Il secolo che muore/Capitolo XXII
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Capitolo XXII.
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Dei gusti non si disputa; gli è questo un proverbio scritto fino su i boccali di Montelupo; onde io, valendomi di siffatta indulgenza secolare, dichiaro detestare del pari virtù codarde e delitti burbanzosi; e tuttavia, stretto pel collo a scegliere, per me sento che mi mostrerei più parziale ai secondi, che alle prime, e ciò perchè co’ secondi potrai, se vuoi, fabbricare qualche cosa, con le prime no. Romolo e Roma e i primi Quiriti informino; dei quali una metà, per dir poco, sarebbe stata meritamente raccomandata al Piantoni, il quale incominciò la sua magistratura di boia nel 1831 per conto di Francesco IV duca di Modena, buon’anima, e continua ad esercitarla per conto di Vittorio Emanuele II, gloriosamente regnante.
I delitti animosi vogiionsi considerare come altrettante grappe di bronzo, le quali penetrano nel cuore e nelle carni dei popoli come nei massi di granito e li tengono con inestimabile stabilità legati insieme, mentre le virtù codarde appiccicano, non attaccano; il visco agguanta i pettirossi; le aquile portano via visco, vergone e tutto.
Adesso dovendo scrivere di Filippo, padre di Eufrosina, le virtù pusillanimi non ci hanno che fare, e nemmeno i delitti rubesti, bensì ci capita con grandissima compiacenza dell’animo nostro di favellare di un cuore temperato ottimamente, il quale, in qualsivoglia punto della terra lo avesse balestrato la fortuna, sariasi creduto sempre nel suo centro, e da qualunque plaga di cielo avesse rivolto gli occhi in alto, gli sarebbe parso di vedere Dio per trovarsi faccia a faccia e favellare con lui. La vita pigliava qual’era, senza querimonia come senza tripudio. Dalla buona del pari che dalla ria ventura attendeva a cavare qualche cosa che giovasse alla umanità: e forti dulcedo, nel modo che adombrava l’enimma proposto da Sansone ai filistei; se il destino gli poneva nelle mani rose, ei ne tesseva ghirlande pei felici; se catene, ei ne foggiava spade per gl’impazienti di servitù. E poichè egli aveva fede che le dieci trasformazioni di Visnù, dirimpetto alle infinite a cui la materia del suo corpo, prima che la natura gllel’avesse data a nolo, e dopo che se la sarebbe ripresa, erano una bagattella, egli ratificava tutte le passate e consentiva le avvenire, persuaso che le avrebbe adoperate sempre pel bene dei suoi simili. Se mi troverò convertito in ostrica, finche mi manterrò sana offrirò delicatissimo cibo alle mense degli uomini, e se inferma, con la mia malattia comporrò perle, ornamento di donne oneste e belle,1 e se diventerò pizzuga2 attenderò a comporre un coccio degno di essere ridotto in iscatola da tabacco degna di papi: insomma, onore del naso di Pio IX, ovvero del collo di Cleopatra; nobili destini non mi potranno mai mancare.
Ed ora la sorte lo aveva arrandellato carceriere nel Castello di Milano. Tristo mestiere in verità, e pure egli sapeva valersene per consolare, ed in quanto gli era concesso sovvenire i meschini che gli capitavano sotto. Gli spruzzi di acqua benedetta, di cui sono larghi i sacerdoti ai morti, giovano per lo appunto quanto l’acqua benedetta a morti, ma lo spruzzo della speranza ai vivi dolorosi è rugiada di cielo; e quindi di parole e di buoni uffici non faceva a spilluzzico l’uomo dabbene, trasmetteva e riportava consigli, saluti e messaggi di genitori, di amici ed anche di amanti, purchè, bene inteso, si trattasse di legittimi amori: confermava i risoluti, ingagliardiva i dubbiosi, raumiliava gli acerbi e diceva loro: — O perchè bestemmi? Tu mi pai matto, e sei. Delle due l’una, o in Dio ci credi, o non ci credi; se non ci credi, egli è lo stesso che tu ti arrapini con questa brocca di terra cotta, e se ci credi, e per giunta lo reputi capace a farti bene o male, e allora, grullo! ingegnati a tenertelo bene edificato. — E se lo interrogavano s’egli ci credesse, rispondeva: io ci credo a modo mio e non penso dalle mille miglia ch’egli si faccia tutore e conduttore delle singole creature, che nella natura stanno, o vivono, o si agitino; per me, ruminandoci sopra, ho trovato che Dio dev’essere una forza nella materia, una scienza nell’intelletto, una regola nella morale; ed ora che ti ho detto così, tu ne sai forse meno di prima; ed io che ti ho detto così, non mi sono avvantaggiato neppure di un dito; sicchè tara bara, il meglio che tu possa fare è bere questo mezzo litro di vino e buttarti giù a dormire. Fortuna e dormi: caso mai tu provassi lo strapunto poco morbido, pensa che potrebbe essere più duro, e consolati. Certo, Filippo, come quegli che aveva molto vissuto fra gli uomini, non si sgomentava più per cosa che vedesse, o bigia, o nera, e le parole di lui sonavano acri, ma una stella, che non conosceva tramonto, lo illuminava con bella luce di amore, ed egli ne rifletteva i raggi sopra le creature circostanti. Cotesta sua benignità mescolata di amarezza rassomigliava ai dì di primavera, quando la pioggia bagna le piante ed il sole le asciuga, onde esse si drizzano rigogliosamente liete, quasi per ringraziarlo di coteste sue virtù per le quali godono la vita.
E luce dell’anima sua era Eufrosina, la celeste fanciulla, la quale riposa serena sopra i dolori della vita, simile al bambino Gesù dipinto dormente dal soavissimo pennello dello Albano, intanto che mormora fra il sonno: ego dormio, sed cor meum vigilat.
Filippo, se non con amore, con diligenza pari ha compito le tre operazioni nelle quali si versa la presente sua vita: tastò le porte e le inferriate delle carceri, consolò i carcerati, adorò la figliuola Eufrosina, la quale quando egli vide addormentata contemplò sorridendo, la baciò, e contento come una pasqua andò quindi a coricarsi.
Non bene passata un’ora, venne desto a forza da un rumore confuso di schioppi lasciati andare giù di schianto sul selciato, d’imprecazioni e di catene. Si sollecita a vestirsi alla meglio e schizza giù in piazzetta; faceva buio fitto, e comecchè portasse la lanterna, egli appena distinse gli oggetti circostanti; pure vide al barlume parecchi soldati, che sotto la scorta di un ufficiale conducevano prigionieri in Castello; subito ebbe sospetto che si trattasse di pezzi grossi.
Il capitano del drappello, piemontese puro sangue, dopo il sacramentale countacc! prese a dire una carta d’ingiurie al povero Filippo, perchè lo avesse fatto aspettare tanto, e poi perchè ardisse presentarglisi innanzi così sciatto di vesti.
Filippo aveva riposato mezz’ora, o poco più, delle fatiche della giornata, e se avesse fatto presto come lo zotico capitano pretendeva, non si sa come il tempo gli sarebbe bastato a mettersi solo la camicia; tuttavia tacque, avendo sentito dire, ed essendogli stato dalla esperienza confermato a sue spese, che il soldato non ha mai tanto torto, come quando ha ragione.
Ecco qua, sebbene mi sia messo in regola, a tenore del regolamento, col signor cavaliere comandante del Castello, favellò il capitano, tuttavia ho voluto consegnarvi da me stesso il prigioniero. Avvertite qua, sergente; egli è condannato a morte; comecchè egli abbia interposto appello davanti al supremo Consiglio di guerra, non gli darei una palanca della sua vita. Si sa, i disperati si attaccano alle funi del cielo; dunque, sergente, occhio alla penna: voi sapete quello che ve ne va se vi scappa. Ecco qua, andiamo un po’ a vedere come me lo arrandellerete.
A Filippo si strinse il cuore, e suo malgrado si senti spinto a sollevare la lanterna per mirare in faccia il malcapitato... ecco: egli prorompe in uno strido e lascia andare la lanterna in terra, la quale mandando un getto di luce si spenge, colpa dell’olio, che rifluito a cagione del colpo verso il lucignolo lo soffocò: nel punto stesso un urlo più straziante del primo percosse gli astanti, che sebbene non assueti a spaurirsi, ne sentirono raccapriccio e terrore; sicchè il capitano, secondo la rubrica, esclama:
— Countacc! Che storia è questa?
Curio, con l’occhio avvezzo al buio, aveva di già riconosciuto Filippo, e il suo cuore si era sollevato: adesso poi per questi urli infelici senti come conficcarsi sul capo il coperchio della cassa da morto, imperciocchè, sebbene la sua ragione avesse licenziato la speranza, pure questa ostinata continuava a farsi vedere e non vedere, come le stelle fra i nugoli nelle notti di tempesta.
Filippo si chinò e si raddrizzò; quello che pensasse nel brevissimo tempo in mezzo a questi due atti non si potrebbe significare con un volume; mostrò essere della razza di Anteo, il figlio della terra, che quante volte cascava sopra sua madre, tante si rialzava più forte di prima; in fatti, di voce fermissimo e di sembiante, riaccese la lanterna e disse:
— Scusi sa, signor capitano, questa maladetta palla tedesca che ha preso a pigione la mia coscia sinistra di tanto in tanto mi dà dolori da cani; caso mai metto il piede in fallo, anche di mezzogiorno io vedo le stelle.
— Ma, ecco qua, l’altro grido donde è venuto?
