Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte I/Venezia
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1875)
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VENEZIA
Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori! La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo suono fatale!
Allorquando viddi accostarsi alla barca che mi portò da Padova la prima gondola (imperocchè vengono queste per trasportare più sollecitamente a Venezia i passeggieri i quali hanno premura), mi ricorse alla memoria un balocco della mia prima infanzia, al quale non avea pensato da forse vent’anni. Mio padre possedeva un bel modellino di una gondola, che aveva portato di Venezia, lo teneva molto caro, ed era una grande concessione, allorquando mi si permetteva di divertirmi con quello. La prima prora rivestita di latta rilucente, la cabina nera della gondola, tutte le parti di questa, mi parvero vecchie conoscenze, mi procacciarono la soavità di un caro ricordo dei primi anni.
Mi trovo ben alloggiato alla Regina d’Inghilterra, a poca distanza dalla piazza di S. Marco, ed è questo il pregio principale di questa locanda; che del resto le mie finestre si aprono sopra un canale di poca larghezza, fiancheggiato da case altissime, e propriamente sotto quelle vedo un ponte di un solo arco, ed una strada angusta, molto frequentata. Tale si è la mia abitazione, ed io mi fermerò qui vari giorni, in fino a tanto io abbia potuto allestire le mie carte per la Germania, e godermi a mio agio lo spettacolo di questa città singolare e meravigliosa. Potrò pure godermi qui la solitudine assoluta che ho vivamente desiderato le tante volte, imperocchè in nessun luogo uno si può sentire cotanto solo, quanto mescolandosi alla folla, dove non si conosce anima viva. Ed a Venezia probabilmente non vi ha che una sola persona la quale mi conosca, e sarà difficile che io l’incontri.
Venezia, il 28 Settembre 1786.
Voglio darvi conto in poche parole del modo col quale sono qui venuto da Padova. Il viaggio sulla Brenta, in un barcone pubblico, ed in buona compagnia, imperocchè gl’Italiani sono soliti usarsi vicendevolmente ogni riguardo, è viaggio comodo, e piacevole ad un tempo. Lungo le sponde del fiume si scorgono ville e giardini, villaggi i quali scendono sino al fiume, ed in altri punti la strada la quale corre lungo quello, animata da vivo commercio. Nello scendere il fiume si fanno spesso colà dove sono catteratte o conche brevi fermate, durante le quali si può sbarcare sulla sponda, e si ha occasione di acquistare frutta squisite, le quali vi vengono offerte in abbondanza. Si rientra nella barca, e si continua a scendere la Brenta, fra campagne fertilissime, e piene di vita.
In mezzo a questo continuo variare di vite e di spettacoli, incontrai pure un episodio il quale tuttochè originario di Germania, era però fatto per produrre qui bellissimo effetto, vale a dire due pellegrini, i primi che io abbia avuta occasione di contemplare da vicino. Avevano dessi pure tutto il diritto di fare la loro comparsa in quel mondo variopinto, se non che, schivando il resto della compagnia il loro contatto, non presero posto cogli altri sotto lo tenda sul ponte, ma si ritirarono in disparte, a poppa, presso il timoniere. Non essendo più frequenti i pellegrini nell’epoca presente, eccitavano quelli stupore, ed essendo avvenuto di frequenti, che sotto quelle vesti, si nascondessero ribaldi, i pellegrini sono oramai tenuti in dispregio. Allorquando seppi che questi erano Tedeschi, e che non parlavano altra lingua, mi accostai ad essi, ed appresi che erano originari della diocesi di Padeborn. Erano uomini entrambi dell’età di cinquant’anni all’incirca, di aspetto malinconico, ma buono. Avevano visitato anzitutto la tomba dei tre re magi a Colonia, quindi avevano attraversata la Germania, ed ora si portavano a Roma coll’intenzione, ritornati che fossero nell’Italia superiore, l’uno di rientrare in Vestfalia, l’altro di portarsi ancora a S. Giacomo di Compostella.
