Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/3

Capitolo III. Guerre e prigionia di Montecuccoli in Germania

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Capitolo III. Guerre e prigionia di Montecuccoli in Germania
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Capitolo III

Guerre e prigionia di Montecuccoli in Germania

Sorgono talvolta nel maggior fervore delle guerre circostanze che se cogliere si sappiano, danno il tracollo ad una delle parti, e decidono ancora delle sorti di più generazioni. Alcune di queste, anche durante la guerra dei trent’anni si presentarono, e non si seppe, o non si poté da esse trar partito per impor termine a carneficine troppo a lungo durate. La morte di Wal[p. 95 modifica]lenstein uno di questi momenti produsse che infruttuoso fu lasciato passare dagli svedesi, perché le diffidenze e la discordia surte tra essi e i tedeschi alleati loro rendevano impossibile che qualche energica risoluzione si potesse prendere. Per la scomparsa dalla scena del mondo di quel gran capitano che aveva avuto in mano le sorti dell’impero, ogni cosa in molta confusione era rimasta, e in dissesto l’esercito, dovendosi anche vivere in sospetto circa la fede di molti ufficiali che militato avevano sotto di lui: mancava inoltre il denaro. Se svedesi e sassoni avessero più oltre proceduto nelle conquiste che in Slesia e in Boemia andavano facendo, e fossero rimasti concordi, e se Bernardo e Horn dal Danubio piombavano sugli imperiali, crede anche il Mailàth che in quella confusione universale all’urto di tanti nemici male avrebbe potuto reggere l’impero. Ma l’Oxenstierna per gelosie e per sospetti che accolse nell’animo, fece ostacolo ai progressi di Bernardo nel cuore dell’impero, e col negargli soldati lo alienò sempre più da sé; mentre da altro lato i sassoni che meditavano accordi cogl’imperiali, intralciavano le operazioni militari di Baner, col quale avrebbero dovuto operare di concordia . Tornò dunque impossibile agli alleati di cogliere la fortuna al volo, e convenne loro lasciare che gl’imperiali si rimettessero in forze, la qual cosa in minor tempo accadde di quello che sarebbe sembrato necessario. L’esercito con molti volontarii che anche da altri paesi accorsero si venne in breve rifornendo, e un corpo di truppe che il cardinale infante di Spagna conduceva in Fiandra, fu in que’ critici momenti posto a disposizione dell’imperatore dal re di Spagna. Si trovò modo di aver denaro per pagare alle truppe tre mesi di soldo arretrato, e disporre si poté ancora dei soldati della lega che dicevano cattolica. Se non che più cose, secondo il consueto, facevano difetto al campo imperiale: “Abbiamo gli eserciti, scriveva il Bolognesi, abbiamo i viveri e si muore di fame né si sa combattere. Non sanno come macinare il grano; Baviera fa pagare due talleri per ogni bestia destinata all’esercito che [p. 96 modifica]passa pel suo stato. Manca chi ponga ordine”. E in altra lettera lamentava la discordia tra i capi, e il mal animo verso gli ufficiali italiani, sopratutto contro Piccolomini e Galasso.

Ma se buona non era la conduzione delle truppe, suppliva il numero di esse; ond’è che si dette opera a far libero il Danubio, ponendo assedio a Ratisbona1, la quale da prima ributtò gli assalitori, facendo loro perdere otto mila uomini. Ma non soccorsa a tempo, e venute meno, come narra Priorato, le munizioni alla truppa svedese, finì coll’arrendersi. Ebbero poscia gl’imperiali Donauwerth, e posero assedio alla città forte di Nordlingen, devota quant’altre mai alla fortuna di Svezia: ond’è che il duca Bernardo di Weimar e l’Horn, il quale poco prima aveva occupato Landshutt, essendo l’Aldringer rimasto morto nell’incendio ivi sviluppatosi, accorrevano tosto a soccorrerla. E là appunto una celebre battaglia ebbe luogo non voluta, come l’Horn consigliava, evitare dall’impetuoso Bernardo, la quale durò due giorni (il 6 e il 7 settembre del 1634); finché, come ne’ suoi Aforismi racconta il Montecuccoli, essendo stata la cavalleria svedese che era alle ali dell’esercito interamente sconfitta, la fanteria che stava al centro fu rotta a cannonate, rimanendo prigioniero con altri tre generali lo stesso Horn, che non prima di sette anni racquistò la libertà. Fu detto che dodicimila uomini rimanessero spenti sul campo2. Grave pericolo corse allora il re d’Ungheria, essendogli stato ucciso al fianco quel colonnello piemontese Aiazzi, del quale tenemmo parola più addietro, e che fu lodato ne’ suoi Commentarii dal Bisaccioni (pag. 124). E di questa vittoria, la maggiore fra quelle riportate dagli imperiali nella guerra dei trent’anni, come scrisse il Mailàth, non negano gli storici il merito a Galasso, il quale le operazioni diresse che la fecero conseguire, e, come nell’operetta sua Delle battaglie notò Montecuccoli, in tempo occupò le alture, che invano si sforzarono poscia gli svedesi di riprendergli. Il Piccolomini [p. 97 modifica]che ivi perdé uno de’ suoi nipoti, il colonnello Silvio Piccolomini d’Aragona, pel valore in quella circostanza dimostrato ricevette dal re di Spagna una commenda di san Jago con tre mila scudi di rendita. Ancora ebbe con altri ad illustrarsi quel Jean de Werth figlio di un contadino vallone, che a molti fatti di valore e di audacia doveva i rapidi avanzamenti che da semplice soldato lo elevarono ai primi gradi nell’esercito bavarese. Ancora è ricordo della parte presa a questa battaglia dai reggimenti napoletano e lombardi del cardinale infante di Spagna, e dallo storico Priorato, che dopo la morte di Wallenstein s’era messo a militare coi bavari. Di Raimondo, dice quello storico, che in assenza del colonnello vi comandò il reggimento di cavalleria Fiston, virilmente comportandosi , come precedentemente aveva fatto durante l’assedio da noi già ricordato di Ratisbona, incominciato, come leggesi nel manoscritto delle lodi del principe Borso (che colà pure come a Nordlingen si trovò), il 16 luglio di quell’anno medesimo. Era poscia Raimondo andato a Vienna nell’agosto a chiedervi il comando di un reggimento di mille cavalli stato già di Ernesto; e del quale era morto allora il colonnello che nomavasi Cronenburg; ma, secondo scrive il Bolognesi, prevenuto l’imperatore dalla dimanda che a lui ne fece un cugino del Piccolomini, a questo aveva accordato la metà di quel reggimento, lasciando che per l’altra metà scegliesse il re d’Ungheria uno dei tre che gli proponeva, primo tra essi Raimondo. E che tale officio ei conseguisse con grado di colonnello lo aggiunse il Bolognesi in un poscritto ad una lettera al duca di Modena per notizia avutane dal conte Girolamo; ma poi in una successiva lettera, lamentando non abbastanza rimunerato un cavaliere così distinto, soggiungeva che la cosa era diventata dubbiosa; e non ebbe infatti più luogo. Del suo viaggio a Vienna dava conto Raimondo alla madre il 12 di agosto da Ingolstadt, profferendosi a lei grato pel denaro mandatogli, senza del quale non avrebbe potuto intraprenderlo. Di[p. 98 modifica]ceva poscia avviate allora le truppe fra le quali ei militava, all’assedio, che poi a bene riescì, di Donauwerth. Da una lettera del principe Borso d’Este impariamo inoltre che in occasione del suo viaggio a Vienna proponevasi Raimondo di andare per affari proprii anche a Modena; ma che mutato proposito, spedì colà un suo paggio, al quale le lettere ancora di Borso vennero affidate.

Durante le trattative ora indicate ebbe luogo la battaglia di Nordlingen; dopo la quale passò Raimondo col grado che si era riserbato di tenente colonnello nella cavalleria del marchese Annibale Gonzaga: e fu allora che, secondo espose ei medesimo nel suo Memoriale all’imperatore, entrò egli primo a capo de’ suoi soldati (ai quali aveva fatto metter piede a terra) in Kaiserbiten per la breccia: e sarà stato in tal circostanza che quei pubblici elogi gli furono fatti da Galasso dei quali è parola in una lettera del Bolognesi, se pure non vi si accenna a qualche precedente sua impresa . E fu poi a premio del suo valore che affidato gli venne l’anno seguente il comando di un reggimento di corazze appartenuto già al priore Aldobrandini, morto nella battaglia di Nordlingen. Del qual fatto dette egli conto al duca di Modena in quella lettera che da Giuseppe Campori, che ne trasse copia nell’archivio estense, comunicata al Polidori, fu da esso con altre pubblicata nell’Archivio Storico (vol. V, appendice n. 20, pag. 142). In quella venivagli dicendo che la speranza di militare un giorno pel suo sovrano naturale grandemente facevagli apprezzare la fortuna di potere nel grado allora conseguito continuare il corso delle guerre, dalle quali quegli ammaestramenti ritrarrebbe che meglio lo rendessero atto al servigio di lui. Seguitava annunziando avanzarsi un esercito francese guidato dal cardinal Lavalette, congiuntosi a quello di Weimar (di Bernardo duca di Weimar), che già aveva occupato Magonza, donde esso Montecuccoli col [p. 99 modifica]rimanente degli imperiali era passato a Worms, ove stava attendendo gli effetti che l’asprezza del clima fossero per produrre sui francesi. La posizione vantaggiosa permetterebbe intanto agli imperiali di respingerli se venissero ad attaccarli (dal campo presso Worms il 15 agosto 1635). E dalla risposta che gli fece il duca questo passo ci piace produrre che torna ad onore di Raimondo. “Il reggimento di corazze che alla persona di V. S. ha conferito il re d’Ungheria è bensì contrassegno della munificenza di S. M. ma infallibile argomento ancora del valore di lei che à saputo meritar gli onori molto prima di conseguirli ec.”.

Da quanto scriveva Raimondo ci sembra scorgere ch’ei militasse da prima nell’esercito di Galasso che campeggiava da quelle parti, ma passasse presto a quello che il generale Hazfeld condusse in soccorso dei sassoni; i quali non guari dopo i fatti di Nordlingen firmando a Praga il 30 maggio 1635 la pace coll’imperatore, eransi mutato in fautori della causa imperiale, ond’è che ebbero dal general Baner devastato l’intero territorio loro . Ma codesto volgersi dall’uno all’altro de’ belligeranti non era stato un partito abbracciato dalla sola Sassonia, bensì anche dall’elettore di Brandeburgo e da qualche principe minore, quando una gran prevalenza (come all’epoca della presa di Magdeburg e coi risultati medesimi) sembrò assicurata dalla vittoria di Nordlingen alla casa d’Austria, e alla lega cattolica. Le quali defezioni degli alleati della Svezia costrinsero allora l’Oxenstierna ad accettare (né prima aveva voluto mai farlo) con tutte le sue conseguenze l’alleanza attiva della Francia, più fortezze cedendole in quella provincia dell’Alsazia che così vivamente era agognata da Richelieu. E ad evitare questa occupazione di terre germaniche, aveva il cancellier svedese tentato di aprir pratiche di pace coll’impera[p. 100 modifica]tor Ferdinando. Ma accecato esso dall’insperate fortune delle truppe sue e della lega, e cedendo all’inasprimento di odii religiosi e civili che si era destato tra i bavari i quali si misero a devastare i paesi de’ protestanti ove entravano la prima volta , neppur rispose alla lettera dello svedese; onde sopra sé medesimo la responsabilità assunse del tanto sangue che ancora in quella guerra micidiale fu sparso. Coll’anno 1635 del quale incominciammo a tener discorso si apre il quarto periodo della guerra dei trent’anni, quello cioè nel quale la Francia, che per gelosia delle vittorie e della potenza di Gustavo Adolfo aveva bensì fino allora con danaro e con offici diplomatici contribuito ad agevolare le imprese di lui, ma non ancora formalmente dichiarato guerra all’imperatore, assunse l’impegno con trattato di Compiègne (sottoscritto il 28 aprile di quell’anno) che ampliava i precedenti accordi tra francesi e svedesi, di prendere parte alla guerra, somministrando sotto nome di ausiliarie le sue truppe agli svedesi. Col quale espediente l’astuto Richelieu lasciar volle all’imperatore il grave compito di una dichiarazione di guerra, ch’egli nondimeno tardò a fare insino all’anno seguente. Ma ogni probabilità di pace pei surriferiti fatti allontanandosi, reputò Raimondo ottima scuola essere per riescire quelle guerre all’ultimo de’ suoi fratelli di nome Galeotto, che giovinetto allora di 15 anni serviva in ufficio di paggio il duca di Modena . Dimandò egli pertanto facoltà al duca stesso di poter chiamarlo presso di sé, con una lettera della quale torna in acconcio il riferire i primi periodi. “Pare che la nostra famiglia abbia avuto quasi in tutti i tempi la fortuna e l’onore di avere persone che siano state impiegate nel servire [p. 101 modifica]la Ser. Casa di V. A. nelle cariche militari del suo stato. Io che ambisco che ci conserviamo in possesso di questa fortuna, ho sempre desiderato che qualcheduno de’ nostri sia continuamente sulla strada di farsi soldato per poter rendersi capace di questa grazia”. Chiedendo perciò di poter istruire il fratello nelle cose della guerra, soggiungeva che quanto v’acquisterà Galeotto tornerà in servigio del suo sovrano. E mandava a quest’uopo persona di sua confidenza che lo accompagnasse in Germania, ove attendeva allora esso Raimondo all’assedio di Hagenau, con timore per altro, come scriveva, che l’eccessivo rigore della stagione avesse a far lasciare a mezzo l’impresa. In Freiburg ebbe poi esso i quartieri d’inverno, come il Bolognesi c’informa. Ed era a quel tempo il principe Borso col suo reggimento a Spira, dove gli toccò alimentarlo, avendo trovato, allorché lo raggiunse, che da nove giorni mancava di pane . Con altra lettera del 6 febbraio 1636 rendeva grazie Raimondo al duca del consenso dato alla partenza del fratello, già pervenuto all’aprirsi di quell’anno ad Innsbruck, donde egli scriveva al Duca della speranza che nudriva di ritornare al servigio di lui con “accrescimento di abilità”.