— Ah! l’altro grido... non le faccia specie, signor capitano, nella piazza ci è l’eco, taluni dicono che ci si risente; grullerie? Come ho avuto l’onore di informarla, è l’eco. Mi rincresce proprio che avrà svegliata la signora del signor comandante, la quale, come saprà, dopo un travagliosissimo parto è entrata appena in convalescenza; — quanto a prigioni, di quelle a tutta prova ne possediamo poche; per fortuna, la meglio, secondo la mia povera opinione, in questo momento è vuota: — favorisca, signor capitano, di visitarla e dirmene il suo parere.
— Stupenda!
— Veda la porta com’è bassa; per entrarci bisogna andare carponi.
— Vedo; ed ecco qua, munita di doppie porte: — le serrature è a due mandate — i chiavistelli robusti, muniti con bravi lucchetti... chi la fece non mancava di giudizio.
— Consideri! Lo chiamavano Sette cervelli; lunga è poco più di quattro passi, a cinque non ci arriva; a livello del pavimento si apre la finestra munita di due grosse inferriate...
— Oh! qui mi cascò l’assino; meglio... meglio in alto vicino al palco, le finestre basse, ecco qua, sono troppo alla mano per essere segate. — Direbbe bene, il signor capitano, se la finestra non desse sopra un corridore che prende aria da finestrini muniti di ferro in croce; e tagliati anche questi, che avrebbe fatto il prigioniere? Nulla, perchè si troverebbe in una chiostra, chiusa da tutte le parti e per giunta vigilata dalla sentinella.
— Com^ è così muta specie: anche a me parrebbe che avesse a bastare.
— Aggiunga poi, illustrissimo, che il prigioniere non ci ha a stare mica libero, bensì incatenato al pancaccio.
— Giusto! E quello che pensava ancora io. Intanto Curio, sentendosi rifinito, si lasciò andare sul pancaccio, dicendo con fievole voce: ho sete.
E Filippo al capitano:
— O che un bicchiere di acqua io gliel’ho a dare?
— Gua’! fate voi; per me, pensandoci su, mi sembra che gli si potrebbe dare.
Allora Filippo entrò in prigione, ed accostatosi a Curio a voce alta gli dice:
— Un po’ di pazienza e avrete l’acqua: — e a voce sommessa aggiunse: Curio, coraggio!
Conosco gente che va matta a vedere la pioggia delle stelle cadenti; per me, da una volta in su, e fu la notte della vigilia di San Lorenzo, non la volli più vedere, imperciocchè allora mi venisse fatto rassomigliarla alle parole regie, che partono dal cielo in sembianza di stelle, promettono luce e calore, e poi si spengono a un tratto lasciandoci al freddo ed al buio peggio di prima; ma la parola dello amico scende refrigerio alle anime desolate, da non potersi significare con accenti umani, e lo inferno converte in paradiso, perchè quivi si ferma a scintillare come nel suo proprio firmamento.
Il capitano partì co’ suoi soldati, e Filippo tornò a dare animo a Curio e a provvederlo delle cose necessarie al vivere, e:
— Quanto a vitto lascia fare a me, che ti porterò del meglio, perchè bisogna tu ti rimetta in gambe e presto: circa al restante adattati, che se ai superiori saltasse il ticchio di venirti a visitare, vedendoti provvisto meglio degli altri piglierebboro ombra ed allora...
— E allora?
— To’! O a che pensi? Dubiti forse che alle mie mani tu abbi a morire! Bada qua, questa è una lima e quest’altra è cera scura: attèndi senza requie la notte a segare le catene, più presto che farai meglio sarà; conto che tu deva essere lesto in tutta la nottata di domani; adesso riposati e stai di buon animo: segate le catene fa’ di riappiccicarle con la cera, mettiti a letto e fingi dormire, che domani verrò accompagnato, e forse potrebbe venirci il mio aiuto solo.
— E della Eufrosina non mi dici...?
— Silenzio; qui non ci ha luogo Eufrosina; zitto e dormi.
Chiusa appena la prigione, Filippo, salendo le scale a quattro a quattro, entra in casa; corre nella stanza della Eufrosina col cuore che gli picchiava il petto più forte di un ariete romano. La stanza era vuota.
— Frosina! Frosina! Dove ti sei cacciata?
Veruna risposta; passa in camera sua; colà pure chiama, osserva... niente. Salta in cucina, di cui la finestra dava su la piazzetta del castello dove facevano capo le prigioni, e quivi la mira caduta supina in terra priva di sentimento. S’immaginò subito il successo e prese a dire:
— Ci mancava anche questa! Ora su, Nina mia; non ti abbandonare; il diavolo, sai, non è brutto come si dipinge; da brava, via, rimettiti in piedi.
E siccome l’altra non dava retta, la levò di peso portandola sul letto e con acqua diaccia, aceto ed altri argomenti s’ingegnava farla rinvenire, e rinvenne.
— Ahimè! Anima, che hai?
Ed Eufrosina, mentre si fregava gli occhi, rispondeva:
— Che brutto sogno, babbo mio, mi sono fatta... mi pareva...
— Senti, Eufrosina, quello che hai visto è vero. Curio è qui in prigione condannato a morte por avere rotto la faccia ad un ufficiale furfante e truffatore...
— Babbo... porgimi la mano... ah! muoio.
— Ferma... non morire... avrai sempre tempo a farlo: sta’ di buon animo: — noi salveremo Curio, lo salveremo quanto è vero Dio... ma tu hai da fingere di non sapere nè manco che esista nel mondo... non lasciarti sfuggire nè un gesto, nè un detto: sii prudente... sii discreta... raddoppia vigilanza... pensa che se adesso lo perdi, lo perdi per sempre...
— Basta, basta; e tu pensa, babbo, che mi preme più che a te... accostati ora, che ti vo’ dare un bacio, due baci, venti baci... ma perchè così al buio? Allegria che non si vede è meno che mezza. Accendi il lume.
— Come! Accendi il lume? non è acceso... anzi due?
— Ma io non ci vedo.
— Stropicciati da capo gli occhi.
— Io non vedo nulla.
— Com’è possibile mai?
E presi i candelieri accostava le due candele agli occhi di Eafrosina, e mentre specola mormora:
— Ecco qua, i soliti occhi... smaglianti... sinceri... veri testimoni del cuore... come dunque può essere che tu non ci veda?
— Non ci vedo, mamma mia! non ci vedo... Madonna santissima! sono diventata cieca... E gittate, smaniosa, le braccia al collo al padre, proruppe in pianto... Oh! io non li rivedrò più, continuava singhiozzando, nè Curio... nè babbo... oh!
— Sta’ quieta... non ti disperare, o mi fai dare nei lumi; non sarà nulla, sangue al capo... vado pel medico del Castello... ma, bada, bocca chiusa: per me sento che il colpo che hai ricevuto alla vista di Curio è stato cagione di tutto.
Il medico del Castello, desto sul più bello del sonno, andò bifonchiando: visitata Eufrosina tra uno sbadiglio e un altro, conchiuse che Eufrosina aveva perduto la vista; ì su due piedi non poteva dire di più; continuassero le pezzette dell’acqua diaccia per iscoprir marina, la rivedrebbe domani; — su di che buona notte.
Filippo sbattuto, ma rigido più che mai, la mattina per tempo fu a visitare il comandante del Castello col quale rinvenne per ventura il medico: chiesta ed ottenuta facoltà di parlare, espose il caso della figliuola, aggiungendo che lì in Castello non la poteva guardare, chiedergli pertanto il permesso di menarla presso certa parente della defunta sua moglie in Milano: se questo partito gli rincrescesse, Dio lo sa, persuaso com’era che per la molta capacità del signor chirurgo maggiore in breve la sua figliuola sarebbe andata guarita.
Il comandante anch’egli era della progenie dei cani, ma non mastini, quindi qualche devozione egli aveva, e poi a farlo meno acerbo contribuiva la nascita di una figlia, a lui vecchio e malconcio dalla gotta, partorita pochi giorni innanzi dalla moglie trentenne; il dabbene uomo la chiamava la figlia del miracolo, ma chi l’udiva pensava come di cotesta maniera miracoli assai di frequente accadevano nei castelli, dove stanzia continuo un presidio di soldati, quantunque di tratto in tratto si muti. Il chirurgo maggiore, per la fumata d’incenso che gli aveva sbraciato Filippo, venuto propizio alla istanza di lui, ed anche per levarsi dintorno la seccatura di dover visitare la inferma, l’approvò con molte ragioni, una più bella dell’altra; onde Filippo ottenne la facoltà di starsi per qualche ora assente dal Castello, a patto che il servizio non ne soffrisse.
Filippo, salutato il comandante, partiva, senonchè mutati alquanti passi tornava indietro, e levata la mano al berretto aggiungeva:
— Signor comandante, vorrei sottoporre alla sua saviezza di mandare un uomo di rinforzo al sottocarceriere durante il tempo che io starò lontano: ella sa che stummie di gente ci tocca custodire, ed è meglio aver paura che toccarne.
— Giusto! Era quello che pensava anch’io; andate franco, sergente, che terrò l’occhio alla penna.
Filippo con celeri passi s’incammina alla prigione di Curio in compagnia dell’aiuto servente: entra senza salutare il carcerato, e molto sollecita il servo ci sgombrare la prigione di ciò che vuoisi quotidianameute pulire e che non importa inventariare: rimasti soli Curio e Filippo, questi subito gli domanda:
— A che punto siamo della segatura?
— Tra un paio di ore gli è affare fornito.
— Bene: però ti avverto che la Eufrosina con noi non possiamo... non dobbiamo condurre.
— Come!
