatta menzione anche nel manifesto dopo la morte di Wallenstein messo fuori dall’imperatore , le disse Mailàth alla corte di Vienna denunziate dal duca di Savoia, e Priorato da un Metternich decano del capitolo di Colonia: ma quant’è alle cose accadute a Pilsen, dove con intento sedizioso convocato aveva Wallenstein i capi dell’esercito, come venissero in cognizione dell’imperatore lo troviamo narrato nella corrispondenza già citata dell’Antelmi. E pare a noi, come all’editore tedesco della medesima, che sia da prestar [p. 90 modifica]fede a questo ben informato ministro di una repubblica che, disinteressata ne’ fatti che nel fondo della Boemia accadevano, all’agente suo non chiedeva se non di ben appurare le cose che le comunicava. Narra egli adunque che al convegno di Pilsen non furono invitati i due principi toscani che colà si trovavano; ma che informati essi di quanto vi si era trattato, lasciarono Pilsen, e da Neustadt ove fermaronsi spedirono a Vienna il cavalier Guicciardini lor maggiordomo, che in segreti colloquii notturni coll’imperatore di quegli avvenimenti lo pose a giorno, confermate poco di poi le relazioni sue da una lettera di Piccolomini. Ma perché il ministro Eggemberg ligio a Wallenstein si provò a sparger dubbi sulla verità di que’ fatti, venne un consigliere Ghebard spedito a Pilsen, le lettere del quale e quelle di alquanti generali ogni dubbiezza tolsero di mezzo. La catastrofe che poi seguì è nota per cento storie, né qui è mestieri narrare come fuggito Wallenstein ad Egra, colà da ufficiali irlandesi venisse spento. Ma a mostrar lui innocente delle colpe appostegli alcuni scrittori si adoperarono, e più che altri il Förster biografo suo; non però a bastanza efficaci mi apparvero le ragioni con che le difese loro confortarono. A troppo alta meta mirava il Wallenstein, fidando nei soldati a lui per lungo spazio di tempo devotissimi: se non che fu profeta il Bolognesi allorché, non guari innanzi a questa epoca, al duca di Modena scriveva che “la soldatesca non gli riescirebbe, com’esso crede, favorevole”. E fu egli infatti spento per opera di soldati, né altri di essi cercarono di difenderlo o di vendicarlo.

Lo storico Mailàth, assolver volendo l’imperator Ferdinando da quanto vi fosse di odioso nella punizione senza processo, e così improvvisa del suo generale, che vivo o morto aveva dichiarato, come nella sentenza avanti citata ei confessa, di voler nelle mani; tien bordone in parte almeno al Förster, che in odio al nome italiano si scaglia, di questi fatti ragionando, contro Piccolomini, Galasso ed altri connazionali nostri, la colpa dei quali sarà dunque stata la fede mantenuta al principe cui servivano, al pari degli Slick, degli Aldringer e di altri allemanni [p. 91 modifica]che in quelle trame non si mescolarono: fedeltà che alla Germania risparmiò forse di andare spartita tra Svezia, Francia e gli slavi boemi. Della fellonia di Wallenstein nell’ultimo stadio del viver suo ben disse il Gejier: “che il più gran difensore di lui deve limitarsi a scrutare se volontariamente o forzato si fece traditore del suo principe”. Ch’ei fosse reo, ne va persuaso in un luogo della sua storia anche il Menzel; che poi non guari dopo, quasi ricredendosi, avvisa non altro volesse quel generale se non farsi dare una provincia, forse, con tutta semplicità soggiunge, la Boemia: traendo da ciò occasione a vituperare, come spesso gli accade, gl’italiani che a quello smembramento della Germania ostarono, e per l’integrità di essa combatterono. Raccolse egli ancora la voce che allora i fautori del caduto posero in giro, che di denari di lui (frutto probabilmente di recenti rapine) venuto il Piccolomini in possesso, se li appropriasse: calunnia che lo storico Bisaccioni si affrettò a smentire. Che poi ogni cosa accaduta fosse in obbedienza ad ordini precisi dell’imperatore se n’ha dimostrazione nei premii largiti agli esecutori. Narra anzi Mailàth che fu Piccolomini non solamente donato della contea di Naschod, ma trattenuto ancora al servigio imperiale che chiesto aveva di abbandonare; circostanza quest’ultima accennata, come dicemmo, altresì dall’Antelmi . Intorno al Piccolomini e alla famiglia di lui due opuscoli dette non è guari alle stampe in Pilsen il barone Arnoldo Weyhe-Eimke, in uno de’ quali da me posseduto, difende egli la memoria di quel prode italiano prediletto dalla fortuna, com’ei lo chiama; e le contumelie contro di lui scagliate dal Förster attribuendo a gelosie nazionali, dice che se quel grand’uomo tanto fedele all’imperatore fosse stato prussiano, diversamente l’avrebbe il Förster giudicato. Non tornerà poi discaro che da me venga tra le note riferito il giudicio che il celebre storico Ranke nella recente sua biografia di Wallen[p. 92 modifica]stein ebbe ad esporre sul Piccolomini, e delle parole medesime mi varrò, traducendole, colle quali questo giudicio per lettera mi comunicava il valente scrittore dottor Grossman di Breslavia . Tre mila messe fece l’imperatore celebrare per l’anima del Wallenstein lanciata così impreparata nell’eternità. Alle corti d’Europa inviò egli notizia di quanto era avvenuto; e l’Antelmi dice che a Torino, a Genova, a Parma, a Modena, a Firenze, andò a tal uopo il segretario Rodolt, incaricato altresì dell’inevitabile richiesta di denari per la guerra, non avendo l’erario approfittato delle confische dei beni de’ ribelli, che Ferdinando o tenne per sé, o regalò ad altri. Sono poi notabili i giudizii che si formarono intorno all’eccidio di Wallenstein nelle sfere ufficiali dei diversi stati, quali vennero al senato veneto comunicati dagli agenti suoi diplomatici, e di cui ci dà un sunto il Giublich, editore dei dispacci dell’Antelmi che si riferiscono al Wallenstein. Nei paesi soggetti alla monarchia spagnola, che molta parte aveva avuta nella condanna di quel generale, ne fu gioia maggiore di quella che a Madrid si provò per la morte di Gustavo Adolfo; e piacque negli stati italiani aderenti alla casa d’Austria, ma non alla corte di Roma che reputava il fatto opera di Spagna, né in Francia per le relazioni mantenute con quel generale: il cardinal Richelieu pianse allorché la morte di lui fu annunziata in consiglio. In Inghilterra diversi a seconda dei partiti furono i giudizii. Ma un aumento di ostilità dopo quest’epoca si fece manifesto, tra i generali dell’impero singolarmente, contro gl’italiani che ben meritato avendo della causa imperiale, ne avean ritratto talvolta condegne ricompense, e mantenevansi nel costante favore, che loro veniva invidiato, della corte: e noi più volte avremo a dire come di questi odii nazionali provasse gli effetti anche Raimondo Montecuccoli. Qui intanto noterò un gratuito oltraggio fatto alla memoria, secondo stimo, di Ernesto Montecuccoli dallo Schiller, nel magnifico suo poema drammatico sui casi di Wallenstein. Di quel convegno di Pilsen tenendo parola, del quale [p. 93 modifica]toccammo più addietro, fa egli proporre da un Montecuccoli si andasse ormai a Vienna a dettar legge all’imperatore, accennando però in altro luogo che mutasse poscia propositi . Ora, non tenendo in allora Raimondo neppure il comando di un reggimento, e non avendo se non il grado subordinato di tenente colonnello, tutto sembra indicare che non a lui, ma piuttosto alluder volesse il poeta ad Ernesto, amico che fu di Wallenstein, ignorando forse che da otto mesi era esso già morto. Ma l’uno o l’altro che prendesse egli di mira, non poteva certamente in persone avvenirsi che più di loro fossero alla casa d’Austria affezionate, e più aliene perciò dal consigliar tradimenti.