Da Innsbruck andò Galeotto a Linz col conte Girolamo, che lo presentò all’imperatore; e di là mosse direttamente per l’esercito del generale Hazfeld allora nel Brandeburg, il quale soccorrer doveva i sassoni che avevano il territorio loro devastato da Baner. Con sue lettere dava conto Galeotto dell’assedio di Magdeburg, che era diretto dall’elettore di Sassonia e da Hazfeld. Circa al quale assedio di sé racconta nel suo Memoriale già citato Raimondo: che colla vanguardia da lui capitanata tre reggimenti svedesi sconfisse i quali avevano gli alloggiamenti a Tangerman, mentre era la cavalleria imperiale con Hazfeld a due leghe di là. E segue dicendo aver egli tenuto libero co’ suoi tutto il paese di qua dall’Albis, facendo sicuri gli assedianti, e battendo quattro grosse differenti par[p. 102 modifica]tite (com’ei le dice) di soldati di Wrangel, e delle cittadelle ivi intorno presidiate dai nemici. Fu più tardi Galeotto all’assedio di Werben, accaduto dopo preso Magdeburg, la qual piazza al dire di Priorato, fu mal difesa da gente nuova ed inesperta. E ad altri fatti intervenne pur anche Galeotto di quella guerra, che per lui esser doveva la prima e l’ultima. Arrideva allora la fortuna agli imperiali ben provveduti di alleanze; ond’è che prese ardire Galasso ad andare a sfidare sulle proprie lor terre i francesi, copertamente da prima, palesemente poscia nemici dell’imperatore. Dopo aver tolto loro Heidelberg, passò il Reno , e frapponendosi animosamente tra l’esercito di Bernardo e quello del cardinal Lavalette, la congiunzion loro impedì, ond’è che il duca di Weimar uso a vedere i nemici fuggire dinnanzi a lui, dovette allora cercare scampo nella fuga. Vivamente lo inseguiva tosto il valoroso italiano, che non s’arrestò se non a fronte di un terzo esercito francese guidato dal re stesso. Ripassò allora Galasso colle sue genti intatte il Reno. Ma lo rivalicò esso nel successivo anno 1636 a capo di 20.000 cavalli e di 10.000 fanti tedeschi e spagnoli, avendo seco il cardinal Tomaso di Savoia, Piccolomini e Jean de Werth. Varie imprese fecero essi in quelle parti, e poco stette che l’ultimo de’ generali or nominati non s’impadronisse di Parigi . Colse però opportunamente Baner l’occasione dell’assenza di que’ principali capitani dell’esercito imperiale; e il 24 settembre piombava con soli 7000 fanti e 9000 cavalli a Wittstock sul generale Hazfeld, che menava in campo 20.000 de’ primi e 15.000 de’ secondi. Un feroce urto fu quello dei due eserciti che l’intera giornata combatterono: [p. 103 modifica]e pronti erano gli svedesi a rinnovare la pugna il dì successivo, se Hazfeld e i sassoni, che 5000 de’ loro lasciato avevano sul terreno, non si fossero durante la notte posti in salvo, abbandonando ai vincitori 23 cannoni (essendo i saccomanni fuggiti, come disse Schiller, con tutti i cavalli), 50 bandiere (altrove trovo indicate 150 insegne), il bagaglio e inoltre le argenterie dell’elettore. Asserisce il Gejier scampati dei vinti in questa battaglia solo 1000 fanti imperiali, e una gran parte della cavalleria datasi, secondo egli afferma, alla fuga; la qual’ultima circostanza peraltro da ciò che siamo per dire non parrà esatta. Attribuì Raimondo ne’ suoi Aforismi la perdita delle artiglierie all’esser state queste non divise tra i corpi, ma riunite tutte in un luogo solo; lo stesso sconcio, secondo ei notò, essendo accaduto nella battaglia vinta da Torstensson a Jankowitz in Boemia. E nell’opuscolo Delle battaglie osserva che Hazfeld non bene difese i passi, e pose le truppe in un bosco, dove su di esse cadevano gli alberi atterrati o troncati dal cannone nemico. Principal cagione per altro del patito disastro afferma essere stati gli artiglieri sassoni, che senza trar colpo, sin dal cominciare della battaglia fuggirono, lasciando che dei cannoni s’impadronissero gli svedesi. Nulladimeno opina il Montecuccoli che anziché ritirarsi a Werden, avrebbe dovuto Hazfeld ripigliare il dì seguente la battaglia con quel vigore con che nel primo giorno si era combattuto, giacché gravi perdite avevano pur essi avuto gli svedesi. Ma non ostante il fatto della parità dei danni nei due eserciti, nota Raimondo non essere questa battaglia tra quelle “che non sono né vinte né perse”: ma che fu essa veramente perduta per gl’imperiali, avendo gli avversarii guadagnato il campo, prese le artiglierie, ed avuti “segni assai di vittoria”. La disfatta però non fu intera perché non fuggirono gl’imperiali, e non furono tagliati a pezzi.

Troncò questa battaglia di Wittstock la carriera militare del giovinetto Galeotto, il quale se meno in ira fosse stato alla fortuna, avrebbe potuto sotto la disciplina del fratello salire a rinomanza. Riportò egli infatti colà combattendo così grave ferita ad una gamba che lo lasciò storpio per tutta la [p. 104 modifica]vita; ond’è che quando si fu rimesso in salute, fece egli ritorno a Modena, dove ebbe officio dal duca di gentiluomo della sua camera . Se però un tanto infortunio commosse l’animo affettuoso di Raimondo, non gli tolse vigore per compiere un grave incarico che gli fu allora affidato. E fu quello di proteggere con quattro reggimenti di cavalleria, partendo due ore dopo gli altri, la ritirata dell’esercito, resa difficile dagli svedesi insecutori, e dai villici stessi di que’ luoghi, che tenendogli dietro, quanti soldati venivano lor alle mani uccidevano senza pietà, finché non poterono gl’imperiali riparare nella Vestfalia. E che maggiori guai non accadessero venne per comune consenso attribuito al vigore con che i cavalli di Raimondo attutirono gli assalti de’ persecutori più volte ricacciandoli indietro . Una tanta rovina venuta sull’esercito imperiale rese necessario il richiamo delle truppe che invaso avevano, come dicevamo, la Francia, allora appunto che buona impresa aveva fatto Galasso coll’impodestarsi del castello di Mirabeau in Borgogna.

Era a que’ tempi anche l’Italia per cagione del partito preso dalla Francia contro l’impero e la Spagna, tenuta in angustia, perché il Richelieu a divertir le forze loro fece invadere il milanese. Grave pericolo sovrastava pertanto al duca di Modena, che invitato a seguitare l’esempio del duca di Savoia accedendo alla lega austro-ispana, aveva preferito di rimaner neutrale tra i contendenti, condizione pericolosa spesso per chi non può con eserciti numerosi tutelare la propria indipendenza. Prospera nondimeno anzichenò ebbe egli la fortuna; imperocché respinse da prima con tremila de’ suoi soldati, ai quali tremila ottocento spagnoli si congiunsero, i piemontesi che penetrar volevano ne’ suoi stati; e quando questi alla lor volta, ricondotti dal general Villa, rimasero vincitori, l’inva[p. 105 modifica]sione degli spagnoli nel piacentino non permise ad essi di rimanere nello stato ducale. Entrò allora il duca nel parmigiano con 13.000 uomini, occupò Rossena, e costrinse le truppe di Parma a chiudersi in quella città. Interpostosi poi papa Urbano VIII acciò venissero le terre parmensi liberate dalle truppe che le occupavano, e per metter pace tra i duchi cognati, le cose per questo lato si quetarono, non restando di que’ conflitti altro ricordo se non quello dei balzelli ai quali per cagion della guerra ebbero i miseri sudditi a sottostare. Gravissimi fra gli altri quelli apparvero imposti ai sudditi di Raimondo, che perciò ne mossero lagnanze al duca, allegando che di 38 scudi per fumante (maniera di computo delle tasse) erano gravati, mentre gli altri frignanesi non soggetti a feudatarii lo erano di soli 14. Importabile dicevano poi essi quel carico allora che la carestia a maggiori dispendii li costringeva. E il duca Francesco che per quella guerra ottenuto aveva per mezzo del conte Girolamo di poter scrivere 500 soldati nel Tirolo, favore che ad altri era stato negato, non dimenticò nelle circostanze in cui si trovava che un suddito suo s’era venuto acquistando, comecché giovane, nome di prode e di sagace capitano, e scrisse infatti a Raimondo Montecuccoli chiamandolo presso di sé. Ed egli, quantunque impegnato nella guerra della quale più sopra tenemmo parola, volonterosamente accettava l’invito del principe suo; se non che accompagnato che ebbe il suo reggimento in Sassonia, gli fu negata la facoltà da lui richiesta di assentarsi per un mese e mezzo. Replicò egli, allorché prendeva parte all’assedio di Magdeburg, le istanze, rivolgendole al generale in capo, al quale diceva: “trattarsi dell’interesse di tutto quel poco che ho al mondo”; alludendo, com’ei spiegò, al servigio del principe suo naturale; ma neppur allora gli venne conseguito l’intento. Delle quali contrarietà rese egli avvisato anche il cugino Girolamo: ma al duca soggiungeva Raimondo che il lungo viaggio, e le quarantene alle quali sarebbe stato sottoposto, troppo breve, e perciò inutile avrebbero reso la dimora sua in Italia: del che si disse convinto lo stesso duca, il quale già attestato gli aveva il proprio gradimento per le [p. 106 modifica]ottime disposizioni, mostrate a suo riguardo. “La prontezza, così scrivevagli il duca, ch’Ella à dimostrato d’incontrare le nostre soddisfazioni in queste rivolte d’Italia ha di tal maniera obbligata la nostra gratitudine che nessuna cosa faremo mai più volentieri che darlene qualche evidente testimonianza colle opere istesse ec.”. Volle per altro Raimondo che Galeotto, fratello suo, poiché fu in grado d’intraprendere il viaggio, lo anticipasse, per far di persona testimonianza del buon volere del fratello verso il proprio principe, al quale del rimanente altri della famiglia Montecuccoli in que’ frangenti stavano presso. E qui sarà da soggiungere che aveva già nel marzo precedente fatto pratiche il Bolognesi per mezzo del principe Borso d’Este col general Galasso acciò il reggimento di Raimondo venisse anzi che contro gli svedesi, mandato in Italia cogli altri che partir dovevano a quella volta, il che non gli fu consentito.