— Anzi, tu non la potrai ne manco vedere...
— Ma io...
— Ma tu, interruppe Filippo con atto che parve più di rabbia che d’impazienza, devi lasciarla in custodia di tua madre finchè non sia passato il pericolo: piglia qua lapis e carta; scrivi a tua madre raccomandandoti che presso di se accolga la mia... la nostra Eufrosina, come figliuola la custodisca... l’ami. Ma di’ un po’ su, confidati a me, che non lo saprà neanche l’aria, la è veramente buona, come tante volte mi hai assicurato, tua madre? — Non potrebbe mica il troppo affetto filiale averti fatto velo alla mente? Perchè... vorrei tu mi capissi... Eufrosina... l’anima dell’anima mia...
Adesso fu la volta per Curio di mostrare impazienza; levate le spalle, tolse di mano a Filippo la carta e il lapis, ponendosi a scrivere senza dargli risposta.
Filippo, che comprese l’intimo pensiero di Curio, ne rimase mortificato, e susurrando a fior di labbro: Scusa, andò a piantarsi di sentinella alla porta per parare ogni accidente: di vero ben gli valse il consiglio, imperciocchè il servente, pigliando per contanti la raccomandazione di Filippo, si fosse sbrigato più presto del consueto, ed ora tornasse con la lingua fuori nella speranza di sentirsi dire: Bravo. Filippo, appena lo vide, borbottò sommesso: — Avessi potuto romperti il collo! — e ad alta voce soggiunse: — Metti giù la bigoncia, che al posto ce la porterò io.
— Ma le pare, sor sergente: questo tocca a me.
— Silenzio! Obbedite; andate a empire la mezzina e fate sia fresca e pulita... andate ad attingerla al pozzo... via, presto, che mi occorre prima di mezzogiorno andare per commissione del comandante fuori di Castello.
Quando lo vide per sufficiente spazio allontanato, mise il capo dentro la prigione e interrogò a voce bassa: Sei lesto?
— Mi manca appena un rigo.
— Tira via.
Quando il servo tornò coll’acqua era finita ogni cosa, e Cario aveva potuto raccontare così a bastoni rotti tutto lo accaduto fra lui e il Fadibonni. Filippo aveva preso la breve scrittura, ed involtatala dentro sottilissima foglia di piombo, se l’era nascosta in bocca tra la pelle delle guancie e le gengive, avendo notato più volte come i questurini, visitando le persone, non avessero risparmiato le ascelle, i capelli e ogni altra più segreta parte del corpo (delle vesti, delle scarpe e del cappello non se ne parla nemmeno), ma quanto alla bocca si erano rimasta di sbirciarla aperta, senza insisterci troppo.
Filippo aveva avuto la fiera costanza di essersi rimasto fin lì da visitare Eufrosina; e con deliberato consiglio, timoroso di darsi alla disperazione, caso mai avesse trovato che le durava la crudele infermità, e la disperazione come il coraggio gli portasse via la prestanza; e per disgrazia troppo bene si appose, dacchè le tenebre abbuiassero sempre gli occhi della bella desolata. Filippo, nel mirare la sua creatura immobile e in volto trasfigurata, compresse i gemiti che lo spasimo gli spingeva alla gola, ma non si potè tenere da baciarla con veementissimo ardore: riconfortatosi alquanto, la mise a parte del proposito di condurla presso la madre di Curio, che in cotesto stato, ella, lo doveva capire, sarebbe stata di pericolo mortale alla fuga, ed ella lo voleva salvo il suo Curio, non è vero?
— E, babbo, dimmi, quando è che tu lo salverai?
— Zitto! Questo non importa che tu sappi.
— Non importa? Ah! tu non pensi quanto mi lasci infelice.
— Hai ragione, anima, — ed accostati i labbri all’orecchio di lei, ci bisbigliò con un filo di voce: — Stanotte.
Eufrosina gli prese il capo con ambedue le mani, glielo strinse forte, lo baciò su gli occhi, su le labbra, su tutta la faccia, e parlò:
— La mamma mia, la moglie tua, che ti fu si cara, dal cielo ti ascolta, ti benedice e ti aiuterà, ne sono sicura; e, dimmi, Curio lo sa?
— Lo sa.
— Ha mostrato voglia di vedermi?
— Si domanda? L’avresti anche tu?
— Ah! per ora come farei a vederlo? E tu, babbo? bada bene, non dirgli la disgrazia che mi è successa, perchè quel caro angiolo mio se ne accorerebbe, e nel maggior bisogno gli cascherebbe il cuore... però una voce mi dice che lo rivedrò... lo voglio rivedere di certo... ma adesso non è tempo; capisco che ci vuole risoluzione... va’ dunque, babbo, pei fatti tuoi.
— Vado, Frosina, vado; guarda qui, ci è da mangiare, e qui metto la boccia per bere... per trovare ogni cosa tu non hai a fare altro che stendere le mani...
— Ho inteso... ho inteso... va’ pure senza sospetto.
— Ma se credi che ti abbia a mandare qualcuno...
— Va’... va’... ah! non senti, che finchè non vi sappia in salvo mi parrà di arrostire a fuoco lento?
Ora è da sapersi come Filippo avesse in Milano un amico, ma un amico come usavano nel 1848; lo chiamava compare, non già perchè gli avesse tenuto al fonte verun figliuolo, ma perchè l’uno accanto all’altro avevano ricevuto il battesimo di fuoco nelle cinque giornate; — di cui adesso taluni milanesi fìngono ricordarsi, per far dimenticare la memoria di Napoleone tanto iniquamente ravvivata da loro. — Pari nei due amici il cuore, disforme la vita: randagio sempre Filippo e propenso a imprese guerresche, l’altro casalingo e pacifico: tuttavia, quando si trattò menare le mani, non si distinse il borghese dal soldato, ed è ragione, perchè la tirannide schietta nudrisce gli oppressi di latte acerbo, ma forte, latte di lupa, mentre la tirannide impiastrata di libertà è ai popoli come una balia sifilitica; la vita degli alunni delle monarchie costituzionali è rósa dalle scrofole interne ed esteme... in verun tempo mai, ne chiamo in testimonio la terapeutica moderna, fu fatto tanto uso dei bagni di mare e di ferro, bene inteso ridotto in limatura o in chiavi false.
Il compare si chiamava Foldo e di suo mestiere era fornaio. — Fornaio? — Fornaio. Lo so, lo so, che messere Zanobi Bartolini, reggendo come commissario della repubblica di Firenze il comune di Pistoia, quando gli mancava gente da impiccare andava in compagnia del bargello per la terra a diporto, ed imbattendosi in qualche fornaio, lo acciuffava e impiccava, affermando: che ad impiccare a quel modo i fornai si poteva andar franchi, che tanto la coscienza non se ne risentiva. Qaesta opinione veramente a me parve sempre un zinzino abbrivata, imperciocchè succeda dei fornai appunto come dei lucchesi, i quali godendo fino dai tempi passati il privilegio di fornire il mercato di carnefici, interrogati di che patria sieno, rispondono: «io sono di Lucca per servirla; — ce ne sono dei buoni e dei cattivi...»
Foldo dunque faceva il fornaio — fornaio di cuore; un di quei cuori che la Natura serba sotto il banco e tira fuori di tanto in tanto, per far prova che anche lei, se ci si mette, una creatura di garbo la sa imbastire; Filippo, entrato nella bottega di Foldo, gli domandò:
— Come sta la comare?
— Prima Dio, bene.
Allora Filippo, senza aspettare la risposta, infila su per la scala (Foldo per mezzo di scala interna dalla bottega saliva in casa) e va dalla comare; della quale nuova improntitudine di Filippo impermalito Foldo, che lo aveva provato fin li tanto riguardoso, gli corre dietro e lo trova piantato a mezze scale;
— Che fai tu qui?
— Zitto! Io ti aspettava, ho bisogno di parlarti.
— O chi ti teneva da farlo in bottega?
-— Parla piano. In bottega ci era gente, e non ti ho voluto neppur chiamare per paura di destare sospetti; era sicuro che tu mi avresti seguitato.
— Dunque andiamo in casa, ci chiuderemo in camera e parleremo.
Filippo gli disse: — Ecco, per ora ti confido che mi bisogna trovarmi travestito a certa posta di qui a mezza ora: però prestami i tuoi vestiti da giorno di lavoro; quando tornerò a ripigliarmi i miei panni da soldato, allora ti racconterò ogni cosa per filo e per segno. — Comare, vi prego, acqua in bocca; gioco sopra una carta la vita di quattro persone.
E Foldo: — Vivi tranquillo, abbiamo mangiato la foglia.
Senz’altre parole, aiutato dalla moglie, Foldo trasformò il compare per modo, che guardatosi allo specchio non si riconobbe neppur’egli; dopo ciò Foldo per maggiore cautela fece uscire Filippo dalla scala maestra, che riusciva in via Ciovasso, dietro a quella dell’Orso, dov’era aperto il suo forno.
Filippo, travestito, se ne andò lemme lemme, che non pareva fatto suo, rasente le case, sbirciando con l’occhio destro i numeri delle porte; voltò al Carmine, prese di via Brera, venne giù per San Giuseppe, Appiani, Bossi: per ultimo a San Tommaso; qui, notato il numero 31, guizza nella porta e si arrampica per le scale al quarto piano: picchia; gli è aperto.
— O Filippo, siete voi? Se non era la voce chi vi avrebbe riconosciuto! Come qui? Mirate casi! In questo momento io pensava a voi...
Così incominciò a parlare Isabella, e Filippo di rimando:
— Perchè a me...?