Non avversi in generale, fin dove il possono, e talora favorevolissimi al Wallenstein i diplomatici e gli storici italiani del suo tempo, e dei successivi ancora; trascende però tra questi ogni limite di convenienza il Cantù, quando nella sua così giustamente encomiata Storia Universale chiama spia ed assassino il Piccolomini, quasi che un generale cui venga una cospirazione rivelata (come più storici affermano che al Piccolomini facesse Wallenstein) anziché avvisarne il principe, dovesse o tenerla celata per darle agio a scoppiare, o meglio, prender parte alla medesima. Fu più nel vero il diplomatico Antelmi che disse traditore del suo sovrano Wallenstein, e Piccolomini dell’amico, ma per restar fedele all’imperatore. Ed è poi da notare che l’amicizia era stata da prima disconosciuta da Wallenstein, come ci venne detto aver scritto il diplomatico medesimo: e che il contegno di quel generale coi principi De’ Medici, a lui toscano, sarà tornato amarissimo. Alla catastrofe di Wallenstein quella incruenta tenne dietro del principe Eggemberg, che dicemmo essere stato favorito ministro dell’imperatore; il quale non di rado andava colla moglie Eleonora Gonzaga a visitar quello in sua casa, quando la podagra ve lo riteneva, sedendo essi ancora alla sua tavola da giuoco; negoziatore essendo stato [p. 94 modifica]l’Eggemberg del matrimonio loro, nella circostanza del quale largivagli il duca di Mantova una contea nel Monferrato del valore di cento mila scudi, e sette altri mila valeva una collana di diamanti ch’ei gli donò; altri regali ricevendo poi da entrambi gli sposi, secondo nella sua storia di Mantova racconta il Volta. Ma gran fautore di Wallenstein era l’Eggemberg: e s’avvide egli medesimo dopo quella di lui esser divenuta inevitabile la disgrazia propria; ond’è che avutone un lontano indizio nel non sentirsi più dal re d’Ungheria chiamato con titolo di affezione aggiunto al suo nome, riparò alle sue terre in Stiria, e venne poi a morte nell’ottobre di quell’anno medesimo (1634) a Lubiana, con molto dolore dell’imperatore, dice l’Antelmi, quantunque più non godesse del favore di prima. Al tempo della sua prosperità, racconta Mailàth, si dicesse in Vienna, tre essere i monti dell’imperatore: Eggemberg, Questenberg, Werdenberg. Quest’ultimo, che faceva parte del consiglio di stato, era nativo del Friuli, e il suo cognome era Verda, fatto poi principe di Werdenberg: è detto perciò italiano dallo storico ora citato.

Successore nell’officio che copriva Eggemberg fu il Trautmansdorf, e in quello di Wallenstein il re d’Ungheria figlio dell’imperatore, che gli pose al fianco come consigliere l’esperto Galasso di Trento, al quale la somma delle cose rimase affidata.