Venne meno intanto la cagione per la quale era desiderata la presenza di Raimondo a Modena essendosi stipulata la pace; ond’è che gli faceva il duca medesimo significare che rimetteva ad altra circostanza il valersi della sua opera. Continuò pertanto Raimondo a prender parte alla guerra germanica, contribuendo per quanto gli spettava a quel rinnovamento delle fortune della causa imperiale, che apparve manifestissimo nel 1637, quando a Ferdinando II il terzo di tal nome succedeva nel governo dell’impero. Del secondo Ferdinando, del quale più volte ci avvenne di favellare, sinceri giudicii recò ne’ suoi ragguagli il Bolognesi, a seconda de’ casi che andavano accadendo; e noi più volte a lui nel parlare di cotesto imperatore ci riferimmo. Ebbe esso a lodatore il Mailàth, storico imperiale, mentre severamente da altri storici venne giudicato, dai protestanti singolarmente . In deplorabili condizioni lasciò egli certamente l’impero, al quale avrebbe potuto una onorevol pace coi suoi nemici procacciare, e nol volle: e su di lui ricadde il biasimo ch’era dovuto a quel partito che sotto veste [p. 107 modifica]di religione mirava a tutto dominare, incominciando dallo stesso indolente imperatore. E furono la fiacchezza di lui e l’inettitudine sua alle cose di guerra che tanti disordini lasciarono introdurre nella milizia, e più ancora nell’amministrazione della medesima, come già avemmo a dire. Datano dall’epoca del suo governo quelle bande di disertori, infestissimi ai paesi per dove transitavano, che da un De Merode alle truppe del quale avevano alcuni di questi disertori appartenuto, dai francesi furon detti marodeurs. Migliore del secondo Ferdinando fu il figlio che gli succedette, e meno fanatico, ma quantunque si mostrasse egli meno avverso alla pace, non seppe cogliere il momento che poco dopo la sua assunzione al trono si mostrò assai opportuno per conseguirla. Con mollezza infatti combattevano allora i francesi, stremavansi le forze di Svezia, ed altri principi tedeschi dall’alleanza con loro si distaccavano. Se si fosse fatto il nuovo sovrano a proporre accettevoli condizioni di pace, le avrebbero per avventura con soddisfazione accolte gli avversarii, i quali non dovevano allora essere senza timore per l’esito di quella guerra. Allo stesso sagacissimo general Baner fu mestieri di tutta l’esperienza e l’astuzia sua per sfuggire i pericoli tra i quali ebbe a quel tempo a ritrovarsi, mentre andavano intanto man mano perdute le conquiste fatte dagli svedesi in Germania. Ma oltremodo nelle terre ove si combatteva gravose ai popoli tornavano le truppe imperiali, insofferenti di disciplina, allora singolarmente che trovandosi ritardate le paghe e i viveri, si credevano licenziate a procacciarsi in qualsia modo quanto loro occorresse. E non era quello della rapina il partito peggiore al quale dalla fame fossero que’ soldati costretti ad appigliarsi: giacché e gli storici e il Bolognesi nelle sue corrispondenze attestarono, che non trovando talora quegli sciagurati neppure cadaveri di animali con che cibarsi, facevano lor pasto le carni umane, quelle specialmente di donne e di bambini appositamente uccisi; ricadendo poi la nefandità di cotali delitti specialmente sui fornitori degli eserciti, e forse su talun capitano con essi connivente, ma in parte senza dubbio sui ministri di Vienna che non mandavano il denaro occorrente a mantenere [p. 108 modifica]l’esercito. E dell’istinto della rapina molto diffuso tra i soldati imperiali ebbe un saggio nell’anno più sopra indicato (il 1637) Giorgio Guglielmo elettore di Brandeburg, mentre dal campo ritornava a Berlino; essendoché non lungi da Kustrin ebbe egli dai soldati del Montecuccoli svaligiate le carrozze e i carri ov’erano le robe sue. Onde le lagnanze che per questo fatto diresse ai ministri imperiali, porsero occasione ai nemici di Raimondo di rappresentarlo come autore o promotore di quella aggressione; pretendendosi ancora che, senza uopo di esame, e senza ascoltar sue difese, dovesse egli venir punito. Ma invece Galasso, Annibale Gonzaga, Luigi Pallavicino, il conte Kurz e il Bolognesi (dal quale abbiamo queste notizie) che lui sapevano innocente s’adoperarono a far chiari del vero i ministri; e uscì poi Raimondo da questa briga pienamente giustificato, ricevendo incarico di punire i veri colpevoli. Ma più mesi essendo trascorsi nella disamina di coteste calunniose imputazioni, il danno a lui ne derivò di venire nel frattempo posposto ad altri negli avanzamenti che gli spettavano, come più tardi ebbe egli medesimo a dichiarare al Trautmansdorf.

Ai quali spiacevoli accidenti si riferiscono alcune lettere del marchese Francesco Montecuccoli trovatosi, come siamo per dire, in Vienna allorché ebbero principio. Scriveva egli adunque al Bolognesi: “Si seppe anche prima della partenza nostra di costà (da Vienna) l’accidente del S.r conte Raimondo quale però fui assicurato dal S.r conte Girolamo sarebbe riuscito in niente, né voglio ora credere diversamente, considerando la prudenza e integrità di quel cavaliere”. E un mese dopo (il 2 aprile): “Con sommo gusto ho inteso che il negozio del Co. Raimondo abbi preso buona piega, e sia restata in chiaro la sua innocenza, e ben la prego con tutto il cuore [p. 109 modifica]a voler prenere di far capace S. M. e cotesti SS. Ministri, con levare al possibile ogni mala impressione che avessero concepita”. In una terza lettera narrandogli che a Modena altresì “s’erano disseminate chiacchiere non troppo buone”, e godendo nel sentirsi dal Bolognesi confermato il buon esito che la cosa aveva avuto, lo incaricava, a nome ancora del duca, di cooperare ai vantaggi di Raimondo, e alle sue giustificazioni. Per queste sarà per avventura bastato l’addurre l’impossibilità di mantenere la disciplina tra gente alla quale ciò persino si negava ch’era necessario a sostentare la vita. Ma a tale bisogna neppure allora si provvide: ond’è che Galasso, il quale come italiano più veniva lasciato di ogni cosa in disagio, sdegnato abbandonava il servigio; che però dovette per lo sfacelo in che vennero gli affari dell’impero, riassumere non guari dopo.

E occupato come fu sempre Raimondo nelle narrate cose, non ebbe agio di trovarsi in Vienna con due carissimi parenti, che colà si trattennero qualche tempo. Era il primo di essi quel conte Girolamo cugino suo da noi già più volte nominato, il quale nel settembre del 1636, dietro istanze fattegli dall’imperatore, accettato aveva di succedere al conte Schinchinelli come maggiordomo di Claudia arciduchessa reggente del Tirolo, il grado e lo stipendio conservando di gentiluomo di camera dell’imperatore; il quale al tempo medesimo gli dava titolo di consigliere di stato nella tutela dei figli di quell’arciduchessa, mentre di gioielli lo regalava del valore di duemila talleri. Sorella quell’arciduchessa del granduca Cosimo II de’ Medici; e, rimasta vedova nel 1623 dello scapestrato principe ereditario di Urbino, passò a seconde nozze con Leopoldo fratello dell’imperatore Ferdinando II. Era Leopoldo vescovo ad un tempo di Strasburgo e di Passavia; ma non essendo che suddiacono, aveva ottenuta la facoltà d’impalmarla, ad altri lasciando le mitre sue e i pastorali. Sappiamo poi mercé il carteggio diplomatico di Fabio Carandini ministro estense a Roma, che innanzi di sposare Claudia aveva Leopoldo fatto chiedere se nella casa d’Este fosse allora una principessa da [p. 110 modifica]marito: se non che la pretensione della corte di Modena che i figli che da quel matrimonio nascessero aver dovessero uno stato in proprio, mentre non poteva Leopoldo indicare se non la probabilità di avere in feudo il Tirolo, fece sì che in questo affare non si procedesse più oltre. Governò poi Claudia, lui morto, il Tirolo, molti italiani alla sua corte invitando; e buon luogo ebbe tra essi Girolamo stato già, come suo padre, più anni ai servigi della casa Medici. Ond’egli prese stanza in Innsbruck, consultato anche allora di frequente dal Bolognesi circa gli affari del duca di Modena; pel quale troviamo che nel seguente anno s’adoperava a far leve di soldati da comporre un reggimento per un colonnello Bernardi, ricevendo a tal uopo 25.000 talleri . Il viaggio del conte Girolamo a Vienna in quell’anno 1637 aveva per iscopo l’incarico datogli dall’arciduchessa, e ch’egli assai bene eseguì, di andare come commissario imperiale insieme ad altro cavaliere della corte di lei, in Polonia per alcuni affari di famiglia, e per combinare il trattamento dovuto alla regina moglie di Vladislao IV, che era figlia dell’imperatore Ferdinando II. Ritornava poi egli a Vienna nel successivo anno per presentare alla corte l’altro parente suo e di Raimondo al quale accennavamo, vo’ dire il marchese Francesco Montecuccoli , colà dal duca spedito sotto colore di fare offici di rallegramento per la nascita di un figlio dell’imperatore; ma più specialmente per trattare della successione al ducato della Mirandola, dalla quale il duca Francesco, esecutor testamentario dell’ultimo duca, rimover voleva la principessa Maria Cybo, per gratificarsi per avventura la Spagna, alla quale non mostravasi essa allora a bastanza aderente. E ancora trattar doveva delle non mai abbandonate pretensioni della casa d’Este [p. 111 modifica]sopra Ferrara, circa le quali bramava egli poter introdurre una protesta allorché si venisse ad una pace generale: ma secondo lo stesso Montecuccoli scriveva, ebbe in breve ad avvedersi che opportuno non sarebbe stato il tener parola d’altro che dei diritti estensi sopra Comacchio. Un altro incarico aveva poi esso, quello cioè d’indagare qual giudicio fossero per fare i ministri imperiali del progetto del duca (che poi l’anno successivo si effettuò) di fare un viaggio a Madrid: e lo sentì esso dal ministro Trautmansdorf biasimato. La mala contentezza dei ministri di Vienna venne ancora l’anno seguente accresciuta da non so quali comunicazioni a loro fatte dal padre del duca, il quale sotto le vesti monacali che aveva assunte non lasciava d’ingerirsi, con poca satisfazione del figlio, negli affari di stato, di ciò lagnandosi nella circostanza ora accennata il duca, scrivendo al Bolognesi. Sembra poi che indarno si adoperasse allora il marchese per ottenere non so che dignità al principe Rinaldo d’Este, mentre fine egualmente contrario all’espettazione conseguivano le istanze che l’anno medesimo ebbe a fare il Bolognesi perché venisse al suo principe conferito il comando delle armi imperiali in Italia. Circa la missione diplomatica del marchese Francesco alcuni particolari si hanno in una lettera di Fulvio Testi del 12 luglio 1637 scritta in Roma, e in altra del 19 settembre. Suggeriva il Testi procurasse il duca Francesco, mercé un matrimonio di un fratello suo colla figlia del defunto duca Galeotto, di avere dall’imperatore l’investitura della Mirandola. Lodava poi la scelta del negoziatore nella persona del marchese Francesco “cavaliere di proposito, di spirito e di prudenza”.

Ma se non fu dato, come dicevamo, a Raimondo di trovarsi in Vienna con que’ parenti suoi, di loro nondimeno disegnava egli valersi per far presentare all’imperatore nelle critiche circostanze in che allora si ritrovava un memoriale, ove non chiedeva già, secondo scrisse al Bolognesi, speciali favori, ma solamente che ricordasse l’imperatore essere lui vivo, e de’ suoi colonnelli: sperava poi non essere dimenticato se l’occasione si presentasse di conferirgli offici più elevati. E perché sarà [p. 112 modifica]giunto quel memoriale in Vienna allorché entrambi i Montecuccoli più non vi erano, fu esso dal Bolognesi, non come diplomatico ma come amico, secondo Raimondo gli commise, fatto presentare per mezzo di un segretario di nome Fischer all’imperatore, ed ebbe Raimondo a chiamarsi soddisfatto della risposta che ne ottenne.