— Che so? A voi e a Curio, e non mi potendo capacitare come a lui e a voi potesse bastare l’animo di lasciarmi tanto tempo senza vostre nuove, fra me pensava, qualche altra disgrazia mi sarà cascata su le spalle.
— Giusto, veniva a darle nuova di Curio; e la signora Arria come sta?
Isabella non rispose altro che levando gli occhi al cielo e stringendo le mani come chi si raccomanda. Allora Filippo girò la ruota del timone e soggiunse.
— Io, signora mia, le vorrei parlare in luogo dove veruno ci sentisse.
La Isabella umile riprese:
— Andiamo in cucina, non ho altra stanza più adatta.
Andarono: non ci erano seggiole; Filippo si sentiva stanco; cominciò ad appoggiarsi al camino, poi vi mise su la coscia offesa, poi l’altra, finalmente ci si assettò a sedere.
— Ebbene? interroga Isabella, vedendo come Filippo gingillava a parlare.
— Ecco, signora, prima di tutto bisogna che si pesti bene nel cervello che stasera, o al più lungo domani notte, egli sarà salvo...
— Chi salvo? Curio! Dunque corre pericolo?
— No signora: egli non corre pericolo al mondo; solo è in prigione.
— Dio mio! Voi mi spaventate... in prigione! Quando? Dove? Perchè?
— Non corre pericolo, perchè l’ho in custodia io. Io sono il suo carceriere. Dunque non si rimescoli.
— Ma che colpa ha commesso? Di qual delitto è reo?
— Una bagattella... cose da nulla; ha spaccato la faccia al suo maggiore.
— Oh! grave errore è cotesto. Si è comportato indegnamente.
— Anzi ha fatto benissimo; e se non lo avesse fatto dovrebbe tornare a farlo; creda, signora, la faccia di cotesto maggiore era proj)rio degna di mandarci i cazzotti in guarnigione, come dice il poeta... un ladro... un furfante... e poi lascia morire di stento la sua povera mamma... via, ce n’è di meglio in galera.
— E chi ha conferito a Curio l’uffizio di vendicatore del genere umanp?
— Le basti, signora, che egli ha dovuto farlo, e se non lo avesse fatto lo stimerei meno di un prete; ma, le ripeto per la decima volta, a liberarlo ci penso io.
— Caro sergente, mi sembra avere udito che la legge militare procede severissima contro gl’infrattori del carcere; per l’amore di Dio pensiamo di non fare un peggio; se foste ripresi, che mai ne andrebbe a Curio e a voi?
— Certo, la legge militare non è fatta col miele.
— Dunque non sarebbe meglio lasciare che Curio scontasse la pena?
— Che diavolo dice? Ma che le pare?
— Perchè mai?
— Perchè... perchè la pena alla quale condannarono Curio non è di quelle che si sopportano due volte.
— Voi mi spaventate... ma si prega, si mettono persone di mezzo... e gli avvocati o che ci sono per nulla?
— Tempo perso... le ripeto che Curio fu condannato...
— Ma condannato a che?
— A morte... e subito, tese ambo le braccia per sostenere la Isabella che balenava per cascare, aggiungendo con parole infocate:
— Su, su, che adesso non è tempo di svenirsi, bensì di richiamare tutte le virtù intorno al cuore per la salvezza di Curio.
La madre si raddrizzò di forza, quasi il dolore le avesse infuso nuova lena nel sangue, e favellò:
— La sventura mi ha posto per bersaglio ai suoi strali; — a quest’ora dovrebbe trovarsi presso a finirli... coraggio!
— Sì, coraggio, riprese Filippo, e volendola confermare in cotesta risoluzione cavò di tasca una grossa chiave e mostrandogliela aggiunse: — Miri, questa è la chiave che tiene chiuso il nostro Curio (e cotesta fu pietosa menzogna). Ora a noi, signora Isabella: come sta a quattrini?
Isabella ghignò acerba e a denti stretti rispose:
— Di debiti un diluvio.
— E mezzi per farne?
— Veruno... e se potessi racimolare qualche soldo, o che la inferma figliuola ha da soffrire?
— Dio ne guardi, povera creatura!
— E il padre mio travolto nella miseria? A lui tanto più aspra quanto più insolita.
— Di certo; dunque la non si stia a confondere, penserò io a rimediare.
— Ma come potrò io uscire dall’agonia del pendere incerta per la vostra salvezza?
— Aspetti, egli era appunto quello che io stava per dirle. Da domani in su Foldo, il fornaio di via Ciovasso... lo conosce?
— No, bensì ho udito parlarne.
— Bene; quando non ci sarò io, ad ogni suo bisogno faccia ricapito a lui; — ma mi raccomando con circospezione, senza che veruno lo sappia. Dunque da domani in su Foldo le manderà a casa un filo di pane; lo guardi bene dentro, e quando ci troverà un franco, ciò vorrà dire che siamo fuori di prigione, e quando due che ci troviamo fuori di Stato: sul partire per l’Inghilterra le scriveremo addirittura per la posta.
— Ho capito...
— Il pane non istia a pagarlo, faremo i conti con Foldo quando sarò di ritorno... ora ecco qua un biglietto di Curio, lo legga, poi ragioneremo del resto.
Isabella prese il foglio, lo baciò, lo lesse in un bacchio baleno, e il sangue dal cuore le reflui sopra le guancie.
Amore e luce, allorchè prima nascono, ovvero quando tramontano, colorano sempre le sommità della persona o della terra; subito dopo con ineffabile affetto esclamò:
— Oh! venga, venga la desiderata... povera tosa! ma sarà nulla... più no, che non potrei, ma la custodirò... ne avrò cura come figliuola.
— Come figliuola sua ha detto? Tocchi qua...
— Ne dubitereste, Filippo?
— No... sì... scusi, sa, anch’ella è madre...
— Pover’uomo! Anche a voi tocca un’angoscia che non ha conforto... Ma come accadde il caso?
— Che vuol’ella che le dica? Frosina vide Curio dalla finestra, lo udì condannato e cadde riversa: la testa non le trovai rotta, nèe ammaccata, sicchè non sembra che se ne possa accagionare il colpo battuto sul pavimento; gli occhi le durano belli e smaglianti, ma, disgraziata! non ci vede più. Ne consultai il chirurgo maggiore del Castello, ma costui, che non essendo stato trovato buono per veterinario ce lo regalarono chirurgo al reggimento, non seppe dirmi altro: acqua fresca e seguitate. Stringiamo dunque, che il tempo incalza, e se la fortuna mi assiste, vorrei dar sesto a ogni cosa, perchè le sassate sono buone di colta... La ragazza io non so se gliel’abbia a raccomandare o non gliel’abbia a raccomandare. Se penso a lei, madre, penso che sarebbe insolenza; ma s’ella pensa a me, misero padre, mi perdonerà... Non è vero?
E sceso di sul camino, presa la mano alla Isabella, gliela baciava con religioso trasporto.
— Ottimamente! si udì in cotesto punto esclamare una voce, che mosse dal dottore Taberni, il quale aperto l’uscio di cucina c’intrometteva il capo. Egli, secondo il solito, era venuto a visitare la inferma, onde Isabella presolo risoluta per un braccio gli disse:
— Senta un po’, dottore, il caso accaduto a questo povero padre, e ci dica schiettamente la sua. Guardi per carità se ci fosse rimedio; — e qui con parole succinte gli esponeva (non senza prima far di occhio a Filippo, perchè reggesse il venti) per filo e per segno come il cielo avesse felicitato Filippo di una figlia di sorprendente bellezza, anima dell’anima sua e pegno dilettissimo di cara moglie defunta: ella essersi accesa di veemente amore per un giovane dabbene che di pari amore la ricambiava: annuente il padre essersi promessi sposi, anzi avere stabilito il di delle nozze. Ora trovandosi il giovane in compagnia di certo suo amico a passare sotto le case in demolizione su la piazza del Duomo, un ponte rovinando dall’alto era venuto a cascare sopra i due poveri giovani, di cui uno investito da un grosso trave sul capo rimase sul tiro; l’altro, il genero di Filippo, stramazzò svenuto e malconcio, non morto; però lì per lì giudicarono morti ambedue. Il capo maestro muratore, ch’era della contrada dove abitavano cotesti meschini, rimescolato corre a casa e racconta il fatto alla moglie, la quale si affaccia alla finestra e trasmette in meno che si dice un credo la notizia alle comari; una di queste, zotica, che troppo spiacerebbe imaginarla maligna, la spara a bruciapelo alla fidanzata, la quale, come percossa da folgore, casca priva di sentimento; dopo molta ora, e quando pareva ogni maniera soccorsi adoperata invano, ecco ella si trova ad avere ricuperato i sensi e perduto la vista.
— La vista! esclama il dottore; e non ci vede proprio più briciolo?
— Dite su, Filippo, ordina la Isabella al sergente, il quale non rispose la prima volta, distratto a pensare che se tanto allo improvviso la signora Isabella, donna senza dubbio da potersi bere in un bicchiere di acqua per la sua sincerità, aveva saputo trovare girandole per prevenire ogni sospetto nella mente del dottore, di che mai sarebbe stata capace altra donna simulatrice a caso pensato; — alla seconda interrogazione egli si fece vivo e disse:
— Punto, nè luce di giorno, nè lume di candela accostatole agli occhi.
— E gli occhi conserva lucidi?
— Lucidissimi secondo il consueto.
— Sangue dentro ce ne avete osservato?
— No.
— Il capo le duole?
— Sì, intorno alle ciglia e verso le tempia.
— Dite su, la tosa è atticciata? Patisce d’isterismo?