Erano vestiti secondo l’uso generale, se non che la loro tonaca era molto più corta di quella colla quale abbiamo l’abitudine di riprodurli nei balli in maschera. L’ampia cappa, il bastone, il cappello tondo, le conchiglie, bicchiere queste affatto primitivo; ogni cosa aveva il suo significato, la sua applicazione immediata e la scatoletta di piombo, era destinata a richiudere i loro passaporti. La cosa la più curiosa era la loro borsetta di marocchino rosso, destinata a custodire le lettere e le carte, nella quale si contenevano pure tutti i piccoli stromenti che occorrono per i bisogni più ordinari della vita. L’avevano aperta per porsi in grado di rassettare alcuni guasti ai loro abiti.
Il timoniere, soddisfattissimo di avere trovato un interprete, mi pregò di volgere varie domande a suoi vicini; e conobbi pertanto molti particolari delle loro intenzioni, e specialmente dei loro viaggi. Si lagnavano amaramente dei loro correligionari, non eccettuando i preti ed i frati. Dicevano dovere pur essere cosa rara la pietà, dacchè nessuno voleva prestar fede alla loro, e tuttochè facessero vedere il loro itinerario, e le lettere di raccomandazione dei loro vescovi, nei paesi cattolici venivano in generale considerati quali vagabondi, e trattati come tali. Narravano per contro con commozione, come fossero stati bene accolti da molti protestanti, specialmente da un ministro nella Svevia, e sovra tutto dalla moglie di questi, la quale ad onta di qualche osservazione del marito, li aveva forniti largamente di ristoro del quale grandemente abbisognavano, ed inoltre aveva loro nel partire fatta limosina di un tallero, che dicevano essere stato loro di grande utilità, non appena avevano posto di bel nuovo il piede nelle contrade abitate dai cattolici. Ed uno dei due soggiunse per ultimo con tutto il calore di cui era capace: «Da quel giorno in poi, abbiamo contemplata sempre quella donna caritatevole nelle nostre orazioni, e porgiamo preghiere a Nostro Signore Iddio, perchè le apra gli occhi, nella stessa guisa ch’ella aprì a noi il suo cuore, acciocchè ella possa, benchè tardi, far parte della nostra chiesa santissima unica vera; ed in questa lusinga ci conforta il pensiero, di poterla ritrovare nel paradiso.»
Partecipai quanto stimai conveniente di questi loro discorsi al timoniere, non che a varie altre persone le quali si erano assiepate a me d’intorno, mentre stavo ritto in piedi sulla scaletta che dal ponte della barca porta sotto coperta. Furono date poche cose ai pellegrini, imperocchè gl’Italiani sono poco propensi a far limosina. Allora i pellegrini trassero fuori cartoline, sulle quali stavano le imagini dei re magi, con sotto un orazione latina in onore di questi, e mi pregarono di volerne far distribuzione agli astanti spiegando loro il pregio sommo di quelle cartoline benedette. Li soddisfeci nel loro desiderio, e la cosa finì bene, imperocchè fu partecipato a quei due poveretti, i quali parevano trovarsi nel più grande imbarazzo, come a Venezia vi fosse un monastero destinato a dare ricovero ai pellegrini; ed il timoniere commosso, promise loro che non appena sarebbero sbarcati, avrebbe dato un quattrino ad un ragazzo, perchè loro fosse di guida a quel convento, molto discosto. Soggiunse però che colà non avrebbero avuto gran che a lodarsi del trattamento; che lo stabilimento era bensì vasto, e capace di dar alloggio a non ricordo quanti pellegrini; ma che oggigiorno si trovava piuttosto in decadenza, ed i redditi ricevevano altra destinazione.
Mentre ci trattenevano in questi discorsi, passavano davanti ai nostri occhi le sponde amene della Brenta, con parecchi bei giardini, vari stupendi palazzi, non che villaggi di bella apparenza, i quali succedendosi rapidamente gli uni agli altri, si offerivano al nostro sguardo. Appena poi entrammo nella laguna, la nostra barca si trovò circondata di gondole. Un Lombardo, molto pratico di Venezia, mi fece proposta di accompagnarlo per guadagnare tempo, e scansare le noie della dogana. Egli seppe, con una mancia, tenere lontani taluni che volevano ritardare il nostro sbarco, e per tal guisa vogammo rapidamente, alla luce di un magnifico tramonto, verso la nostra meta.