Anche il conte Andrea da noi nominato passò in quell’anno per la Germania avviato alle guerre di Fiandra colle truppe imperiali ivi condotte dal Piccolomini; e nella collezione del conte Giorgio Ferrari si ha una lettera sua del 28 gennaio da Praga ov’ebbe a fermarsi. Una funesta notizia poco di poi pervenne a Raimondo, quella cioè della infermità, che fu l’ultima, della virtuosa sua madre; la quale in Modena venne a morte, come dai registri dei defunti apparisce che sono nell’archivio comunale, il 5 marzo del 1638 nella casa ov’essa abitava che era nella parrocchia della Trinità. Ebbe tomba presso il marito nella chiesa di san Pietro . E se l’affetto di Raimondo fu pari, come è a credere, a quello che sua madre portò a lui, grande sarà stato senz’altro il dolore da esso provato all’annunzio di una così luttuosa perdita. Venne non guari dopo a Modena per dar sesto alle cose sue, come annunziava egli stesso al Bolognesi di voler fare, con una lettera che da Praga gl’indirizzò il 25 luglio. Né forse tra le cose che aveva a trattare in patria sarà stata di poco momento la pretesa da un cavalier Panzetti modenese posta innanzi con segreti uffici in Roma al cominciare di quest’anno, per far suoi, pel titolo di una commenda de’ SS. Maurizio e Lazzaro concedutagli dal duca di Savoia, i beni dell’ospedale di san Lazzaro di Pavullo, del quale erano patroni la provincia del Frignano e i Montecuccoli, che insieme avevano dato que’ beni all’ospedale medesimo. Di questo affare trattò in Roma l’inviato estense Masdoni a nome del duca, che ai diritti speciali di Raimondo, e del conte [p. 113 modifica]Girolamo, non volle venisse recato offesa . Andarono nondimeno perduti non guari dopo i diritti de’ fondatori di quella benefica istituzione, lo stesso duca Francesco I essendosi fatto cedere, come dicemmo già, l’utile dominio di que’ beni a favore del fratello Obizzo vescovo di Modena. In questa città giunse Raimondo in tempo per vedervi il duca innanzi partisse, il che accadde il 12 agosto, per Madrid, avendo al suo seguito, tra gli altri, il marchese Francesco Montecuccoli poc’anzi nominato, il quale avea titolo di suo maggiordomo, e fu per alcun tempo il più favorito tra quanti servivano alla corte. Codesto viaggio in cui il duca Francesco spiegò un lusso che destò meraviglia negli stessi spagnoli, aveva a scopo gli atti di ossequio che far voleva al re il duca Francesco, nella circostanza che l’acquisto gli fu, dopo lungo tergiversare, conceduto del principato di Correggio confiscato al suo principe: se non che rimanendo colà una guarnigione spagnola che inceppava il libero dominio del duca, a lui, ma assai più tardi, cioè nel 1655, riescì di espellerla a forza di là. Solo peraltro il figlio e successor suo poté godere senza contrasto, e coll’investitura imperiale quel principato. Era stato Raimondo innanzi accadesse l’infermità di sua madre confortato a prendersi alcun sollievo dalle fatiche militari venendo a Modena, da una lettera di Fulvio Testi, col quale era in relazione di amicizia. Nella qual lettera, che si ha alle stampe, un esemplare delle sue poesie allora sotto il torchio gl’imprometteva il Testi, e parlando della corte di Modena, diceva: “Il mare è piccolo ma tranquillo. Non ha fondo per gran vascelli, ma non ha scogli per gran naufragi”. Nel che non fu il Testi profeta: scogli vi erano, e dopo essersi in quelli egli stesso più volte impigliato, finì col fare in essi naufragio. Non fu dato però a Raimondo di secondare per allora quell’invito.

Un mese all’incirca rimase Raimondo in Modena, dando contezza il 6 settembre al Bolognesi del suo ritorno in Ger[p. 114 modifica]mania; ove portato aveva una lettera del marchese Francesco a Giambattista suo figlio, il quale uscito dall’accademia dei nobili di Modena, che poco innanzi (nel 1637) erasi unita a quel collegio di san Carlo, venne mandato a studio della lingua tedesca a Vienna. Un secondo memoriale presentò Raimondo, reduce appena dall’Italia, all’imperatore, intorno al quale scriveva aver avuto buone parole dai ministri imperiali. Si sarà egli per avventura ritrovato questa volta in Vienna col cugino Girolamo, dall’arciduchessa spedito a riverire in nome di lei la regina di Polonia. E qui racconta il Bolognesi che essendo già partito esso da Vienna, un corriere lo raggiunse a dodici leghe dalla città invitandolo a ritornare sui suoi passi, avendo l’imperatore a conferir seco circa i modi d’impedire nuovi progressi del nemico, e circa la difesa dei passi della Valtellina. Prova codesta della stima in che tenuti erano i consigli di quell’esperimentato cavaliere.

Partiva Raimondo il 7 dicembre del 1638 pel campo imperiale, avendo a compagni il già nominato barone di Fernemond, e quel colonnello Borri del quale anche più oltre avremo a tener parola. Il giorno nel quale intraprendevano essi quel viaggio, quello era in che il duca Bernardo di Sassonia Weimar, aveva fatto prodigi di valore, dopo essersi in quell’anno sbrigato dalle pastoie in cui lo teneva il cardinale Lavalette, strano condottiere di soldatesche; giungendo perfino a conquistare Breisach, che per essere la chiave dell’Alsazia più eserciti imperiali tentaron poscia successivamente di riacquistare. Fu quella piazza astretta a rendersi per fame dopo che la guarnigione imperiale ebbe diseppelliti i morti per cibarsi di ciò che rimaneva delle lor carni, e macellati otto fanciulli! Il suo comandante Reinach aveva ucciso la propria moglie perché vendeva vettovaglie ai nemici (Menzel). Quattro grandi vittorie nel corso di quattro mesi aveva riportato Bernardo; in una di esse 2000 soldati e 4 generali essendoglisi resi prigionieri. Tra questi erano Jean de Werth e il romano Savelli, che quattro giorni prima lo aveva forzato ad abbandonare l’assedio di Rheinfeld, e che fuggì poi di carcere, meritandosi per questo dal Menzel (chi il crederebbe?) la taccia di mancator di parola; quasicché vi fosse mai [p. 115 modifica]stata persona alcuna racchiusa in carcere deliberata a non andarsene se gliene venisse il destro; nessuno avendo riferito che libero, dietro promessa di non fuggire, lo avessero lasciato. Ciò non era dal Menzel ignorato, il quale si guardò bene di fare ingiuria per consimil cagione al generale Arnheim (perché non italiano), fuggito di prigione per porsi a capo di nemici degli imperiali, o a Fürstemberg del quale diremo. Ma già aveva l’autore medesimo narrato essere Savelli fuggito una volta dinanzi a Bernardo; però soggiungendo dopo che questi aveva in tale occasione fatto prigioniero un terribile e fortunato avventuriere, Taupadel, caro a Bernardo, e lodatissimo dallo storico avversario nostro; il quale non s’avvedeva mal convenirsi ad uno che non badi se non a mettersi in salvo il fare una così grossa preda. Oh perché fece difetto al Menzel quella cara semplicità e quell’amor del vero che negli svedesi narratori di questi fatti medesimi (il Gejier e il Carlson) ci fanno sicuri d’ogni cosa ch’ei dicano! Mal consigliero agli storici è l’odio, essi che hanno per officio loro la ricerca del vero.

Le imprese del duca Bernardo che tre altre piazza in breve spazio di tempo occupava, alla lega franco-svedese quegli alleati acquistarono che i precedenti rovesci avevano da essa allontanato, rari essendo stati in ogni tempo coloro che consentissero porre a sbaraglio le cose proprie per tener fede agli amici, e frequentissimo il volgersi al sol nascente. Poté pertanto con aumentate forze nel 1639 anche il Baner rincorrere gl’imperiali. Sconfitto nell’aprile il general Salis, e poscia l’intero esercito sassone, empì egli di sangue e di rovine Sassonia e Boemia, nel qual ultimo paese più di mille tra castelli e villaggi andarono smantellati ed arsi. Di là passarono gli svedesi in Slesia, se non che ad amareggiare la gioia di que’ sanguinosi trionfi accadde nel luglio di quell’anno medesimo (1639) la morte del fortissimo Bernardo di Weimar, che staccatosi dai francesi avea preso a far guerra per conto proprio, contro di sé una grossa porzione di que’ nemici richiamando che il Baner avrebbe avuto di fronte. Per maggior iattura degli svedesi le vittorie di Bernardo non fruttarono che ai francesi; i quali a [p. 116 modifica]denaro comprarono l’esercito di lui, composto di tedeschi, e i comandanti in Breisach e in altre terre, che non volute da Bernardo ad essi consegnare, vennero, lui morto, in podestà loro, com’era agevole il prevedere che sarebbe accaduto.