— Ecco, baliosa si mantenne un pezzo, ma da certo tempo in qua ora divampa in viso, ed ora si fa bianca come panno lavato; talora smania tutta notte, vegli o dorma, e sovente si lagna il cuore oppresso presagirle guai.
— Eh! eh! riprese il dottore battendo sopra la tavola le dita delle mani in cadenza, come chi suona un tamburo — caso raro... però possibile... e tanto possibile che eccolo accaduto, dunque è inutile perfidiarci sopra... il moto istantaneo e violento dell’animo deve avere alterato profondamente il nervo ottico... forse... anzi quasi di sicuro un moto del pari violento potrebbe in un attimo restituirle la visione... ma come procurarlo? Ed ancorchè tu lo potessi provvedere ti attenteresti, dottore Taberni, a metterlo in pratica? Puoi tu limitare la scossa al nervo ottico? E se le percuote con veemenza pari il cervello, chi ti assicura che non ti rimanga sul tiro?
Il dottore parlava a voce alta, e il povero Filippo, a seconda delle proposizioni che gli uscivano di bocca, dava i tratti o torceva la bocca; tu lo avresti preso per uno infermo del male di san Vito.
— Dunque, proseguiva il Taberni, bando ai rimedi superlativi... procederemo con giudizio e procureremo di guarirla... ma sì di certo che la guariremo... metto su pegno che la guariremo...
A questo punto si sente agguantare le gambe, ond’egli spaventato non sapendo che diavolo fosse, dando una solennissima spinta tenta svincolarsi da cui lo teneva avvinghiato; abbassa gli occhi e vede Filippo, che inginocchiatosi dinanzi a lui, s’ingegna baciargli i piedi; per la quale cosa il dottore, forte incollerito, si mise a gridare:
— E chi dà a lei, signor mio, il diritto di scambiare un uomo per un papa? Oh! che le pare abbia faccia di prete io? E come e quando ha potuto sospettare in me il matto orgoglio di vedermi con piacere avvilita davanti la creatura di Dio? E lei la pretende a uomo libero? — Oh! vada a imparare, mi faccia il piacere... vada.
— Ma senta...
— Non sento nulla, non voglio sapere nulla di un uomo che mi ha fatto la ingiuria di pigliarmi pel papa... ringrazi Dio che qui, in casa di questa signora, non voglio fare scandali... però non mi posso astenere di maravigliarmi con lei, signora Isabella, che essendo donna tanto di garbo, consenta bazzicare gente che scambia un galantuomo per un prete.
Così, sempre bifonchiando, presa la via dell’uscio, si cacciò giù per le scale senza che ci fosse verso di trattenerlo. La Isabella confortò Filippo, rimasto sottosopra alla uscita del dottore, a non darsene per inteso: tornerebbe il giorno appresso, senza neppure ricordarsi del cappello preso di essere tolto in vece del papa. Ora, levato ogni indugio di mezzo, andasse per Eufrosina, che troppo le tardava abbracciare e consolarsi con la povera figliuola.
Allora Filippo si mette la via fra le gambe e va difilato alla bottega di Foldo, alquanto più ilare, perciocchè gli paresse che le cose pigliassero buona piega.
— Sai tu, Foldo, che ti ho da dire?
— Qua’! sei di ritorno, Filippo? Che mi hai da dire?
— Io ti ho da diro che, portando i tuoi panni 216 IL SECOLO CHE MUORE
addosso, mi è avvenuto come al Berni, quando un amico gli prestò il mantello. — Di’ su, che lo sappia anch’io.
— Quando mei veggo addosso la mattina |
Orsù, andiamo per le corte — e qui, dopo avere chiamato anche la comare Bita e chiuso l’uscio, si rifece da capo a raccontare ai nostri coniugi la dolente storia di Eufrosina e di Curio; la Bita piangeva a catinelle; circa a Foldo il pianto non era il suo forte, bensì di tratto in tratto prorompeva in singhiozzi da sfondare una porta. Filippo, venuto in fondo alla sua narrativa, dava per perorazione un pugno sopra la tavola esclamando:
— Ebbene. Curio non ha da morire.
— No davvero, rincalzarono in coro i due coniugi; ma Foldo da solo:
— Non morirà per Dio!
— Dunque Dio mi assisterà; diversamente lo rinnego.
— Ci sto; se non ci aiuta lo rinnego anch’io.
— Ed ora ascoltami: domani mattina per tempo io ti verrò a trovare col giovane travestito, carico con un sacco delle robe di Eufrosina; tu avvisa gli amici vecchi, perchè mi abbiano ad assistere nel fiero passo a cui mi metto... mi mancano danari, e bisogna pure che me gl’imprestino.
— E tu, a volta tua, Filippo, ascolta me; male hai fatto a non aprirti subito meco, perchè a questa ora mi sarei accordato con gli amici intorno ai modo da praticarsi pel meglio; basta, acqua passata non macina; non so se quello proposto da te sarà approvato; dunque fa’ una cosa, domani non pigliare la via che hai tenuto stamani per venire qui; invece entra in via di Legnano; se non incontri persona, ritorna su i tuoi passi e per ponte Vetro vienmi a casa, dove procurerai entrare da via Ciovasso. Dove mai ti accorgessi di persona, allenta il passo; e se ti moverà incontro dicendoti: buon giorno e buon anno; tu le domanderai: che santo fa oggi? E se ti risponderà: santo Ambrogio da Milano, allora ella si volterà e tu tienle dietro senza sospetto: niente ti sarà chiesto e nulla tu domanderai; solo obbedirai a quanto ti prescriverà o con la mano o col cenno. Quanto a danaro non pigliartene cura: ne abbiamo tanti da comperarne acuti da ficcarsi nel piede di cui ci vuol calpestare. Addio, Filippo, lavora di fine da parte tua, e di noi non dubitare.
— Mi raccomando.
E Foldo, tornando addietro, gli prese la mano e disse:
— Tutti amici miei e veterani delle cinque giornate, semplici come colombe e astuti più dei serpenti. I giovani non san fare, per condurre le cose a modo e a verso bisogna avere giocato le partite dove per posta si metteva su una corda, ovvero otto palle nello stomaco quando andava bene. Forse prima che tu parta ci rivedremo; in ogni caso, to’ un bacio, e Dio stia con noi.
Non uno, ma dieci ne ricambiò con Foldo il buon Filippo, che voltatosi al primo interrogò:
— O che un bacio alla comare io gliel’abbia a dare?
— Dagliene due: i baci della moglie a cui il marito fa da notaro non registra la vergogna.
E la Bita, fra il riso e il pianto, minacciando col dito Filippo, diceva:
— Tristo, e guai a voi se per colpa vostra io non avessi ad essere la comare del primo figliuolo che partorirà Eufrosina.
Filippo, pauroso fosse per mancargli il tempo, accomiatatosi da loro si affretta a casa, dove Eufrosina, persuasa del pensiero gentile di dissimular© al padre la propria cecità, si era industriata di mettere a tasto in sesto le sue robe, e tra bene e male ci era riuscita; ma ella presumendo troppo aveva ardito eziandio acconciarsi il capo, e scioltasi i capelli ci aveva passato quattro volte e sei il pettine; ma di un tratto l’era caduto, e per quanto avesse brancolato diligentemente da per tutto non l’era riuscito rinvenirlo più.
Povera fanciulla! Dacchè l’era tolto di compiacersi a contemplare la sua bella chioma, sentiva tanta consolazione a pettinarsela e a palparla!
Appena conobbe il rumore dei passi paterni, per non lasciargli tempo di accorgersi dello sconcio ed affliggersene, disse:
— Babbo, raccatta il pettine e finisci di pettinarmi tu.
E Filippo lieto ci si provò subito: assorto nel piacere di far bella la sua creatura, non pensò ad altro. Intanto che la pettinava la mise a parte di quello giudicò necessario ch’ella sapesse; ed avacciandola poi, e sovvenendola a vestirsi, quando la mirò di tutto punto, presala sotto il braccio favellò:
— Andiamo via, che la signora Isabella ti aspetta. Adesso viene la volta per Filippo ad industriarsi che la figliuola si accorga men che si possa della sua disgrazia, e questo fa removendo col piede gli ostacoli che loro si parano dinanzi, ovvero sospingendo lieve col gomito la figlia, ond’ella senza accorgersene li scansi, e creda potere procedere franca come se ci vedesse.
Una favilla di amore come bene e quante anime accende!
La guardia della porta del Castello, quando vide la fanciulla bellissima, che veniva via pari all’angiolo che si accosta a fare aprire le porte dell’inferno, trasse tutta fuori per contemplarla e per salutarla; e il caporale, ch’era da Barberino di Mugello, bel parlatore e qualche volta dicitore in rima, le favellò:
— Deh! Eufrosina, tornate presto e non ci fate aspettare; voi lo sapete, come ci lasciate ci piglia il buio ed il freddo:
Quando partite voi tramonta il sole, |
— Ecco, date retta a me, disse un altro soldato, che all’accento parve siciliano, io per me proporrei che ci avessimo a collettare, e li danari deste a me per far dire una messa a santa Lucia, onde rendesse la vista degli occhi alla buona fanciulla.
Parve ch’egli accendesse un fuoco d’artifizio, sicchè si udiva da più parti:
— O che le avrebbe a rendere la vista dei ginocchi?
— To’, questa è nuova di zecca; io ho visto sempre santa Lucia dipinta cieca, o come potrebbe dare agli altri la vista che non ha per sè?
— E voi altri imparate quale sarebbe il sacerdote e quale il tempio dove celebrare la messa; prete il camerata Rosolino, chiesa l’osteria del Fico.