Il 29 giorno di S. Michele. A sera.
Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto, che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi avvenne, le cose le quali mi colpirono.
E la prima fù qui ancora il popolo, questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu condotta a vivere diversamente dagli altri popoli.
Non fu per propria elezione che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno, si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate. Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto. E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale; più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla piazza di S. Marco. Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele.
Dopo cenato mi affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai, solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti, trovasi però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi, senza averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le une alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto.
Trovai facilmente il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto, formato di un arco solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si vede il canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole; ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.
Le due parti principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e fisionomie.
Allorquando mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed abbandonando le stradelle anguste, mi avviai per la parte a settentrione del canal grande, facendomi portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel canale della Giudecca, e per ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi sentii io pure a mia volta compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque Veneziano sdraiato nella sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il quale non la finiva tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di questa città. Non ne farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi circondano sono degne di rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte generazioni di uomini; sono monumento stupendo, non già di un principe, ma bensì di un popolo. Ed ora, quantunque la laguna si vadi poco a poco interrando, quantunque sorgano vapori mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto il commercio, e venuta meno la grande possanza della Repubblica, sono pur sempre meritevoli questa ed i suoi ordinamenti, dell’attenzione di un osservatore. Dessa soggiacque all’influenza del tempo, a cui nessuna cosa sfugge, di quante sono al mondo.
Il 30 Settembre.
Questa sera mi lanciai di bel nuovo solo, senza guida, nei quartieri i più remoti della città. Tutti i ponti si trovano qui sollevati ad una certa altezza, e vi si accede per mezzo di gradinate, acciò possano passare sotto i loro archi, non solo le gondole, ma ancora le barche di maggiore portata. Mi ostinai a volere trovare la mia strada in quel laberinto senza domandare indicazione a veruno, regolandomi unicamente dalle stelle. È vero che si perde molte volte la strada, però questo metodo si è ancora il migliore per acquistare pratica della città, ed intanto potei osservare l’aspetto, gli usi, i costumi, il modo di vivere degli abitanti, le quali cose tutte variano da un quartiere all’altro. Buon Dio! E pure un curioso animale, il bipede uomo!
Molte case sorgono proprio immediatamente nell’acqua; quà e là però vi sono marciapiedi, ben selciati, sui quali si può passeggiare piacevolmente, fra l’acqua, le chiese, ed i palazzi. È piacevole sovratutto quello lungo in pietra verso settentrione, di dove si gode la vista delle isole, e particolarmente di quella di Murano, altra Venezia, ridotta a piccole proporzioni. Le lagune poi fra quelle isole, sono animate di continuo dall’andirivieni delle gondole.
Il 30 Settembre a sera.
Oggi poi ho allargato la sfera delle mie cognizioni di Venezia, facendo acquisto della pianta della città, e dopo averla in certo modo studiata, salii sulla torre di S. Marco, di dove si gode uno spettacolo unico. Era mezzogiorno all’incirca; il sole splendeva limpidissimo, in guisa che anche senza ricorrere al canocchiale, si potevano scorgere gli oggetti a molta distanza. Le lagune erano tutte ricoperte dall’acqua, ed allorquando volsi lo sguardo verso il così detto lido, lingua stretta di terra, la quale chiude la laguna, vidi per la prima volta da Venezia il mare, ed alcune vele su quello. Nella laguna stessa poi vi erano galere e fregate, le quali debbono raggiungere il cavaliere Emo, il quale sta facendo la guerra agli Algerini, ma che furono trattenute sin qui, da venti contrari. Le colline di Padova, di Vicenza, ed i monti del Tirolo chiudevano all’orizzonte, fra ponente e tramontana, quel quadro propriamente stupendo.
Il 1.° Ottobre.