Trovossi involto Raimondo nei disastri che dicevamo dell’esercito imperiale, e del sassone altresì; al quale, secondo al duca di Modena scriveva il due marzo da Vienna Francesco Alberto Bonacossi che qualche officio colà per gli Estensi esercitava, aveva esso Raimondo condotto un piccolo rinforzo di 1500 uomini. I pericoli dai quali era egli allora circondato in molta angustia tenevano, come dalle lettere loro apparisce, i parenti di lui, il marchese Francesco tra gli altri che istantemente pregava il Bolognesi di avvisarlo: “ora e frequentemente di quanto potrà intendere dello stato e successo di esso conte”. Non poca sorpresa recherà pertanto il trovare appunto allora dal duca di Modena fatto raccomandare per lettera dallo stesso marchese a Raimondo che desse opera acciò al cardinal d’Este l’arcivescovado di Vienna allora vacante venisse conferito, secondo avevagli promesso l’imperatore. Né Raimondo forse tra que’ frangenti di questo occupar si poté, né ottenne il cardinale l’ambito seggio. S’adoperava per altro al tempo medesimo il duca in pro di Raimondo presso il conte di Trautmansdorf, non so per qual cagione; del che ebbe Raimondo a dirsegli grato. E qui debbo far menzione di una lettera che da Vienna scriveva il 12 novembre di quell’anno il Bonacossi, nella quale un fatto è accennato che non trovo ricordato altrove. Racconta il Bonacossi spiaciuto alla corte imperiale l’accidente accorso al marchese Montecuccoli (certamente Francesco) di aver ricevuto uno schiaffo “trattandosi di un cavaliere di gran garbo, e d’un vecchio ministro di Casa d’Este”. Ma al senno già maturo di Raimondo [p. 117 modifica]sfuggir non poteva il tristo esito che la guerra mal condotta allora da Galasso e dagli altri generali aver doveva, a cagione ancora dell’essersi per le copiose diserzioni indebolite le truppe loro ; e scrivendo al Bolognesi, dopo aver detto che in quanto a sé trovavasi avere un grosso reggimento, che a Liegnitz in Slesia s’era venuto componendo con ciò che rimaneva del proprio e coi soldati di un altro che venne sciolto, soggiungeva: “Abbiamo a fare con inimici di fuoco, ma veggo molti de’ nostri confederati scuotersi nel manico, e quello che è peggio, siam pigri nei nostri provvedimenti. La più gran parte della cavalleria è anche a piedi, l’infanteria ancor tutta nuda... s’attende a riformare i soldati nell’armata, e la religione ne’ paesi, e in questo modo si deformano la religione e i paesi. Questa è cosa sicura che per obbligo della divozione, e per ambizione della gloria, e anche per lo stimolo della disperazione ci batteremo come disperati”. Questo però non molti fecero allora, ma lo fece bensì il Montecuccoli. A lui attribuisce il biografo suo contemporaneo, Enrico de Huissen, la liberazione di una città in Slesia da lui detta Namflau, e che il Paradisi nel suo elogio nomò Nemeslau, la quale era assediata da 10.000 svedesi del Torstensson, su loro essendo egli piombato con 2000 cavalli, che li volsero in fuga; il qual fatto per altro può dubitarsi avvenuto soltanto nel 1642, allorché era il Torstensson a capo dell’esercito svedese. Checché ne sia di ciò, le lettere del Bolognesi ci mostrano nel maggio il reggimento di Raimondo operar di conserva coi sassoni presso Praga, mentre erano gli svedesi sul fiume Eger, e fu in tal circostanza che una battaglia ebbe luogo nella quale rimase Raimondo prigioniero di guerra . Come ciò accadesse lo [p. 118 modifica]narreremo riportando da prima il dispaccio del 4 giugno 1639 col quale di quell’infortunio dava conto il Bolognesi al duca di Modena: “Per mezzo di corriere spedito dal conte Slich (così quel diplomatico), s’era saputo che avendo Banner finto di voler attaccare la città di Brandois in Boemia coll’occupare il ponte sopra l’Albis, Offenchirchen, il conte di Fürstenberg ed il conte Raimondo Montecuccoli si erano applicati a difenderlo, ma il nemico per tempo di notte aveva passato il fiume sopra un ponte di barche, senza che se ne accorgessero, per non curanza del reggimento del principe di Braganza. Offenchirchen avvisato di tal passaggio, lasciato presidio nella città, con Fürstenberg e Montecuccoli, colla cavalleria e 500 fanti s’era portato ad investire il nemico, che rinforzato aveva dispersa la cavalleria comandata da detto conte (Raimondo) e dall’Offenchirchen, e tutti tre i capi che come vittoriosi s’erano nel combattere inoltrati, erano rimasti con la fanteria preda del nemico, fuori del conte di Fürstenberg, che era riuscito a salvarsi, dopo esser stato fatto prigioniero, coll’aiuto d’un croatto. Quel che fosse accaduto all’Offenchirchen ed al Montecuccoli non si sapeva, si temeva però fossero morti o prigioni. La cavalleria cesarea in questo fatto s’era, senza necessità, posta in fuga, come soleva fare in tutte le occasioni”. A questo primo dispaccio un altro ne aggiunse il Bolognesi sette giorni appresso, nel quale, completando i precedenti ragguagli, diceva rimasti prigionieri l’Hoffkirchen, il Montecuccoli, il suo sergente generale, due tenenti colonnelli (uno di questi era il marchese Sforza Pallavicini) ed altri ufficiali di fanti e di cavalli, con perdita di sei stendardi. Circa la cavalleria, confermandone la fuga, soggiungeva non aver essa sparato più di 50 colpi di pistola. Appena fu il duca di Modena informato di questo infortunio così ne scrisse al Bolognesi: “Sentiamo con molto dispiacere la prigionia del conte Raimondo Montecuccoli. Risultando però le sue disgrazie da gloriosissime azioni tanto più vivamente oltre l’affetto parziale che portiamo a detto cavaliere per le sue degne qualità e per esser nostro vassallo, premiamo ora che costà verso la persona sua sia tenuta la memoria e fatta la diligenza [p. 119 modifica]che merita acciocché per mezzo di un cambio segua il suo riscatto. Vi ordiniamo però che a nostro nome vivamente parliate con cotesti Ministri e con S. M. medesima se farà bisogno, procurandone l’effetto a tutto vostro potere”. E appunto allora s’avea speranza potesse farsi uno scambio di prigionieri, come al marchese Francesco scriveva lo stesso Raimondo. Nell’ottobre di quell’anno avvisava poi il Bonacossi che desideroso il Baner di procacciare libertà al general Horn, consentito avrebbe a dare in cambio tutti i prigionieri che aveva, ma l’elettor di Baviera in poter del quale era l’Horn chiedeva invece 60.000 talleri, e si sarebbe poscia contentato di 40.000 per cederlo: ma non fu la proposta accettata, e venne poi più tardi dato l’Horn in cambio di Jean de Werth e di Puech. Né altre condizioni per la liberazione di Raimondo ammise mai il Baner, rifiutando ancora due colonnelli svedesi che il Borri gli offeriva in cambio di lui e del Pompei compagno suo di sventura: né poté mai per allora riescire il Bolognesi a far cosa alcuna che gli giovasse, quantunque avesse una volta l’arciduca Leopoldo sborsati 2000 talleri per la liberazione del Montecuccoli. Né mancavano il duca di Modena e i parenti di tenere con frequenti lettere raccomandato il diletto prigioniere al Bolognesi, al quale del rimanente era di potente stimolo l’amicizia che professava a Raimondo; ma tornavano indarno le istanze che andava egli iterando. Tre anni fu Raimondo prigioniero di guerra ora a Stettino ed ora a Weimar. Dalla prima della quali città scriveva al Bolognesi invano aver egli proposto al Baner di poter riscattarsi a denaro, dando di più un colonnello che l’imperatore gli cederebbe; e sarà probabilmente questa la proposta da noi più sopra accennata.

Aveva il duca di Modena anche dalle circostanze politiche in che si trovava, un impulso maggiore a desiderare che Raimondo uscisse di prigionia, designando valersi dell’opera e del consiglio di lui. Così infatti il 13 febbraio del 1641 scriveva il duca al Bolognesi. “Avressimo gusto di poter tirar quanto prima qui il conte Raimondo Montecuccoli. Vi accenniamo questo nostro senso non perché abbiate a dichiararlo, ma perché [p. 120 modifica]vi serva di motivo per procacciare con ogni applicazione il suo riscatto. Non restate di partecipare che speranza se n’abbia”. Ma già il 22 novembre del precedente anno aveva il Bolognesi presentato una supplica all’imperatore nella quale dicevagli: “Passano 18 mesi che il conte Raimondo Montecuccoli è prigioniero della Corona di Svezia, e mentre attende dalla clemenza della M. V. i mezzi per la sua liberazione, intende che siano rimasti prigionieri due tenenti colonnelli svedesi che posson darsi in cambio di esso Montecuccoli, per la quale invigilando io infrascritto come ministro del duca di Modena di cui è vassallo benemerito il conte Raimondo, umilmente e per gli ordini che ne tengo ricorro all’innata pietà della M. V. supplicandola restar servita ordinare che si metta in trattato col Banier il cambio, in considerazione non solo che detto conte è il più antico prigioniero di Banier, ma il più anziano ancora nella carica. Della grazia che si degnerà concedere V. M. il duca resterà colla dovuta obbligazione”. Ma tutto tornò indarno anche allora. E di queste premure del Bolognesi in favor suo più volte ebbe con sue lettere a dirglisi grato Raimondo, che pur lo pregava a non desistere dalle istanze, vie più perché parevagli di essere dalla corte imperiale dimenticato dappoiché si erano, come una volta gli scrisse, scambiati ufficiali che da men tempo di lui erano prigionieri. Venivano poi da Raimondo a quel ministro estense indirizzate le lettere da spedire a Modena, dove non di rado esprimeva il desiderio di ritornare per prestarsi in servigio del duca. Così troviamo che scrivendo del ritorno in patria di Giambattista Montecuccoli, figlio, come dicemmo, del marchese Francesco, soggiungesse: “così potessi io accompagnarlo di persona!”. Anche il principe Mattia de’ Medici l’opera sua a quel tempo interponeva per la liberazione di quel prode italiano; della qual cosa, non che d’altri favori che asseriva avere da lui ricevuto, si protestò riconoscente Raimondo quando partecipar gli poté d’aver racquistato la libertà.

Che grave riescir dovesse ad uomo della gagliarda tempra di Raimondo in sul vigore de’ suoi trent’anni il passare dall’agitata e faticosa vita de’ campi di guerra all’inazione così [p. 121 modifica]a lungo prolungata in una fortezza, è agevole l’imaginarlo, ed apparisce dalle sue lettere. Ma forse non sentì egli da prima tutta la gravezza della sua sventura, reputandola di breve durata. Scriveva infatti al Bolognesi poco dopo il suo arrivo a Stettino: “la compagnia di altri prigionieri ci fa trovar mille invenzioni di esercizii per alleggerir la noia della prigionia”; ma dalle successive lettere si fa manifesto come venisse man mano lo sconforto occupandogli l’animo. Le memorie per avventura lo assalsero dell’età infantile, della patria, della famiglia, delle prime sue prove nell’armi, de’ successivi conflitti e della gloria che in quelli insin d’allora aveva conseguito. Né poco pensiero gli avrà dato il vedersi troncata la via a conseguire que’ più elevati gradi militari che le condizioni fortunose dei tempi gli assicuravano, e che una pace improvvisa poteva intanto per lunghi anni allontanare da lui. Né poca amarezza cagionato gli avrà il contegno di molti tra i compagni suoi di sventura, che dediti all’ozio e al giuoco a lui erano troppo inferiori. Trovavasi tra i prigionieri un amico suo dal quale non so che grave offesa avendo ricevuto, si vide astretto a cimentarsi con lui in duello. Riescì egli a disarmarlo; e a vendicar l’oltraggio aveva già in alto levata la spada per finirlo, quando un senso magnanimo di pietà lo trasse a riconciliarsi, senz’altro pensare, coll’offensore. Ma se per più ragioni dolorosa riescì a Raimondo la prigionia, un inestimabil vantaggio seppe egli da quella ritrarre; imperocché, abborrente com’era dall’ozio, si fece in quel tempo a perfezionarsi negli studi fatti in Italia, e non potuti forse durante il corso della faticosa sua carriera militare proseguire. Maestro a sé stesso, lunghe ore meditò in quel lasso di tempo sui volumi degli antichi sapienti, e de’ moderni, avendoci egli medesimo lasciato un elenco di quarantacinque scrittori di storia e d’arte militare, latini, italiani, tedeschi e francesi, le opere dei quali egli allora studiò, valendosi de’ libri che formavano la biblioteca del palazzo dei duchi di Pomerania in Stettino, come scrisse il Bisaccioni. Qual pro da codeste lucubrazioni della mente ei ritraesse, le opere che ci lasciò a sufficienza lo fanno [p. 122 modifica]manifesto: “Imparò, secondo scrive Enrico de Huissen biografo suo contemporaneo, la politica leggendo Tacito, la geometria dagli Elementi di Euclide, l’architettura da Vitruvio. Per variare le sue occupazioni studiò ancora hor la Giurisprudenza, hor la Medicina e la Filosofia”. E agli autori citati dall’Huissen altri aggiungere si debbono, come più sopra dicevamo, il Macchiavelli tra questi, dal quale, come da Tacito, può credersi gli derivasse quello stile succoso e stringato che ammirasi negli scritti di lui. Furono per avventura in sin d’allora iniziate da esso quelle disamine circa le dottrine teologiche, delle quali ebbe ad occuparsi nell’età senile, e quegli studi di chimica e di botanica ne’ quali il garfagnino Giovanni Benassi, autore di parecchie opere sotto il nome di Pierelli, e più tardi suo segretario, lo diceva occupato durante gli ozii campestri di Hohenegg, in questi versi di un’egloga in lode di Raimondo.

Sa qual stelo è salubre, e qual s’infiora,
Qual è pontico (?) o dolce, e i succhi loro
Con le fiamme e il cristal sovente esplora.

Non è poi improbabile che, come il Wallenstein, all’astrologia ancora attendesse, molto in voga al suo tempo, e che utile ei reputava in certi casi come ebbe a dire in una memoria che in appendice riporteremo.

Degli studi suoi militari presentò Raimondo appena racquistata la libertà un saggio al Piccolomini, che di ciò lo aveva richiesto. Era un trattato dove la tattica egli esponeva usata dagli svedesi nelle guerre alle quali aveva preso parte, trattato che ritengo smarrito. Di un altro sopra l’arte della guerra diceva il Borri, intelligente di cotali cose come dotto ingegner militare ch’egli era, essere lavoro veramente ammirabile, tale altresì chiamandolo il sergente generale Bruay. Conservasi quest’opera scritta in Stettino, come in essa è notato, in un esemplare ornato di disegni a colori e coll’arma estense nella biblioteca di Modena, depostovi forse dal duca Francesco al quale, come diremo, Raimondo mandollo da Vienna, ed è tuttavia inedito. Quantunque sia da credere che da questo suo lavoro avrà [p. 123 modifica]tratto Raimondo assai materiali per le successive sue opere militari, di molta utilità tornerebbe a ogni modo che venisse pubblicato per le stampe. Perché con sufficiente ampiezza vedrebbonsi svolte in quest’opera alquante materie trattate altrove con brevità.