— Io vo’ dire la mia, vo’ dire; propongo pertanto che noi abbiamo a digiunare un giorno per uno; così si risparmia quattrini e ci troviamo la devozione bella e fatta...
— . . . . . . . . . . . ma fiorentino interruppe un livornese: costui di fatti veniva da Firenze: — E fermi, proseguiva, mettendosi la mano in tasca; io pago il vino per tutti, e ce lo beveremo alla prossima guarigione della nostra Eufrosina piena di grazia. — Magari! risposero a coro i camerati appuntando gli sguardi nella mano del livornese, il quale, poichè ebbe rovistato un pezzo, la trasse fuori mortificato, e disse: — Maledetto vizio di portare i danari alla rinfusa! Li perdo sempre. Tanto è, finche non ci daranno moglie, noi altri soldati avremo sempre le tasche sfondate. — Largo allo Specioso! Giusto voleva dire; il lupo perde il pelo, il vizio mai; e chi tal disse, nacque a Pisa, dove dei fumi livornesi sono piuttosto invidiosi mordaci che severi censori. Allora Eufrosina, ridendo lietamente, incominciò: — Peccato che tanto bella concordia deva andare a monte! Quanti siete? Non risposero, compunti da pietà, però che la domanda chiarisse lo stato deplorabile della fanciulla, elle dopo poco ripeteva: — Insomma, quanti siete? che mi toccherà riscontrarvi a tasto? — Otto; col caporale nove. — Ebbene, ecco un cavurrino, che a me cieca è riuscito trovare in tasca, mentre il livornese alluminato ha fatto fiasco... — L’ha avuta! gridarono attorno i soldati uccellando il livornese, il quale con ciglio e accento severi parlò: — Signori, non mi pare buona creanza interrompere chi parla, massime quando l’oratrice è una gentil donzella. — Ora, continua Eufrosina, in questi due franchi entrano tre e più litri di vino; bevetene un bicchiere avvantaggiato per uno alla mia prossima salute. Qui ruppe tale un rombazzo di voci per applaudire Eufrosina, che il colonnello del presidio, immaginando che o qualche principe, o il re stesso si fosse fatto a visitare il castello, tirò via di uno strettone il piede dalle mani del barbiere, che gli tagliava i calli, e con una gamba calzata e l’altra scalza corse per essere primo ad ossequiare, mentre il comandante, pauroso che la rivoluzione fosse entrata in Castello, si rimpiattava sotto il letto della moglie puerpera. Eufrosina aveva operato da quella arguta giovane che era; — tanti capi, tante opinioni in Italia, così in caserma, come in mercato e in Parlamento; ed ogni dì crescono, perchè durano fatiche da cani ad insaccarci tutti nella unità dei regolamenti piemontesi e non ci riescono: unico efficace fattore della unità italiana fin qui il fiasco; Asti e Artimino, Chianti e Barbèra si riconobbero senza ostacolo di progenie latina; enotrii tutti, e si mescolarono fraternamente dentro lo stomaco dei deputati italiani. Filippo mise la figlia nelle braccia di donna Isabella; nulla parlò; la guardò solo con uno sguardo che nè parole, nè colori valgono a dipingere; però il poeta lo tace, ed il pittore Timanto lo nascose sotto il velo, quando ebbe a effigiare Agamennone assistente al sagrifizio della figliuola Ifigenia. Ogni momento Filippo ripeteva doversene andare, ed era sempre lì; moveva verso l’uscio e poi tornava indietro; fin quando ebbe sceso mezze le scale rifece gli scalini per ribaciare la sua cara, la sua divina creatura. Nel rientrare in Castello Filippo, al caporale di guardia die gli andò incontro verso la porta, disse sentirsi rifinito, ed era vero: pel quel giorno non poteva più strascinarsi dietro le gambe, epperò avrebbe portato le sue robe alla Eufrosina alla domane per tempo, onde aver libera tutta la giornata; volesse avvertirne la guardia, perchè non gli avesse, come a caso insolito, a porre ostacolo. — Andate franco, sergente, lasciatene il pensiero a me. Tuttavia Filippo, comecchè a stento, andò a licenziare il rinforzo mandato dal comandante alle carceri, e fece in compagnia del suo secondo la visita dei prigionieri, o piuttosto la principiò, che appena ebbe trovato modo per susurrare nell’orecchio a Curio: stasera! — disse al secondo: — Io non mi reggo ritto, badate a chiudere con la solita diligenza; quando avrete finito, venite a mangiare un boccone meco, mi terrete un po’ svagato, che dall’angoscia mi sento morire. Il secondo non se lo fece ripetere due volte, e rispose: — Animo, su, sergente, dopo il tempo cattivo viene il buono, come dice l’uomo del Bosco. Pertanto, dopo tirati i chiavistelli e chiusi i lucchetti a norma dei veglianti regolamenti, egli se ne andò a trovare Filippo salendo le scale a quattro a quattro; questi, che si era buttato sul letto, scese subito e si mise a tavola col secondo; alquanto cibo gustò, al bicchiere pose appena le labbra, poi sbadigliando disse: — Ho più voglia di dormire che di mangiare; continuate il vostro pasto, io lo ripiglierò riposato; lasciatemi la parte del pane e del companatico; il vino finitelo pure, che di questo ce ne ho dell’altro. Veramente il secondo si era proposto non tenere lo invito, anzi aveva solennemente deliberato in cuor suo serbargli anche la metà del vino; ma sì, ciliege, bugie e bicchieri di vino vengono al mondo come Giacobbe, agguantando il piede di Esaù. Innanzi che fosse andato in fondo della boccia, il capo del secondo dondolava più della cima di un cipresso quando tira libeccio. — E meglio che anch’io me ne vada a letto, disse fra sè, ed era risoluzione piena di giudizio; peccato che la pigliava un po’ tardi, perchè la seggiola, in quella ch’egli stava per alzarsi, gli scivolò di sotto, ed ei cadde lungo e disteso sul solaio. Al rumore del tracollo Filippo schiuse alquanto gli occhi, e visto il caso mormorò: — Sta bene dove sta, e voltatosi su l’altro fianco si diede in balìa del sonno. Quando si risvegliò, che a buona caviglia aveva legato l’asino, stava per sonare l’ora della visita notturna alle carceri; bevve un bicchiere di vino, che levò da un armario per darsi un po’ di fiato e poi mise mano a spogliare l’addormentato dei suoi panni, il quale voltato e rivoltato tronfiava, non però risentiva: spogliato ch’ei fu, Filippo fece delle sue vesti un fastello, ma consideratolo bene, segnò col capo tale atto da destra a sinistra, che parve mano che cancelli un rigo di su la carta; allora sciolse il fastello, ed esaminati meglio i panni gli parve avere il fatto suo; invero, essendoseli provati, trovò che sopra i suoi gli andavano a pennello, poichè il secondo fosse alquanto più atticciato di lui e quasi complesso quanto Curio. Sicuro, a chi lo aveva in pratica sarebbe parso più grosso, ma al buio non ci si bada, e poi avrebbe scansato che mettessero troppa attenzione sopra di lui; a questo fine tirò giù il lucignolo nel luminello della lanterna, tanto che mandasse un sospiro di luce, e così alla prigione il buon uomo avviossi: i passi alla lontana ei misurò in modo che al suo appressarsi la sentinella avesse trascorso oltre la porta, voltando le spalle; allora guizzò dentro l’androne dove mettevano capo talune celle; affrettasi a quella di Curio, e aperta appena la porta gli domanda ansioso: — Sei pronto? — Sì. — Aspetta, e così dicendo presto presto pon mano a spogliarsi; e poichè l’altro trasecolato esclama: — Ed ora che fai? Risponde: — Silenzio e obbedisci; mano a mano che mi spoglio io, vestiti tu. Siccome Filippo, comecchè si spogliasse, appariva sempre vestito sotto, Curio cominciò a capire. Filippo, considerando poi che la faccenda tirava troppo in lungo: — Esci, gli disse, finirai di abbigliarti fuori; rannicchiati in un canto; mentre ti vesti continuerò la visita. E come ordinò fu fatto; nel richiudere la carcere di Curio sbatacchiò gli usci con tale fragore che ne rintronarono i muri del casamento. Taluno dei prigionieri vedendo comparire Filippo solo, e rincrescendogli, però che il sotto carceriere, secondo il consueto, gli avesse promesso portargli robe vietate, si attentò domandare: — O di Pietro che n’è, che stasera non si vede venire? E Filippo, con voce e cera da Lucifero: — Che v’interessa sapere queste cose? mirate un po’ che mi bisognerà tenere in giorno i signori carcerati di quanto i superiori ordinano e disordinano? Lo so bene che a voi altri, cattivi soggetti, quando vi menano in prigione vi sembra andare in villeggiatura, e Pietro vi aiuta a bucare il regolamento: ma questa bega ha da finire... e finirà... Mortificato il prigioniere, torna chiotto chiotto a sdraiarsi sul pancaccio, e Filippo, a cui doleva sostenere la parte dell’uomo di arme, non che per mitigare cotesta infinta asprezza, seminava sigari, conforto da carcerati. Filippo, dopo abborracciatala visita, si accosta a Curio e così gli favella sommesso: — Levati, piglia la lanterna, escirai primo, io ti terrò dietro coprendoti con la mia persona. E così fu fatto; la sentinella, la quale non aveva veduto se fossero entrati due uomini od uno, non si addò di nulla; e i nostri amici, accelerando il passo, presto si furono ridotti a casa. — Barba bene insaponata è mezzo fatta, — mormorò con lieta voce Filippo; ma per la commozione tremando, si pose a sedere sul letto asciugandosi il sudore. In