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che in quelle trame non si mescolarono: fedeltà che alla Germania risparmiò forse di andare spartita tra Svezia, Francia e gli slavi boemi. Della fellonia di Wallenstein nell’ultimo stadio del viver suo ben disse il Gejier: “che il più gran difensore di lui deve limitarsi a scrutare se volontariamente o forzato si fece traditore del suo principe”. Ch’ei fosse reo, ne va persuaso in un luogo della sua storia anche il Menzel; che poi non guari dopo, quasi ricredendosi, avvisa non altro volesse quel generale se non farsi dare una provincia, forse, con tutta semplicità soggiunge, la Boemia: traendo da ciò occasione a vituperare, come spesso gli accade, gl’italiani che a quello smembramento della Germania ostarono, e per l’integrità di essa combatterono. Raccolse egli ancora la voce che allora i fautori del caduto posero in giro, che di denari di lui (frutto probabilmente di recenti rapine) venuto il Piccolomini in possesso, se li appropriasse: calunnia che lo storico Bisaccioni si affrettò a smentire. Che poi ogni cosa accaduta fosse in obbedienza ad ordini precisi dell’imperatore se n’ha dimostrazione nei premii largiti agli esecutori. Narra anzi Mailàth che fu Piccolomini non solamente donato della contea di Naschod, ma trattenuto ancora al servigio imperiale che chiesto aveva di abbandonare; circostanza quest’ultima accennata, come dicemmo, altresì dall’Antelmi . Intorno al Piccolomini e alla famiglia di lui due opuscoli dette non è guari alle stampe in Pilsen il barone Arnoldo Weyhe-Eimke, in uno de’ quali da me posseduto, difende egli la memoria di quel prode italiano prediletto dalla fortuna, com’ei lo chiama; e le contumelie contro di lui scagliate dal Förster attribuendo a gelosie nazionali, dice che se quel grand’uomo tanto fedele all’imperatore fosse stato prussiano, diversamente l’avrebbe il Förster giudicato. Non tornerà poi discaro che da me venga tra le note riferito il giudicio che il celebre storico Ranke nella recente sua biografia di Wallen-