Coll’esperienza, come dice egli stesso, in quindici anni di vita militare acquistata, le diverse cagioni vi si vengono esponendo per le quali si fa guerra, i tentativi usati per evitarla, i preparativi per intraprenderla. E’ detto poscia dell’armamento delle truppe, delle leghe, del modo di condur la guerra, quando torni più acconcio il far la pace: e consimili argomenti viene l’autore trattando, ai quali il mutare de’ tempi non ha tolta l’opportunità. Seguono dissertazioni sull’artiglieria, sui fuochi d’artificio, sulle macchine, sulle fortificazioni ed altre qualità di fabbriche, e un discorso finalmente col quale si dimostra aver fondamento la meccanica nelle matematiche. Questa, e ogni altra scrittura del Montecuccoli, quelle comprese che si serbano in Vienna nell’archivio di guerra, sono in lingua italiana assai in uso al tempo di lui alla corte imperiale, come ne fanno fede anche le lettere in quella lingua a lui indirizzate dall’imperatore e dai ministri, e quell’accademia italiana che, secondo diremo a suo luogo, fu in quella capitale istituita dall’arciduca Leopoldo. All’epoca medesima della sua prigionia sarà da riferire parimente altra scrittura sua inedita che si conserva nella biblioteca estense, ed ha per titolo Delle battaglie; perché gli esempi ch’ei reca a dimostrazione dei principii che annunzia sono tolti da fatti d’arme anteriori alla sua prigionia. Insegna in questa scrittura quel valente italiano come s’abbia a scegliere il terreno e il momento opportuno per dar battaglia, le precauzioni che s’hanno a prendere, il modo di disporre le truppe, e quello d’infonder animo ne’ combattenti, citando ad esempio i turchi che con bevande eccitanti quasi furiosi rendevano i soldati loro che avevano a combattere. Parla poi delle cautele da usarsi per impedir la fuga dei soldati, del tener separati i corpi di diversa nazionalità, e di altri consimili particolari. Scritture coteste del Montecuccoli, le quali se si producessero per le stampe s’avrebbero, al pari delle altre [p. 124 modifica]opere di lui, come documenti di molto valore per la storia militare del secolo XVII.

Né con minore curiosità di quella che lo traeva a consultare le opere degli antichi scrittori avrà egli atteso a tenersi a giorno, per quanto gli era dato, di ciò che a quel tempo accadeva. Insino a lui sarà senza dubbio pervenuta notizia della mala condizione delle cose dell’imperatore, in gran parte dovuta alla sua incuria, che ci vien così al vivo descritta in una lettera che il Bolognesi scriveva il 13 gennaio 1641, della quale torna bene riferire il passo seguente: “Oh Dio, che governo è questo! Ogni mattina consigli e poi pranzi con banchetti lautissimi e con giuochi di grosse somme sin all’ora di cena, e chi vi vuol pensare vi pensi: voglio dire che non si attende alle cose necessarie, e poi vorrebbersi miracoli da Dio con orazioni, comunioni, elemosine al luoghi pii e celebrazione di messe ben pagate, et a mio credere sarebbe stata cosa più grata a Dio impiegare tal denaro ed aggiungerne altro, levandolo dal lusso che è grandissimo, in vestire la soldatesca che intendo grida vendetta sin contro l’Imperatore, come che con troppa crudeltà la faccia governare, e Dio sa con qual cuore anderà a combattere, se pur forse non risolverà di farlo alla disperata per fornire una volta la miserabile vita”. Né punto mutaronsi per volger di mesi le condizioni degli imperiali, come ce ne fa testimonianza una lettera scritta il 28 ottobre di quell’anno dal marchese Luigi Pallavicini che trovavasi allora colle truppe al campo di Nortewitz: “E’ una compassione, scriveva egli, il veder marciare a piedi nudi nel fango e nell’acqua gli offiziali e bever acqua, ma empietà il far crepare di fame e di freddo quei soldati che finalmente sono il miglior sangue che l’imperatore abbia nelle vene. Iddio lo perdoni a chi n’è la causa. Altro non so che soggiungere se non che mi trovo consumato, senza un soldo, e S. A. (l’arciduca Leopoldo) non ne tiene: sia lodato Iddio”. In altra sua soggiungeva poi il Pallavicini che “uomini stanchi, nudi e morti di fame difficilmente vincono nemici freschi, ben vestiti e calzati”. Era a capo delle truppe l’arciduca Leopoldo fratello dell’im[p. 125 modifica]peratore, sotto la direzione del Piccolomini reduce allora dalla Fiandra.

Singolare tra le imprese di guerra di quel tempo fu quella improvvisa marcia del Baner che lo condusse inaspettato dinanzi Ratisbona, ove coll’imperator Ferdinando erano convenuti a consultare sugli affari comuni i membri della dieta germanica. Trovavasi allora, secondo narra il Menzel, fuori di città alla caccia l’imperatore, che a stento sfuggì ai dragoni svedesi, perdendo i suoi cani da caccia e 24 falchi, che Baner cavallerescamente gli rimandò. Lo sciogliersi de’ ghiacci nelle fosse della città impedì poi l’assalto che l’ardito generale s’era proposto di darle, e lo astrinse a ritirarsi; ma raggiunto da Piccolomini a Neuburg fu vinto da questo in battaglia, seimila svedesi rimanendo prigionieri, tra i quali quel colonnello Slang che venne più tardi, come dirassi, dato in cambio del Montecuccoli. L’allegrezza degli imperiali per questo insperato trionfo ebbe ancora ad aumentarsi quando o pel disordinato suo modo di vivere o, come sospetta il Menzel, per veleno venne a morte in Halberstadt il valoroso Baner; al quale una gloria al tutto nuova neppure mancò: quella cioè di procurare, anche estinto, una vittoria a’ suoi soldati. Comecché questi, il 29 giugno in Wolfenbüttel, per incuorarsi alla battaglia si togliessero in mezzo a loro la bara che il corpo conteneva del lor capitano, assalendo tosto l’armata dell’arciduca Leopoldo e del Piccolomini, che venne sconfitta.

La morte del Baner nuove speranze destò in una prossima liberazione di Raimondo, che da una parte rinnovava il duca di Modena al Bolognesi gli ordini acciò di quella circostanza approfittasse, la quale poteva dar luogo ad un scambio di prigionieri; e dall’altra lo stesso Raimondo ai ministri imperiali per questo si rivolgeva: e non dubitò ancora, nell’agosto del 1641, di scrivere alla giovinetta regina di Svezia, colla quale lo vedremo poi congiunto in ossequiosa amicizia. Né forse tornarono al tutto indarno le istanze che allora ei le mosse, giacché siamo per vedere cessata nel successivo anno la prigionia di lui.

Il luogo del Baner fu preso da un generale che fu stimato [p. 126 modifica]il migliore tra quelli usciti dalla scuola di Gustavo Adolfo; da Bernardo Torstensson , capitano non men valente che fortunato. Egli fu che, riconquistata gran parte della Slesia, entrò, primo fra gli svedesi, negli stati ereditarii di casa d’Austria, invadendo la Moravia, e spingendosi sin presso Vienna; mentre francesi e assiani alleati suoi, che nel gennaio a Kempen sconfitto avevano Hazfeld, prendevano ferma stanza nell’elettorato di Colonia. Fu appunto in momenti così critici per l’impero che racquistava Raimondo la libertà. Ma prima di conseguirla una dolora notizia gli pervenne che molto amareggiato avrà l’anima di lui, dalla sventura resa più sensitiva. Galeotto, il fratello suo che dicemmo aver dovuto per le ferite riportate abbandonare la Germania, e che nel gennaio di quell’anno, che fu il 1642, aveva conseguito un ufficio aulico nella corte di Modena, venne barbaramente ucciso da un tedesco.

Del funesto caso dava notizia il duca stesso di Modena al Bolognesi in una lettera nella quale, dopo aver espresso il vivo suo desiderio della liberazione di Raimondo, amando egli la sua persona e stimando, come conviene, il suo merito, e nudrendo affezione per tutta la sua casa, così continua: “Anz , tedesco noto al conte Raimondo, del qual servitore non ordinariamente si fidava il conte Galeotto, l’amazzò nella propria camera per levargli una golana, alcuni denari e certi argenti. Non si scoperse l’assassinamento sino alla domenica verso la sera: e avendo lo scellerato pigliata la mattina per tempo la fuga, facessimo seguitarlo per corrieri espressi per tutte le parti dove probabilmente poteva essere incamminato; e non ostante che anch’egli avesse pigliata la posta a Buonporto, fu però arrivato a Padova e vi si trova carcerato”. Altri ragguagli recano essere stato colui da un bargello colà spedito tradotto a Modena, ove senz’altro sarà stato impiccato. Una lettera poi del [p. 127 modifica]conte Francesco Montecuccoli dice fosse il corriere di Ferrara quello che raggiunse l’omicida e lo trasse alle carceri di Padova . Le intime relazioni avute da Raimondo con quel più giovane de’ suoi fratelli, al quale in Germania era egli stato mentore e maestro, e la pietà destata già in lui dalla recente sua sventura gli avranno resa più che mai dolorosa la crudel morte ch’egli incontrò.