breve però fu in piedi da capo e disse: — Curio, ora andiamo a fare il fagotto di Eufrosina. Mentre Curio stava per entrare nella camera di lei, incespicando nel corpo di Pietro fu ad un pelo di dare della faccia per terra. — Questo ch’è? — È Pietro spogliato per vestir te. — Vive? soggiunse Curio atterrito. Filippo, attanagliandogli con la mano destra il braccio: — So, per lo meno quanto tu, gli rispose alterato che libertà a prezzo di delitto non è libertà... dorme... ubbriaco. Empirono una balla di robe senza pigiarvele, giovando che facessero maggior volume: portando poi la balla nella prima stanza, Curio, nel rivedere Pietro steso sul solaio, osservò: — Non sarebbe meglio portarlo sul letto e coprirlo? — Lascialo stare, che sta bene. Quando ti trovi per le mani una faccenda di suprema importanza, qui intendi tutto, e non confonderti in altro: anche la pietà in mal punto può nuocere. Pietro al pancaccio ha fatto il callo; tra il pancaccio e il mattonato non ci corre un tiro di cannone, e tu l’avresti a sapere; smovendolo potrebbe urlare. — O a mettergli adagio un guanciale sotto il capo? — No signore, tu buttati sul letto e dormi; io ho dormito tutto il giorno per vegliare. — No, vacci tu piuttosto. — Ho dormito tutto il giorno per vegliare, ti ripeto: più tardi farai a modo tuo, adesso obbedisci. Giusto nel punto in cui si apriva il Castello, Filippo si trovò alla porta con Curio dietro, portatore della balla sopra l’omero manco, celando per questo modo la faccia a chi stava fuori della porta della caserma; e secondo la promessa ci stava il caporale, che appena ebbe scorto Filippo gli andò incontro salutando: — Buon giorno, sergente. — Buon giorno, caporale. — Tanti saluti e poi tanti da parte mia alla cara Eufrosina. — Presenterò le vostre grazie: addio. — Sergente, sentite una cosa, quando tornate, mi promettete di confidarmi dove dimora adesso? — Ve lo prometto: addio. — Non crediate mica per cattivi fini; solo per mandarle di tratto in tratto i miei versi e qualche fiore. — S’intende... diavolo! addio. Senz’altro intoppo, alla fine vennero all’aperto; non si scorgendo attorno anima viva, affrettarono il passo per la via Legnano: appena giunti a un terzo, ecco occorrere loro persona che parve sbucata dal centro della terra, e rasentatili salutò: — Buon giorno e buon anno! E Filippo: — Il santo? — Santo Ambrogio da Milano, e vienmi dietro accosto al muro. Dopo camminato un pezzo, lo sconosciuto, che precorreva, picchia con le nocche su di un portone da rimessa, che si apre, e dietro a quello sparisce. Filippo e Curio, arrivati a cotesto punto, assai sbigottirono non vedendo più alcuno, se non che a rimettere loro il cuore in corpo una voce parlò: — Buon giorno e buon anno. — Il santo? — Santo Ambrogio da Milano. — Entrate. Entrarono: l’uscio si richiuse, ed essi si trovarono dentro un fienile ingombro di legna e di strame; di corto si mostrò un uomo di faccia gioviale che li invitò a bere un bicchiere di acquavite per cacciar via la mattana, ed a mangiare un boccone di pane; finito il sobrio pasto, costui disse: — Voi altri deporrete qui la balla, e m’indicherete dove ha da essere recapitata, che noi ce la porteremo con le debite cautele, s’intende. Filippo glielo disse. — Bene, adesso spogliatevi dei vostri panni e vestite questi da barocciai; ecco due perrucche; giovanotto, giù i baffi; di biondo trasformatevi in nero; voi, vecchio, di grigio ferro vi muterete in argento schietto; ci guadagnate un tanto; tra poco arriverà qui un branco di bestie e di cristiani, e voi v’imbrancherete con gli altri; vi affideranno un baroccio; a condurre un cavallo poco ci vuole; le nostre povere bestie, affrante dalle fatiche, voi non proverete bucefali; andate dove gli altri andranno: non domandate, non rispondete; e sarà spediente che voi non vi mettiate uno dietro l’altro, lasciate tra voi quattro barocci o cinque; e addio; lavorate pulito. Dopo mezz’ora la contrada andava sossopra da un fracasso di cavalli, di barocci e di vetturali; se avessi pretensioni alla fama di storico veridico, dovrei aggiungere: e di bestemmie, perchè, io non so la cagione, la plebe tutta, ma i vetturali in particolare, hanno lite perpetua col paradiso e con chi ci è dentro. Lascio andare l’acqua per la china, ma per me ripeto che se la plebe non crede in Dio e bestemmia, è stolta; se ci crede, scellerata. In tanta gente, in mezzo a cotesto bailamme, Filippo e Curio si confusero con gli altri, senza che veruno se ne addasse, e ciò tanto più potè farsi, che due barocciai, i quali erano d’intesa, entrarono nel fienile, e dati i debiti segni, si convertirono in facchini, ammonendo sommesso i due fuggitivi che pigliassero posto ai loro barocci. Parte dei barocci caricò strame, parte legna, di questi i barocci di Curio e di Filippo: poi si misero in moto per andare: alla prima svolta il guidaiolo capo del traino a voce alta ordinò: — Chi ha strame in casa Berretta; chi ha legna alla prefettura. Alla prefettura! pensarono d’accordo Curio e Filippo, di cui i barocci portavano legna, ma curvarono le spalle e proseguirono senza fiatare. Di vero fermaronsi davanti alla parte postica del palazzo della prefettura, e tosto diedero mano al discarico: indi in breve fu un brulichio, uno andare e un venire da disgradarne le formiche. Qui ad un tratto si presentava a Curio ed a Filippo l’uomo del fienile, il quale, mentre finge dare loro ordini pel trasporto, aggiunge sommesso: — Ora smettete il mestiere di barocciaio per pigliare quello di facchini; caricatevi un fascio di legna sopra le spalle e salite su franchi; troverete qualcheduno per le scale che vi guiderà. I nostri eroi, carichi come muli, seguitarono i compagni che osservarono avviarsi su per le scale, però che altri scendevano per recarsi alle cantine, ovvero alle cucine; ma pei nostri eroi, rifiniti dai patimenti, non fu piccola fatica portare quel tocco di fascio di legna in soffitta; venuta loro meno la balìa, si buttarono a sedere sopra gli scalini a riprendere fiato, mentre i compagni scendevano vociferando, e taluno motteggiandoli; riconfortati alquanto, scesero anch’essi pensosi se ad un secondo viaggio sarieno loro bastate le forze, quando ecco, mentre meno se lo aspettavano, apparve loro sopra la porta del secondo piano un vecchio vestito civilmente che li salutò col saluto convenuto: Buon giorno e buon anno. Quelli avendo chiesto il santo, udirono rispondersi: Santo Ambrogio da Milano. Invitati entrarono in casa al vecchio; quivi per tutto cotesto giorno rimasero, alternando insieme molti e bei ragionamenti che non importa riferire; tasti sapere ch’egli era un patriotta della stampa antica; la fortuna lo aveva fatto padre di un giovane che un dì, ardente garibaldino, per vanità infelice aveva fatto voltafaccia, e, Saulo alla rovescia, perseguitava ora i repubblicani coll’impeto col quale un dì aveva parteggiato per loro; infatti di presente si trovava a Lugano per tenerli di occhio; ma il vecchio si era mantenuto per genio proprio e per pericoli comuni durati per la libertà legato ai vecchi amici, onde questi non avevano saputo escogitare asilo più sicuro ai fuggitivi della casa del delegato capo di polizia, occhio diritto del prefetto e mignone dello stesso ministro dello interno, il quale aveva aperto con questo oggetto della sua tenerezza un conto corrente d’infamie e di croci; circa a quattrini adagio; ma al delegato di questi importava poco, perchè se li pigliava da sè. — È mio figliuolo, diceva il vecchio con un sospiro, l’ho unico soxpra la terra, e odiare non lo posso: il mio dovere m’impone di stargli a canto, tentare di ricondurlo nel diritto sentiero; e in ogni caso, quanto più posso, emendare il male ch’egli fa: prima che finisca la settimana io non lo avrei ad aspettare, ma vado sicuro che lo richiameranno prima per isguinzagliarvelo dietro, che senza di lui non sanno a quanti dì viene san Biagio. Ora lasciatemi andare a chiudere il cancello di mezze scale, e prima che si faccia più buio bisogna che vi accomodi nella sofiitta, dove ho ammannito quanto ho potuto, stante l’angustia del tempo e la necessità di non destare sospetto: adattatevi e compatite; non fumate, non accendete lume, procurate non fare rumore, camminate scalzi; avvertite che qui in casa molta gente ci bazzica, e la serva fino a sera, che allora va a dormire a casa sua; quando potrò verrò a vedervi, e se vi manca qualche cosa ve la provvederò; per la strada si assettano i basti. Passata la prima sfuriata, ci riuscirà facilissimo più che altri non pensa cavarvi da Milano e dal regno. Noi siamo potenti e molti; di vero, chi mai potrebbe capacitarsi che vi abbiamo trovato asilo proprio su la testa del prefetto, anzi nel giaciglio del segugio che vi avrebbe a scovare? I successi si svolsero giusto nel modo presagito dal veccliio; il suo figliuolo, richiamato, tornò due giorni dopo dalla Svizzera, il quale ridottosi a parlamento col prefetto, col generale di divisione, col procuratore del re e col questore, si condusse a casa in fretta e in furia per rinnovare la biancheria