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236 | il secolo che muore |
la maggiore, si abbarbaglia con lo specchietto delle prefetture; due l’hanno, quaranta l’aspettano; un flagello allunga il collo e pigola da mattina a sera; per me, vedete, con metà meno di brumeggio mi farei forte di chiapparvi una retata di deputati.
Né alcuno voglia osservarmi che sembra strano un tale linguaggio in bocca a costui, colpevole anch’egli, però che tale lebbra invada appunto l’anima venduta, la quale negli altri disprezza o aborre quello che in sè o non vede o non sente.
— Ci sono i vecchi, soggiunse il padre; ed essi non hanno speranze, ed anche meno timori.
— Vecchi! una manata di sgangherati, conti della sputacchiera, duchi del cristere; cenere, cenere, soffiaci su, e andranno dispersi: afflavit Deus et dissipati sunt.
— Ma hai pensato che se li agguanti, tu li meni al macello...
— Babbo, mors tua vita mea; due più, due meno, non saranno la rovina nel mondo, e poi siamo troppi; non so e non credo che ci siamo condotti a vivere insieme per aiutarci, certo egli è che adesso stiamo insieme per divorarci.
— Come così è, riprese il padre visibilmente commosso, io vo’ tentare se mi riuscisse buscarmi un cento di lire a man salva: al caffè dove vado la sera ci è un gran chiacchierio su questo proposito; chi dice che li ripescheranno, chi no; tanto si sono