Ma anche da un altro dei suoi fratelli ebbe Raimondo in quell’anno medesimo argomento di rammarico, come da una lettera ritraggo del duca Francesco I indirizzata sotto il 27 giugno a Raimondo, dalla quale ci vien conto che questo giovane nascosamente e contro il volere fraterno ascritto si fosse ad un ordine religioso, che era quello de’ gesuiti, come si ha da una lettera del 19 settembre 1642 scritta dal marchese Massimiliano della linea di Polinago. E che forti istanze avesse fatto Raimondo al duca per qualche severa misura che lo costringesse a depor l’abito, congetturar si può da questo passo della lettera responsiva del duca: “Quant’è al P. Massimiliano interporremo i nostri offici perché abbia effetto il desiderio di V. S. quando si sia in istato che possa aver effetto: ma essendo di già sacerdote (del che forse non sarà informata V. S.) non sappiamo se vi sia luogo di ridurlo allo stato ch’ella vorrebbe”. Che poi gli foss’egli effettivamente fratello si ha da una lettera ch’esso indirizzò a Raimondo, al quale fu fatta pervenire dal Bolognesi. [p. 128 modifica]Un’altra lettera di un gesuita Massimiliano Montecuccoli, che dovrebbe essere appunto quello sul quale c’interteniamo, scritta l’8 giugno 1645, la quale è tra i manoscritti del marchese Capponi in Firenze, c’insegna che innanzi d’entrare in religione avesse egli avuto figliuoli. Prega esso infatti in quella il Bolognesi, già rimpatriato, a fargli avere a Reggio le lettere de’ suoi figli, essendoché da Novellara, ove trovavasi, gli era stato da’ suoi superiori (gesuiti) ordinato di andar colà. Nessun albero però della famiglia Montecuccoli tien nota di questi figli di Massimiliano, o ch’egli avesse moglie; il che dà luogo a supposizioni diverse: ma di lui ci è conto come nel 1647 andasse con altri dieci gesuiti alle missioni del Paraguai, pel qual paese chiedeva indulgenze al cardinal d’Este con lettera scritta da Genova. Se non che basti il già detto dei fratelli di Raimondo, e ripigliamo piuttosto il racconto dei casi suoi. Il 5 dicembre pertanto del 1641 una lettera del marchese Luigi Pallavicini dal campo imperiale di Guerfort indirizzata al Bolognesi narrava dagli svedesi condotto Raimondo da Stettino a Weimar; e stimavasi per un cambio con altri; anzi designavasi ancora l’ufficiale svedese che si libererebbe, e che Girolamo scriveva già partito da Vienna. Furono vane speranze: e da Weimar faceva Raimondo sapere al Bolognesi che, quantunque non disperasse di una vicina liberazione, temeva peraltro non riescissero a ritardarla i bavari colle istanze che all’imperatore facevano in favore di due prigionieri loro. Erano questi Jean de Werth, che quattro anni innanzi era stato da Bernardo di Weimar, che lo aveva vinto in battaglia, mandato a Parigi; e il colonnello Pequem (altri scrisse Puech): i quali appunto allora vennero dati, in cambio del general Horn. E pochi giorni innanzi, cioè il 18 gennaio, il Borri che rivestiva allora il grado di sergente generale, ad un pranzo del conte Cassel, ov’era altresì il Bolognesi, annunziava aver offerti due colonnelli svedesi prigionieri suoi ed altri officiali in cambio del Montecuccoli e del colonnello Pompei. Ma che aveva egli pure incontrata l’opposizione che dicemmo dei bavaresi; i quali profferito avevano anche all’arciduca Leopoldo di restituirgli i duemila talleri che sborsato aveva per la liberazione di Raimondo, [p. 129 modifica]come già avemmo occasione di menzionare più addietro. Soggiungeva poi il Borri che s’avvedrebbero in breve gli svedesi del danno a sé medesimi procacciato col tenere così a lungo prigioniero Raimondo, il quale si era frattanto reso dottissimo nella scienza militare. In favore del Montecuccoli, e contro le pretensioni dei bavari, si adoperò a quel tempo altresì il Piccolomini; ma tutto fu indarno: e per allora non venne Raimondo liberato, mentre a Modena e a Venezia, secondo scriveva da Roma Francesco Montecuccoli, erasi sparsa la voce che già tornato foss’egli al campo imperiale. Il disinganno provato fece che più vive le istanze divenissero del duca e del marchese Francesco al Bolognesi, ed altresì al Pallavicini in pro di Raimondo. Alla fine anche il colonnello Slang veniva dagli imperiali mandato per trattar di scambi di prigionieri; ma senza che si sapesse per certo se sarebbe in questi compreso anche il Montecuccoli, del quale si era nondimeno annunziata imminente la venuta a Modena, “ove lo chiamano, scriveva il marchese Francesco, i suoi interessi e molti altri rispetti”, con che alludeva ai servigi che da esso aspettava il duca. Un mese dopo poté per altro il Bolognesi, con una lettera sua del 7 giugno 1642, annunziare che reso Raimondo a libertà insieme al Pompei in cambio dello Slang, trovavasi allora in Vienna; al che rispondeva il marchese: “E’ innesprimibile l’allegrezza che mi reca l’avviso della tanto bramata liberazione del s.r conte Raimondo, e siccome ne conosciamo in buona parte il successo dai favori e diligenze di V. Signoria Illustrissima le ne restiamo tutti noi particolarm.te obbligati”. Inviavagli al tempo medesimo la risposta ad una lettera che Raimondo appena libero gli indirizzò. Presentavasi intanto Raimondo all’imperatore e all’arciduca che amorevolmente lo accoglievano; e al primo di essi chiedeva denaro per rifare il reggimento suo, che rovinato ne’ combattimenti avvenuti durante la sua prigionia, era ridotto a 150 uomini, tutti senza cavalli. E dal Piccolomini ricevette allora l’incarico di scrivere una memoria sulle condizioni in che l’esercito svedese si ritrovava, complemento forse dell’altra che [p. 130 modifica]dicemmo aver egli fatta sulla tattica degli svedesi: ma ignoro se a questo lavoro avesse poi agio di attendere. Opportunissima riesciva ai disegni del duca di Modena la liberazione di quel valente suddito suo, dell’opera del quale meditava giovarsi. Erasi egli infatti lasciato indurre a sostenere contro i Barberini, nipoti di papa Urbano che da essi veniva a lor posta dominato, le ragioni di Odoardo Farnese cognato suo, al quale il suo ducato di Castro volevano essi confiscare, allegando i debiti da lui contratti cogli impresarii de’ monti di Roma. Invano erano corse pratiche per impedire che avessero queste private querele a mutarsi in una guerra. Era stato il duca stesso di Parma nel 1639 a Roma per cercare accomodamenti, e venne a tal uopo spedito colà dal duca Francesco I il marchese Francesco Montecuccoli con diverse proposte, tra le quali quella persino di un parentado da contrarsi mercé un matrimonio tra un estense e una Barberini. Venne ancora segretamente posta un momento in discussione una lega del duca col papa, cosa da ritenersi impossibile se di ciò non si trovasse ricordo nel carteggio diplomatico del Montecuccoli (lettera del 26 aprile 1642). Fu quest’ultimo bene accolto dai Barberini, desiderosi, come dice l’Avogadro nel suo Mercurio, di guadagnarsi l’animo del duca nell’impresa che meditavano contro Parma. Ma o perché deluse vedessero le speranze concepite, o perché le melliflue parole loro coprivano inganno, il marchese, dopo essere stato più volte da essi trattenuto col metter fuori nuovi progetti, dal partire da Roma, di là finalmente levossi. E mal satisfatto si disse egli così degli ecclesiastici come anche del duca di Parma, il quale, secondo scriveva confidenzialmente al Bolognesi, non aveva voluto prestarsi con qualche concessione a cercare d’impor fine a quei dissidii, troppo fidando nei francesi, i quali ogni cosa intorbidavano.

Usando le scomuniche e poscia le armi, vollero i Barbe[p. 131 modifica]rini impossessarsi di Castro, e ciò venne lor fatto in sullo scorcio del settembre del 1641. Per la qual cosa un turbamento grande s’ingenerò negli stati italiani, tanto più allora quando i Barberini fecero ragunanza di soldati sul bolognese e poser mano a fortificazioni, porgendo occasione a sospettare che altri disegni in danno altrui andassero meditando. Si venne in effetto a scoprire non guari dopo che miravano ad occupare Parma e Piacenza. Il quale disegno se loro fosse riescito a bene perniciosissimo era per tornare al duca di Modena, lo stato del quale sarebbesi trovato racchiuso fra terre occupate dai pontificii, e fatto scopo perciò a future ambizioni. Aveva intanto il duca di Modena rimandato a Roma il marchese Francesco, che colà fu tenuto a bada dai Barberini, i quali a Modena spedivano, strano ambasciatore, un cappuccino con offerta di depositar Castro in mano del cardinal d’Este, o anzi dello stesso duca Francesco, come a lungo fu poi discusso. Altre proposte si posero innanzi, quella tra l’altre che Francesco I cedesse Montecchio al duca di Parma, e ricevesse in cambio Bondeno, con che il papa terrebbe Castro per sé. Erano lustre per guadagnar tempo. Poiché infatti furono 18.000 soldati raccolti sul bolognese, fu mandato a Modena Agostino Marigliani a dimandare al duca il passo pel suo stato a quelle genti; e perché non trovava esso in quel frangente chi lo assistesse, altro ripiego non gli sovvenne fuor quello di chiedere la dilazione di un mese. Il qual tempo a comporre gli bastò quella lega con Toscana e Venezia, la quale fu tutta opera sua, e che se fosse stata più concorde e più pronta alle offese, funesta riescita sarebbe ai Barberini, ma che ad ogni modo troncò il volo agli ambiziosi disegni loro. Fu per altra parte singolar cosa a quell’età una guerra combattuta tra italiani senza che vi prendesser parte, salvo che con le pratiche, potentati stranieri, per quante arti usasse Spagna, come occupatrice del milanese, per essere ammessa nella lega, designando valersi delle forze degli italiani contro la Francia. Codesta lega sottoscritta dal duca Francesco il 29 luglio del 1642, alla quale nuovi capitoli si aggiunsero nel settembre [p. 132 modifica]in favore del duca di Parma, ebbe poi, siccome diremo, ulteriori accrescimenti nel successivo anno. E con patto speciale venne il duca di Modena autorizzato a fare esaminare le ragioni sue sopra Ferrara, da sottomettersi poscia ad un arbitro. I quali diversi trattati veder si ponno nell’archivio già degli Estensi, e con essi quello altresì che innanzi alla conclusione della lega fu da Lodovico Scapinelli a nome del duca Francesco firmato in Bologna, col quale obbligavasi l’estense a concedere il passo alle truppe papali per gli stati suoi; trattato però che il duca non aveva in animo di eseguire, avendogli mandato i veneti a questo effetto, anche prima che fosse la lega sottoscritta, un sussidio di 3000 fanti e 320 cavalli guidati dal commissario Contarini (Antonini, disse l’Avogadro). Onde il generale de’ pontificii, il Mattei, che vedemmo già militare in Germania perdendovi un occhio, il quale sapeva grossi i veneti nel Polesine, e vedeva disertare a compagnie intere i suoi soldati, e temeva de’ toscani postisi a campo sui confini del Frignano, non osò allora tentare un’invasione nel modenese; tanto più trattandosi di un fatto da lui prima disapprovato. E Francesco I d’Este il quale a norma dei patti della lega non era tenuto somministrare se non 2000 fanti e 300 cavalli, armò nondimeno 6000 de’ primi e 1200 dei secondi; e rimane ricordo delle requisizioni di cavalli che allora si fecero, e come si assegnasse a ciascuna provincia il numero d’uomini che fornir doveva, vuoi per la guerra, vuoi pe’ lavori di fortificazioni. Contribuì ai dispendi straordinari che allora occorsero Raimondo altresì, essendo andati nel Frignano a levar contribuzioni sulla provincia e sui feudatarii, il capitano Antonio Coccapani e il commissario Cavallerini.

Qui non istaremo a raccontare la correria che sul territorio pontificio fece a quel tempo il duca di Parma Odoardo Farnese; bastandoci accennare soltanto allo sdegno che contro il duca Francesco divampò allora alla corte pontificia, come si ha dalle lettere del conte Tiburzio Masdoni residente estense in Roma. Scriveva non osar più presentarsi a papa Urbano per non esporsi, com’ei diceva, a nuovi strapazzi; irritatissimo essendo il papa anche per questo, che la lega si dichiarava [p. 133 modifica]fatta per la pace d’Italia, con che si accusava lui di turbarla. E più rimostranze ebbero a fare al Masdoni i cardinali, ond’è che con lieto animo accogliesse poi la facoltà concessagli di lasciar Roma, donde partiva il 16 novembre del 1642 andando governatore in Garfagnana.

Verremo poi ora senza più a dire come non riescendo al Bolognesi di ottenere il congedo per Raimondo, ne faceva il duca stesso formale domanda con lettera sua all’imperatore, dichiarando occorrergli di averlo a capo della propria cavalleria; ma pregando nel tempo stesso perché fosse eziandio lecito a Raimondo di venirgli in aiuto col suo reggimento. Quella lettera scritta da Fulvio Testi sta fra le sue (al n. 347) edite in Modena nel 1817. E perché in essa la facoltà ancora si chiedeva di far leve in Germania, e a Raimondo di radunarle, espresse il duca la speranza che il Piccolomini pure fosse per fare in tal circostanza, col secondare l’opera di Raimondo, “la parte di buon amico di S. A., e di buon italiano”, siccome è riferito dal Bolognesi. Il Piccolomini invece, trovandosi l’anno appresso disoccupato, trattò di venire a militare contro la lega, e perciò contro il principe suo naturale, il granduca di Toscana, narrandoci il diplomatico medesimo non essere egli stato alieno dall’accettare le offerte larghissime del papa. Darebbe a lui, come vedremo aver poi fatto per altro generale, un cappello cardinalizio, e un secondo a un fratello di lui, un donativo di 60.000 scudi, 24.000 di soldo annuo, e cessata la guerra un assegno di 12.000 scudi. Ma l’imperatore che non voleva potente il papa, il quale credevasi che macchinasse coi francesi di porre a capo dell’impero l’elettor di Baviera , per prezzo della neutralità, e sospettavasi mirasse a conquistare sugli spagnoli il reame di Napoli, dissuase quel generale dal tener l’invito, consigliandolo invece ad entrare temporaneamente al servigio di Spagna, con promessa di reintegrarlo nel suo grado allorché ritornasse in Germania. E fu questo il partito al quale [p. 134 modifica]il Piccolomini effettivamente si attenne, e che forse desiderava, non avendo probabilmente avuto mai in animo di farsi soldato del papa. Al Fernemond poi, al quale consimili ma più modeste offerte vennero fatte, vietò ricisamente l’imperatore di accettarle. Negava per altro esso medesimo a quel tempo di aderire alla dimanda del duca di Modena, asserendo, e così il Trautmannsdorf, troppo necessario allora all’esercito imperiale il Montecuccoli; e accennava anche il ministro al pericolo che non volesse poi levarsi più dalla patria: al che rispondeva il Bolognesi, che inclinando il conte Girolamo ad istituirlo erede, avrebbe egli senz’altro preso ferma stanza in Vienna. Né dandosi per vinto il diplomatico italiano, non concedea requie al ministro imperiale, che finì col dirgli impossibile che si lasciasse partire “il miglior soggetto che s’avesse all’armata” (lett. del Bolognesi); colle quali parole mostrava credere Trautmannsdorf maggiori dei meriti de’ generali imperiali quelli di un semplice colonnello. Ciò nondimeno poté il 30 agosto scrivere il Bolognesi, essergli riescito di ottenere dall’imperatore che si consentirebbe la partenza a Raimondo acciò servisse, ma per soli tre mesi, il duca di Modena. Era egli allora al campo dell’arciduca Leopoldo, e il grado gli era stato promesso di sergente generale di battaglia, conferitogli poi, non già come narra il Priorato il 22 giugno di quell’anno medesimo (1642), appena cioè uscito esso di prigionia; ma sì il 20 settembre, come al duca Francesco scriveva il suo ministro a Vienna. E aveva il Montecuccoli stesso prima di partire per Modena chiesto all’imperatore in Ebersdorf l’adempimento della promessa, venendo poi la dimanda sua avvalorata dalle lettere ch’ei presentava dell’arciduca Leopoldo e del Piccolomini. Era il grado di sergente generale, come già notammo, il primo passo nell’ordine de’ generali, al quale si ascendeva da quello di colonnello, e lo troviamo indicato in un rescritto imperiale in latino col nome di vigiliarum præfectus. Non era quello per altro il grado che spettato sarebbe a Raimondo se non avesse la prigionia interrotto il corso alla [p. 135 modifica]sua carriera militare, secondo scriveva egli stesso al Trautmannsdorf .