della valigia, desinare e partire. Mangiò appena, le mani gli tremavano per la commozione; narrò, il governo sottosopra per la fuga del soldato condannato a morte e del carceriere; non sapeva distinguere chi più procedeva smaniosa in questa faccenda, o l’autorità civile o la militare; entrambe parergli frenetiche: se non giungeva a dare uno esempio solenne, addio disciplina; il regolamento urlava carne peggio di un lupo affamato: egli aveva rimesso il cuore in corpo a tutti: essere corso fra loro un patto: se a lui fosse riuscito in capo ad una settimana reintegrare i contumaci in Castello, gli avrieno impetrato dal governo una questura e la croce dei santi Maurizio e Lazzaro. Bel colpo, babbo mio! bel colpo! — Bada, gli notava il padre, bada, figlio mio; ho paura tu abbi preso una gatta a pelare; i repubblicani sono potenti; almeno se ne vantano. — Eh! dove sono adesso i repubblicani? Repubblicani erano i giovani, ma il governo li pesca alla mazzacchera delle preture, degli assessorati, delle delegazioni, delle questure; qualcheduno, che va per la maggiore, si abbarbaglia con lo specchietto delle prefetture; due l’hanno, quaranta l’aspettano; un flagello allunga il collo e pigola da mattina a sera; per me, vedete, con metà meno di brumeggio mi farei forte di chiapparvi una retata di deputati. Né alcuno voglia osservarmi che sembra strano un tale linguaggio in bocca a costui, colpevole anch’egli, però che tale lebbra invada appunto l’anima venduta, la quale negli altri disprezza o aborre quello che in sè o non vede o non sente. — Ci sono i vecchi, soggiunse il padre; ed essi non hanno speranze, ed anche meno timori. — Vecchi! una manata di sgangherati, conti della sputacchiera, duchi del cristere; cenere, cenere, soffiaci su, e andranno dispersi: afflavit Deus et dissipati sunt. — Ma hai pensato che se li agguanti, tu li meni al macello... — Babbo, mors tua vita mea; due più, due meno, non saranno la rovina nel mondo, e poi siamo troppi; non so e non credo che ci siamo condotti a vivere insieme per aiutarci, certo egli è che adesso stiamo insieme per divorarci. — Come così è, riprese il padre visibilmente commosso, io vo’ tentare se mi riuscisse buscarmi un cento di lire a man salva: al caffè dove vado la sera ci è un gran chiacchierio su questo proposito; chi dice che li ripescheranno, chi no; tanto si sono incaloriti su tale contrasto, che ci sono già corse scommesse, ed altre ce ne correranno. — Scommettete pure che saranno presi, e figuratevi di avere i quattrini in tasca. — Dunque scrivimi quanto più spesso puoi, e tienmi bene informato, perchè, secondo gli avvisi, scommetta pel sì, o alla peggio anche pel no, onde non fare all’ultimo la figura dei pifferi di montagna. E ti tratterrai molto fuori? — Di una settimana mi avrebbe a bastare, perchè per quanto mi è riuscito conoscere spillando dintorno, fuori del confino non dovranno essere andati; staranno nascosti nel contado. Al vecchio veramente qualche scrupolo aveva trottato per la testa, ma le parole del figlio gli serenarono l’anima: egli non tradiva costui, bensì avrebbe tradito i miseri che aveva accolto nelle braccia; al figlio non noceva, all’opposto, seminandogli di triboli l’atroce cammino, sperava disgustarlo, e dato il caso riscattarlo; in ogni modo quelle dae vite innocentissime, salvate e offerte a Dio, avrebbero giovato a impetrare la sua misericordia sul figlio perduto, imperciocchè il vecchio repubblicano era, ma poneva ogni sua fidanza in Dio. e nel ben fare lo confermava la fede ch’ei lo vedesse e lo approvasse. Le lettere del figliuolo gli giungevano quasi ogni giorno, e per esse veniva a conoscere quanto stupida e volgare cosa sieno le reti che la polizia presume intrecciare con arguto magistero: nei prati ov’ella mena la falce non crescono altr’erbe che femmine da partito, pollastriere, lenoni, osti, barbieri, e soprattutto preti; senza di questi non raccoglierebbe una boccata di fieno. Il presuntuoso bargello scorrazzava a destra e a mancina come il cane con la polpetta in corpo; ogni momento stava li per li per acchiappare la preda, e poi stringeva mosche; certa volta corse con la lingua fuori fino a Domodossola; adesso non gli sguizzavano più; certi i segnali; sicuro il covo; stende la mano e piglia un cappellano e la moglie dell’organista scappati insieme; scattò di un pelo che il bargello scorrubbiato non tirasse il collo a tutti e due: molto più ch’entrambi con le mani su i fianchi urlavano: — O lei come ci entra nei fatti nostri? Chi le dà noia? Facciamo col nostro e non diamo fastidio a nessuno. Il peggio fu, quando ricondusse la moglie al marito (che il prete lasciò ire per non entrare in disgrazia al ministro), dacchè questi gli si avventò come un basilisco gridando: — O chi le ha detto di pigliarsi questi pensieri del Rosso? Chi l’ha incumbenzato di andarmela a cercare? Chi di riportarmela? Lei se la infarini e lei se la frigga. E qui gli sbatacchiò la porta sul muso. Allora la donna si mise a guaire: — Ohimè! chi mi farà le spese? Chi mi vestirà, chi mi albergherà, chi mi nudrirà? Ora il marito mi scaccia, il cappellano non mi vorrà più a cagione dello scandalo; io verrò a stare con lei; lei è obbligato per coscienza a mantenermi, e per legge. Il delegato scappò via per non darsi del capo nel muro: infellonito, frusta, rifrusta, da per tutto fruga, ci adopra l’estremo della sua malizia; invano; coloro ch’ei cercava stavano tranquilli a dormire in casa sua: scornato, ebbe a tornare con le pive nel sacco. Mentr’egli entrava in Milano, i nostri eroi ne uscivano. Molte le cautele, gli accorgimenti infiniti adoperati per trarli fuori di pericolo, e soprattutto non laudata quanto merita la fede inconcussa degli amici; io mi passo dal descriverli; basti al lettore che Filippo e Curio, travestiti da calderari istriani, passarono per Rocca di Anfo; rividero fremendo di pietà e di rabbia tutti i luoghi consacrati dall’altrui sangue italiano e dal proprio: appena giunti a Trento trovarono modo di avvisare Foldo, il quale non mancò di mandare subito alla signora Isabella il filo di pane co’ due franchi dentro; di che se si facesse festa grande in casa di lei lascio che il lettore immagini: avresti giudicato che nel cuore della madre di Curio dovesse essere ben morta ogni litizia, e non fu così, perchè il cuore materno si accende tanto per una, quanto per cinque fiaccole: ed ella godè uno dei più bei giorni che avesse rallegrato la primavera della sua vita, sentendo a prova come la coppa della gioia e del dolore non si vuota mai tanto, che qualche gocciola in fondo non ne rimanga sempre. Da Trento scesero a Trieste, dove in grazia delle cure amorose del signor Giamari, greco, della libertà di tutti i popoli amante come fratello, di quella della Grecia e dell’Italia come figlio, ebbero comodità imbarcarsi per Londra; di questo ricevè lettere nunziatrici Isabella, le quali la confortavano a starsi di buono animo, confidare in Dio, che li avrebbe sovvenuti anche in avvenire. Ormai non potersi revocare più i mattini sereni; tuttavia dopo un giorno procelloso gli occhi si consolano a vedere il tramonto del sole circondato da mesti raggi, e l’anima ne gode. Io, scrittore, non conosco cosa nel mondo della quale sia stato detto tanto bene, ovvero tanto male, a seconda degli appassionati interessi, come delle sètte segrete: i governi lungamente mi perseguitarono, e ferocemente, pel sospetto che io fossi capo o parte principale di taluna di quelle: la verità è che io mi tenni fuori di tutte; privato cittadino, sovvenni coll’opera e col consiglio, impiegandoci non pure le mie facoltà, ma altresì quelle di parecchi amici, quanto ci parve magnanimo, libero e onesto. Di questi amici alcuni morendo portarono seco nell’altra vita l’anima dirittamente intera, ed io li piango; altri durano tuttora nella vita, ma hanno fatto getto dell’anima intemerata, — e di questi piango troppo più. Ora che io e voi siamo giunti dinanzi la porta della morte e teniamo in mano il battente per picchiarci che ci apra: dite, vecchi compagni della mia gioventù, valeva il pregio avvilirvi? Il retaggio che lasciate ai vostri figli, unico inalienabile, è la fama contaminata. Ma tornando a parlare delle sètte segrete, è giusto che si affermi come, nonostante gli errori molti e qualche colpa commessa, elle fossero per la libertà ciò che furono le catacombe per la religione cristiana; loro mercè si mantennero accesi sopra il medesimo altare con fiamma congiunta l'amore della patria e l’odio contro lo straniero; colla parola li confessarono, col martirio li suggellarono; ed anche questo altro so, e veruno me lo potrebbe negare, che molti italiani vanno debitori all’opera delle sètte segrete della loro vita. — Com’essi l’abbiano spesa non considero, non voglio considerare; noi compimmo il nostro dovere; — non ora, ma più tardi, per quelli che mal vivendo perderono le cause del vivere, non può mancare chi in loro potendo più di loro li interrogherà: e voi come adempiste il vostro?
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