Oggi pure ho girata la città in vari sensi, e tanto più per essere giorno di domenica, mi colpì la sporcizia di questa, della quale mi è pure forza far parola. Vi esiste bensì un certo sistema di pulizia in questa parte, dacchè gli abitanti depongono le immondizie delle loro case negli angoli delle strade, e vedo quà e là barche, che si fermano per caricare quei mucchi di sozzure, onde recarle nelle isole dove si abbisogna di concime; ma tutto ciò si pratica alla buona, senz’ordine, senza seguito, ed è tanto più inescusabile la sporcizia di questa città, in quanto chè possederebbe tutti gli elementi per essere con poca fatica linda e pulita, quanto qualsiasi città di Olanda.
Tutte quante le strade sono selciate, anche nei quartieri i più remoti, almeno nel centro, con mattoni, ed ivi il suolo è alquanto più elevato per dare corso lateralmente alle acque piovane, che dalle cunette sono portate in canali coperti. Molti altri particolari edilizi fanno testimonianza del pensiero di architetti capaci, di rendere Venezia città pulita quanto la è singolare. Non potevo astenermi dall’ideare mentre stavo passeggiando un buon regolamento di pulizia edilizia, ed un magistrato il quale ne curasse seriamente l’osservanza. Tanto è naturale ad ognuno, la tendenza ad ingerirsi negli affari degli altri!
Il 2 Ottobre 1786.
Mi affrettai di portarmi alla Carità; avevo trovato nelle opere del Palladio, ch’egli aveva formato per quel monastero un progetto, nel quale si era proposto riprodurre le disposizioni delle abitazioni dei ricchi nell’antichità. La pianta pregevolissima, sia nel complesso che nei particolari, mi era andata sommamente a genio, ed io mi lusingavo di trovare un capolavoro architettonico, ma ohimè? l’opera non è eseguita che per la decima parte forse, se non chè anche questo poco, rivela il genio dell’autore, per la felicità dell’idea complessiva, e per una finitezza ed una precisione di esecuzione poi, della quale io non avevo fin qui idea. Si starebbe un anno a contemplare quell’opera, ed io ritengo nulla si possa vedere di più sublime, di più perfetto in architettura. E difatti la è opera di un artista eccellente, nato con il senso intimo del bello e del grandioso, e nudrito allo studio indefesso ed accurato dell’arte antica, il quale trovò occasione di dare corpo ad una sua idea prediletta, quella di riprodurre le forme, la distribuzione di un antico edificio privato, in un convento destinato all’abitazione di molti monaci, non che a raccogliere forastieri.
La chiesa comincia per essere bella; da questa si accede ad un atrio di colonne d’ordine corinzio, un vero incanto, e tosto scompare ogni idea di preti e di frati. Da una parte stà la segrestia, dall’altra la sala del capitolo, ed ivi pure scorgesi la più bella scala del mondo, colla gabbia ampia aperta, e con i gradini incassati nelle pareti con tale sottile artifizio, che l’uno serve di sostegno all’altro. La si sale e la si scende comodissimamente, ed a dare un idea della sua perfezione, basterà accennare che il Palladio stesso, dichiarava esserne soddisfatto. Dal peristilio si entra nella grande corte interna, ma pur troppo degli edifici che la dovevano circondare, il lato sinistro soltanto si trova eseguito, a tre ordini di colonne sovrapposte le une alle altre, con un porticato al piano terreno, una galleria al primo piano sulla quale si aprono le celle, ed all’ultimo piano finestre, le quali si aprono nel muro. Se non chè, non basta questa descrizione, è d’uopo gettare inoltre uno sguardo almeno sui disegni. Ora due parole ancora dell’esecuzione.
Soltanto i piedestalli ed i capitelli delle colonne, e le chiavi degli archi sono di pietra lavorata, tutto il rimanente è formato non potrei dire di mattoni, ma di terra cotta. Non avevo veruna idea di tale specie di mattoni, o materiale che lo si voglia nomare. Sono pure formate in quello le cornici, le indorature, gli ornati degli archi, non che le pareti, dove i mattoni sono uniti gli uni agli altri, con poca calce. Il tutto pare fuso di getto in un solo pezzo, e quando tutto l’edificio fosse stato ultimato, ed avesse assunta una tinta uguale, sarebbe stata opera di aspetto stupendo.
