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capitolo xi. | 147 |
Adesso cotesta bandiera non più sventola sulle torri di Ampola; anzi ci spiega da capo alle brezze delle alpi italiche il suo lembo l’aquila imperiale. L’abbattè il popolo, la rialzò la monarchia; quanto di gloria fu scritto col sangue dei patriotti, tanto lo inchiostro obbrobrioso dei negoziatori scancellò: ed è da credersi che il governo regio, trovando fra le spoglie di guerra del Garibaldi la vinta bandiera, per tenersi bene edificato l’imperatore di Austria, gliela restituisse; invano laboraverunt! Vorrei con Fonseca Pimentel ripetere il detto virgiliano: olim meminisse juvabit:
E fie che giovi rimembrarlo un giorno!
Come da un’urna rotta scorre via l’acqua, così io mi sento fuggire l’anima dal corpo stanco, e con amarezza di morte tremo sia la nostra schiatta destinata a disfarsi. Questo pensiero mi perseguita come una tentazione del demonio, dopochè miro lo stato nel quale sono ridotte la Francia, l’Italia e la Spagna; argilla mobile, che ruzzola sopra argilla immobile; terra soprammessa alla terra; fango animato agitantesi sopra fango senz’anima: parte del popolo si chiude gli orecchi per non sentire; parte ha tolto a prezzo di aprirglieli per forza, versandoci dentro parole di veleno; Locuste, Tofane, Brinvilliers, Lafarge spirituali: gli avvelenatori altrove si condannano, qui si pagano e si fregiano. Ai nostri imperanti giova più un giorno di lupercali che un