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capitolo xxii.


— Silenzio; qui non ci ha luogo Eufrosina; zitto e dormi.

Chiusa appena la prigione, Filippo, salendo le scale a quattro a quattro, entra in casa; corre nella stanza della Eufrosina col cuore che gli picchiava il petto più forte di un ariete romano. La stanza era vuota.

— Frosina! Frosina! Dove ti sei cacciata?

— Veruna risposta; passa in camera sua; colà pure chiama, osserva... niente. Salta in cucina, di cui la finestra dava su la piazzetta del castello dove facevano capo le prigioni, e quivi la mira caduta supina in terra priva di sentimento. S’immaginò subito il successo e prese a dire:

— Ci mancava anche questa! Ora su, Nina mia; non ti abbandonare; il diavolo, sai, non è brutto come si dipinge; da brava, via, rimettiti in piedi.

E siccome l’altra non dava retta, la levò di peso portandola sul letto e con acqua diaccia, aceto ed altri argomenti s’ingegnava farla rinvenire, e rinvenne.

— Ahimè! Anima, che hai?

Ed Eufrosina, mentre si fregava gli occhi, rispondeva:

— Che brutto sogno, babbo mio, mi sono fatta... mi pareva...

— Senti, Eufrosina, quello che hai visto è vero. Curio è qui in prigione condannato a morte por