Se non chè, il progetto era troppo grandioso, come avvenne per molti altri edifici dei tempi moderni. Palladio aveva progettato che si dovesse non solo atterrare il convento attuale, ma ancora acquistare varie case aderenti a questo, ed è probabile siano venuti a mancare il danaro, e la volontà. La sorte, la quale fu propizia a tante sciocchezze, e le volle eternare, non volle consentire potesse avere compimento quest’opera stupenda.
Il 3 Ottobre.
La chiesa del Redentore è opera grandiosa e bella del Palladio, e la facciata si è più pregevole di quella di San Giorgio. Per comprendere meglio quel poco che intendo esporne, sarebbe utile tenere sott’occhio il disegno di quella chiesa, il quale venne inciso le molte volte.
Palladio si era competretrato talmente dell’esistenza degli antichi, che sentiva la meschinità, la picciolezza dei suoi tempi, quasi uomo grande il quale non vi si può piegare, e che cerca per quanto gli è possibile ridurre il tutto conforme alla sublimità delle sue idee. Era malcontento, siccome ho potuto ricavare da una rapida scorsa data alle sue opere, che nella costruzione delle chiese cristiane si continuasse a mantenere la forma delle antiche basiliche, e cercò dare invece di preferenza a suoi edifici religiosi le forme dei templi antichi; ne nacquero quindi alcuni inconvenienti ch’egli riuscì ad evitare nella chiesa del Redentore, ma che mi fecero senso in quella di S. Giorgio. Volckman ne fa parola, senza però colpire precisamente nel segno. Nell’interno poi, il Redentore è pure opera pregevolissima, ed anche l’altar maggiore fu innalzato sui disegni del Palladio. Nelle nicchie dove dovevano sorgere statue, non si scorgono finora che figure scolpite in legno, e dipinte.
Il 3 Ottobre.
I cappuccini di S. Pietro ornarono uno degli altari laterali dedicato a S. Francesco. Non si scorge il marmo altrove che nei capitelli corinzi; tutto il rimanente trovasi ricoperto da una specie di ricamo, a foggia di rabeschi, eseguito per vero dire con una precisione straordinaria. Sono bellissimi sovra tutto tralci di vite che paiono d’oro, e quando mi accostai per esaminarli meglio, trovai che ero caduto in un inganno. Tutto quello che io aveva ritenuto oro, era unicamente paglia, stesa ed incollata sulla carta, con bellissimo disegno; uno scherzo eseguito probabilmente nel convento stesso, con materiale di nessun valore, e che avrebbe costato parecchie migliaia di scudi, qualora fosse stato realmente quale appariva. Sarebbe cosa facile ad imitare, qualora la si volesse.
Avevo osservato già altre volte sur una calata in prossimità dell’acqua un garzonetto, il quale narrava in dialetto veneziano storie ad un uditorio, ora più, ora meno numeroso: disgraziatamente io non potevo capirne una parola; osservai soltanto che il narratore non rideva mai, e che rideva pure di rado l’uditorio, composto tutto di popolani. Del resto il narratore nulla presentava di ridicolo nel suo aspetto, ed anzi pareva serio e composto ne’ suoi gesti, di una varietà e di una precisione meravigliosa.
Il 3 Ottobre.
Colla mia pianta in mano cercai, in un vero laberinto, la mia strada, per arrivare alla chiesa dei Mendicanti, dove trovasi il Conservatorio musicale che gode maggior favore in questo momento. Le ragazze eseguirono un oratorio dietro una grata, la chiesa era affollatissima di persone, bella musica, stupende le voci. La parte di Saulle, personaggio principale del poemetto, era sostenuta da un vecchio. Non avevo idea di una voce della natura di quella; alcuni passi della musica erano bellissimi, il testo adatto al canto, ma di una lingua mista fra il latino e l’italiano, che talvolta faceva proprio ridere, se non che la musica trova quivi largo campo a spaziare.