Da una lettera del Pallavicini da noi nominato, il quale era colle truppe al campo sotto Olmütz, ci è conto colà essere stato Raimondo, dopo uscito di cattività, e che ne ripartiva il 17 di luglio “per qualche bella fazione”, come in quella lettera si legge. Con altra poi del 26 del mese stesso Raimondo avvisava che a capo di 200 cavalli, vanguardia dell’esercito dell’arciduca, era egli andato a sorvegliare le mosse che Torstensson fosse per fare. Seco trovavasi allora quel conte Andrea Montecuccoli che dicemmo venuto in Germania col principe Borso; ed era addetto alle truppe del Piccolomini. E una lettera del 20 luglio scritta dal conte Girolamo accenna ai “progressi di Raimondo nell’armata, e che abbia avuto fortuna a dimostrare il suo valore e diligenza”. Seguitava poi dicendo di convenire nell’opinione del Bolognesi che mal volentieri l’avrebbe l’imperatore lasciato partire “per il buon concetto che ne ha, e il bisogno che tiene principalmente adesso di persone fedeli e valorose”. Da altre lettere, infine, di Girolamo sembra anche potersi argomentare che a Raimondo medesimo stesse a cuore di non lasciare così tosto l’esercito, per non perdere il frutto delle sue fatiche.

Erasi Torstensson, dopo che si fu impodestato di Olmütz, rivolto verso la Slesia; e lo Slang entrato con duemila cavalli in Boemia designava sorprendervi gl’imperiali comandati dal generale Buchaim: ma il Montecuccoli giunto da poco nel campo di lui, venne per mezzo di esploratori in cognizione delle mosse del nemico, e ne rese avvertito il Buchaim che si ritrasse a Königsgratz. Posto quindi Raimondo a capo della vanguardia dell’arciduca Leopoldo e del Piccolomini, composta di duemila cavalli e di cinquecento dragoni, ebbe l’incarico da prima di esplorare lo stato delle cose intorno a Brieg assediata dagli svedesi, [p. 136 modifica]secondo narra il gesuita Avancini, nella sua opera latina sulle virtù dell’arciduca Leopoldo edita in Anversa nel 1668. Tentò egli poscia di far prigioniero in Troppau lo Slang, il quale ritraendosi di là fu da Raimondo assalito, e dovette colle scompigliate sue truppe cercar scampo nella fuga, ond’è che il Torstensson fu costretto a levarsi dall’assedio di Brieg. Delle quali cose fece ricordo lo stesso Montecuccoli nel suo Memoriale all’imperatore con queste parole: “Ultimamente ebbi la fortuna di battere in campagna lo Slang, e disfargli tutta la gente”. Fece egli in tal circostanza duecento prigionieri, e liberò i cittadini presi dallo Slang come ostaggi per assicurarsi il pagamento delle contribuzioni. Fu poi quel generale, che già dicemmo uscito di prigionia quando fu liberato Raimondo, ucciso nella battaglia di Lipsia, allora che di nuovo furono colà gl’imperiali battuti dagli svedesi, il 23 ottobre, secondo il Gejier, o secondo Mailàth, il 2 novembre, trovandosi allora, come ci verrà detto, Raimondo in Italia. Ma di questa battaglia non essendo qui luogo di parlare, basterà accennare che più funesto di quello che riescì sarebbe stato per gl’imperiali l’esito della medesima, se poco di poi non avesse dovuto Torstensson partire dalla Germania per andare contro la Danimarca. L’arciduca Leopoldo Guglielmo abbandonò allora il comando dell’esercito, e tornò Piccolomini in Fiandra, ond’è che venisse di nuovo posto a capo degli imperiali Galasso. E qui il Menzel ha buon giuoco, potendo citare il Puffendorf, il quale nella sua storia di Svezia lasciò scritto non essere quel mutamento spiaciuto agli svedesi che speravano di vincerlo agevolmente in battaglia. Ma non tien conto il Menzel che appunto allora una terribile sconfitta era toccata ad un arciduca, quantunque avesse avuto al fianco nel Piccolomini uno de’ migliori generali del tempo suo, e che senza numero erano state insino allora le vittorie degli svedesi: ond’è che non fosse da fare le meraviglie se anche al Galasso incontrar potesse la sorte nella quale altri generali erano incorsi. Esponeva del rimanente il Puffendorf l’opinion sua a guerra finita, da ciò che accadde argomentando ciò che avesser potuto pensare gli svedesi. Vero [p. 137 modifica]è del rimanente che in questo scorcio della sua carriera militare trovatosi a fronte di un generale che non sapeva perder battaglie, non poté Galasso, o non seppe far prova di quella avvedutezza e di quell’ardimento che più volte (a Nordlingen singolarmente) forzato avevano la vittoria a non disertare le bandiere degli imperiali. E neppure va taciuto che il crescergli degli anni e delle infermità gli avevano a quel tempo stremate le forze, e che vittima era egli pur sempre dell’incuria dei ministri imperiali, e degli odii nazionali di alcuni tra i suoi dipendenti.

Ma rifacendoci più addietro, ripiglieremo il discorso delle pratiche che ebbero luogo per il ritorno di Raimondo a Modena. In una lunga lettera che a lui scriveva il Bolognesi, nella quale davagli conto della condizione delle cose in Italia, leggiamo che “le istanze del duca non possono essere maggiori, perché antivede che contro di Lei sono per isgorgar macchine, come quella che è vivamente portata nel servizio austriaco”. E diceva perduta dal duca la speranza di ottener soccorsi dagli spagnuoli, ond’è che confidasse in una buona leva di truppe che Raimondo stesso giungesse a fare in Germania . L’imperatore per altro, accordando il suo consenso alla partenza di lui, aveva posto a condizione che non potesse aver luogo se non dopo tre mesi; e non si trovavano neppure i soldati che l’imperatore stesso conceduto aveva che passassero al servigio del duca. Si proposero da prima i reggimenti Gild e Hass; poi gente che era in Boemia: ma nulla si concluse, né la dimanda fu accolta che seguir si facesse Raimondo in Italia dal proprio reggimento. Così passando il tempo, né potendo più cotali soccorsi arrivare a stagione opportuna, si contentò il duca di qualche migliaio d’uomini arrolati qua e colà, e che effettivamente furono o condotti, o fatti venire in Italia, dal Montecuccoli, posciaché ebbe egli per allora coronate le sue imprese germaniche colla presa di Troppa (Troppau) colla gente comandata, com’è detto nel suo Memoriale. La perdita [p. 138 modifica]della qual città indusse poi gli svedesi ad abbandonare le altre che nella Slesia occupavano.

Appena fu a Modena notificato il prossimo dipartirsi di Raimondo dalla Germania, scriveva il marchese Francesco al Bolognesi: “Il conte Raimondo si sta attendendo con ansietà da tutti, massime da me e dirò anche da S. A.” (lettera del 19 settembre 1642). Cinquecento talleri furono dal Bolognesi sborsati a Raimondo forse per le spese di viaggio e per gli arrolamenti fatti. Avvertiva poi il Bolognesi che non potrebbe Raimondo venir trattenuto in Italia oltre il bisogno che se ne avesse. Con grado di sergente generale di battaglia partì egli infatti , dopo aver preso parte ad un pranzo coi consiglieri e i ministri imperiali; nel quale, dice il Bolognesi, che era tra i commensali, “si bebbe in onore delle opere del duca, e in derisione di chi vi ha dato causa”. E a lui in risposta annunziava, il 3 ottobre, il marchese Francesco “arrivato il conte Raimondo con molto gusto di S. A. e mio infinito, e attendo a servirlo e goderlo”. E poco dopo mandavagli dodicimila talleri per le spese di 1100 prigionieri svedesi, che, secondo gli strani principii di diritto pubblico allora in uso, erano stati dall’imperatore concessi al duca acciò se ne valesse in guerra. Di questo passaggio forzato di soldati dall’uno esercito all’altro non scarsi esempi si ebbero nella guerra de’ trent’anni, ed intervennero talvolta parziali accordi per questo tra i belligeranti. Nella resa di Egra, per esempio, avvenuta nel 1647, fu inserito un capitolo pel quale diciotto compagnie di fanti e di cavalli austriaci dovevano, salvo gli ufficiali, essere incorporati nell’esercito svedese, il quale del rimanente da molti sudditi imperiali venne spesso afforzato, profughi per lo più perché seguitatori della religione protestante. Que’ soldati però che a forza erano tratti a guerreggiare contro i compatrioti loro, a questi appena che il potessero si riunivano, abbandonando i posti loro affidati e [p. 139 modifica]mettendo lo scompiglio tra i combattenti. Per gli svedesi destinati al duca instava il marchese Francesco, acciò fossero “subitissimamente messi al sicuro ed avviati quanto prima a questa volta”. Ma la cosa non poté poi aver luogo. Alcuni soldati imperiali si poterono soltanto arrolare, come dicevamo, non senza molte difficoltà, essendoché, secondo avvisò il Bolognesi, non volessero l’imperatore e i ministri disgustare il papa, per timore che, poco amico essendo alla casa d’Austria, vie più si unisse ai francesi, o all’elettor di Baviera, se mai rinnovasse le pretensioni sue alla corona imperiale. Per egual motivo fu dall’imperatore rifiutata l’elezione del cardinal d’Este a protettore dell’impero in Roma, carica alla quale aspirava. E forse non fu dalla corte di Modena posto allora in opera l’estremo rimedio che a conseguire quell’intento rimaneva; quello cioè indicato da Bolognesi: di ottenere con regali il favore di uomini potenti alla corte e ne’ ministeri. Ad uno di costoro, nomato Valderode, ch’ei diceva “il peggiore istromento che fosse in corte, e così avido che non la perdonerebbe a san Pietro”, non potevano darsi meno di duecento talleri: ad un Kuruz basterebbe tanto velluto di Reggio da ornarne due stanze: si dovrebbero dare beveraggi, per usare le parole di lui, alla cancelleria all’uso del paese; e finiva con queste parole: “Dio liberi ogni fedel cristiano dal trattare ora qui rispetto ai subordinati”. Ebbe poi a notare il diplomatico medesimo che la partenza di Raimondo, e una ferita toccata dal Piccolomini, scompaginarono del tutto l’esercito imperiale: sì che tornarono gli svedesi a dominare la Slesia, dopo vinta, come dicevamo, la battaglia di Lipsia, che a repentaglio poneva le sorti dell’impero. Intorno alla qual battaglia ci rimane a soggiungere, che della perdita della medesima vollero i tedeschi incolpare il marchese Pallavicini: il quale essendovi rimasto ucciso, non avea il modo di ribattere quelle accuse, mosse verosimilmente da que’ sentimenti di nazionale avversione, dei quali più volte ci accadde tener parola.

  1. Nelle fazioni intorno a Ratisbona perdè un occhio quel marchese Mattei, colonnello allora sotto il Fernemond, che vedremo più tardi a fronte di Raimondo in Italia. Ivi ancora morì di peste il principe Francesco de' Medici.
  2. Il Mailàth dice morti otto mila svedesi e 1220 imperiali.