Sarebbe stato un piacere squisito, se un maladetto maestro di Cappella non avesse battuta la misura contro l’inferriata con un rotolo di musica, facendo altrettanto chiasso, quanto se avesse dovuto ammaestrare una squadra di esordienti, mentre invece le ragazze avevano fatte molte prove, conoscevano benissimo il pezzo, e tutto quel picchiare oltre all’essere pienamente inutile, distruggeva tutta l’impressione della musica, nè più nè meno di uno, il quale per porre in mostra i pregi di una bella statua, appicasse un cencio di colore scarlatto, ad ogni articolazione di quella. Tutto quel chiasso distruggeva ogni armonia. Pare impossibile che il maestro, essendo musico, non lo senta, e che voglia rivelare la sua presenza con quel maledetto fracasso, mentre sarebbe pur meglio cercasse far conoscere il pregio della sua musica, colla perfezione dell’esecuzione. Sapevo che regnava quest’uso in Francia, ma non credevo doverlo trovare in Italia, dove il pubblico pare esservi assuefatto. Non è l’unica volta che egli sia caduto in errore, trovando una soddisfazione in ciò che è fatto per recare invece pregiudizio.
Il 3 Ottobre.
Ieri sera sono stato al teatro S. Mosè, il quale tolse il suo nome da una vicina chiesa, ma non ne rimasi guari contento. La musica difettava di carattere, mancava ai cantanti l’anima, che sola può sollevare a perfezione tale sorta di spettacolo. Non si poteva dire però che nessuna cosa fosse propriamente cattiva, ma due donne soltanto facevano il loro possibile, se non per cantare addirittura bene, almeno per far buona figura, e per ottenere applausi. Era sempre qualcosa. Erano due giovani belle, vispe, dotate di buona voce. Gli uomini per contro avevano voci mediocri, erano freddi, e pareva che non si dessero il menomo pensiero del pubblico.
Il ballo, inferiore ancora all’opera, venne fischiato; vi era però una buona coppia danzante, e la ballerina, la quale si ritenne in dovere di esibire agli spettatori tutte le parti belle della sua persona, ottenne fragorosi applausi.
Il 3 Ottobre.
Oggi per contro assistetti ad un altra comedia, la quale mi ha molto divertito, e fu questa la trattazione nel palazzo ducale di una causa, la quale per mia buona sorte era di molta importanza, e pertanto veniva discussa, non ostante che corrano le ferie. Uno degli avvocati era tale tipo di buffo caricato, che nulla lasciava a desiderare. Aveva figura piccola, però piena, mobile, un profilo sommamente pronunciato, una voce stentorea, ed un tale impeto che sembrava muovesse propriamente dal più profondo del suo cuore tutto quanto egli diceva. Dò nome di comedia a questo spettacolo, imperocchè secondo ogni probabilità la causa è già decisa, allorquando la si disputa in pubblico. Il giudice sà di già quanto deve pronunciare, e la parte del pari sà quello a cui si deve aspettare. Ciò nulla ostante preferisco questo sistema, alla nostra procedura tutta scritta, ed a porte chiuse. Ed ora voglio tentare dare un’idea di questa, della sua naturalezza e semplicità.
In un’ampia sala del palazzo i giudici stavano seduti in semicerchio, volgendo le spalle ad una fra le pareti. Di fronte a quelli stavano gli avvocati delle due parti sur una ringhiera capace di contenere varie persone, ed immediatamente in faccia a quelli, sovra un banco stavano l’attore ed il convenuto, in persona. L’avvocato dell’attore era sceso dalla ringhiera, imperocchè la seduta d’oggi non era destinata a disputa. Si dovevano leggere tutti i documenti prò e contro, tuttochè fossero stati questi stampati già, e distribuiti.
Un attuaro magro, vestito di una toga nera ridotta a stato compassionevole, tenendo in mano un voluminoso quaderno, si apprestava a dar principio alla lettura. La sala riboccava di spettatori e di uditori, e sembrava che tanto la quistione di diritto che si discuteva, quante le persone dei litiganti, interessassero in sommo grado i Veneziani.
I fedecommessi in questo stato sono grandemente favoriti dalla legge; una possesione la quale abbia ricevuto una volta questo carattere, non lo perde più, nè per volgere di anni, nè per mutare di circostanze; ed anche dopo trascorsi vari secoli, dopo essere passata in varie mani, può in ultimo essere reclamata dai discendenti legittimi del primo fondatore.
La causa che si trattava oggi era di somma importanza, imperocchè era mossa contro il doge stesso, o per dir meglio contro la sua consorte, la quale sedeva, tutta avviluppata nel suo zendalo, sul piccolo banco, separata soltanto da breve spazio dall’attore. Era la signora dama di una certa età, di bella presenza, di fisionomia distinta, ed i suoi lineamenti rivelavano la serietà, e quasi un espressione di dolore. Faceva poi senso ai Veneziani il vedere una principessa, costretta a comparire davanti al tribunale, nel suo stesso palazzo.
L’attuaro cominciò a leggere, ed allora compresi quale fosse l’ufficio di un omicciattolo, il quale stava seduto, sopra uno sgabello, ad un piccolo tavolo di fronte ai giudici, ed a poca distanza dalla ringhiera degli avvocati, ed a qual uso specialmente servisse l’orologio a polvere, che stava rovesciato sul tavolo. In fino a tanto leggeva l’attuaro non si teneva conto del tempo, ma quando cominciavano a parlare gli avvocati, era limitata la durata di quello che loro era consentito favellare. Appena un avvocato apriva la bocca, l’omicciattolo alzava in piedi l’orologio a polvere, il quale ripigliava la sua posizione orizzontale non si tosto l’avvocato aveva finito di parlare. La grand’arte pertanto dell’avvocato, si è quella d’interrompere al momento opportuno la lettura, e di fare di volo, con poche parole, quelle osservazioni che valgono a fissare l’attenzione dei giudici. Ed allora comincia la grande occupazione dell’omicciattolo. Egli non deve mai smettere l’attenzione; ad ogni momento deve ora rialzare, ora rovesciare l’orologio a polvere, e si trova nella condizione del diavolo dei burattini, il quale non sa quale contegno osservare, in vista delle rapide e continue trasformazioni, del furbo arlecchino.
Chi sia stato presente nelle cancellerie al collazionare di documenti, si potrà formare un’idea del modo di leggere dell’attuaro, rapido, monotomo, ma però abbastanza articolato ed intelliggibile. L’abile avvocato sa interrompere la noia di quella lettura con frizzi spiritosi, con lazzi, i quali provocano l’ilarità del pubblico. E voglio fare parola di uno di quei frizzi, il più pungente di quelli che io sia riuscito a comprendere. L’attuaro stava leggendo un documento, nel quale uno dei possessori ritenuti illegittimi disponeva dei beni i quali formavano l’oggetto della contestazione. L’avvocato lo pregò di leggere adagio e chiaro; ed allorquando l’attuaro pronunciò le parole io dono, io lego, l’avvocato lo apostrofò vivamente dicendogli: «Che cosa vuoi tu donare? che cosa vuoi tu legare? povero diavolo affamato, che nulla di nulla possiedi al mondo? Se non chè, continuò l’avvocato, quasi si volesse ravvedere di quanto aveva detto, il serenissimo possessore trovavasi propriamente nel tuo caso; egli pure voleva donare, legare, quanto non gli apparteneva, di più che appartenga a te.» Uno scoppio d’ilarità risuonò per tutta la sala, e l’orologio a polvere ripigliò tutta la sua posizione orizzontale. L’attuaro ammutolì per un istante, guardò l’avvocato in cagnesco; però tutti quegli scherzi sono per lo più concertati dapprima.
Il 4 Ottobre.
Ieri sera sono stato alla comedia del teatro di S. Luca, e mi vi sono molto divertito; viddi rappresentare dalle maschere una produzione improvvisata, e con molta naturalezza, energia, e valentia. Non sono però tutti di forza uguale. Il Pantalone è bravissimo, ed una donna di corporatura complessa, di aspetto imponente, senza essere una famosa attrice recitava però bene, e sapeva stare in scena. L’argomento della produzione era strano quanto mai si possa dire, ed analogo a quella che si recita presso di noi sotto il titolo Der Verschlag, e con incidenti svariatissimi e continui; lo spettacolo durò per ben due ore. Anche qui però l’elemento principale della rappresentazione consiste al pubblico; gli spettatori s’identificano collo spettacolo, e formano un tutto complesso. L’azione si svolge di giorno, sulla piazza, sulla sponda del canale in gondola, in un palazzo; il mercante, il compratore, il mendicante, il gondoliere, le vicine, l’avvocato ed il suo avversario, tutti si muovono di continuo, sono pieni di vita, si succedono gli uni agli altri, parlano, protestano, gridano, si provocano, cantano, giuocano, scagliano imprecazioni, fanno chiasso. Ed alla sera vanno in teatro, vedono e sentono la loro vita di ogni giorno rappresentata al vero, innestata in una favola che le maschere recitano con una evidenza, con una verità inarrivabile. E tutti vi si divertono, quasi fossero altrettanti ragazzi, e ricominciano di bel nuovo a gridare, a far chiasso, ad applaudire. Da mattina a sera, anzi da una mezzanotte altra, lo spettacolo è sempre lo stesso.
Non ho mai veduto recitare con tanta naturalezza, quanto da queste maschere, e per raggiungere quella perfezione, non bastano le disposizioni naturali le più felici, è d’uopo ancora di una lunga pratica.
Mentre io stò scrivendo queste parole, tuttochè sia battuta già la mezza notte, sento tuttora un grande chiasso nel canale sotto la mia finestra. Sia che si disputino, sia che si trovino d’accordo, fanno sempre romore.
Il 4 Ottobre.
Oramai ho udite tutte le varietà di oratori pubblici, tre giovani i quali narravano ognuno a modo loro storie sulle piazze o sulle rive del canale, due avvocati, due predicatori, finalmente gli attori, e fra questi devo fare menzione particolare del Pantalone; tutti poi avevano in certo modo carattere identico, sia perchè appartengono ad una stessa nazione, sia perchè vivendo sempre in pubblico, parlano di continuo con impeto, con vivacità; sia ancora perchè cercano imitarsi a vicenda. Ed alle parole aggiungono di continuo il gesto, col quale cercano spiegarsi e dare maggior forza ai loro pensieri, alle loro idee, ai loro sentimenti.
Oggi, giorno di festa di S. Francesco, mi portai nella chiesa dedicata a questi, alle Vigne. La voce del cappuccino il quale vi predicava, era accompagnata, quasi fosse un antifona, dal grido dei merciaiuoli per istrada; io stavo sulla porta della chiesa fra questi e quello, ed erano curiosi tutti ad udire.
Il 5 Ottobre.
Questa mane per tempo sono stato all’arsenale, e tuttochè io non m’intenda di marina, lo visitai però con piacere, e si può dire presenti l’aspetto di una antica famiglia distinta, la quale ispira tuttora riverenza, benchè siano scomparsi i tempi del suo splendore. Nel percorrere i laboratori, e gli opifizi viddi parecchie cose meritevoli di osservazione, e salii a bordo di una nave di ottantaquattro cannoni che si stava costruendo, e che si trovava di già portata a buon punto.
Sulla riva degli Schiavoni se ne vede un altra bruciata sino a fior d’acqua, da ben sei mesi: scoppiò la stanza dove si custodiscono le polveri, recando gravi danni, e frantumando particolarmente tutti i vetri delle case vicine.
Vidi lavorare nell’arsenale quercie stupende, provenienti dall’Istria, la qual cosa mi portò a pensare al modo con cui cresce quest’albero preziosissimo. Non potrei dire abbastanza quanto mi giovino le cognizioni di storia naturale che ho acquistato con molta fatica a spiegarmi il metodo di lavoro degli artisti e degli operai, nell’impiego di quei prodotti naturali che servono all’uomo quali materiali; e così pure la conoscenza dei monti, e dei sassi che da questi si estraggono, mi ha fatto fare un grande progresso nell’arte.
Il 5 Ottobre.
Per darvi con una parola sola un’idea del Bucintoro, vi dirò essere questo una galera di parata, e l’antico, del quale sussistono tuttora i disegni, giustifica questa denominazione meglio dell’attuale, in cui, sotto la profusione degli ornati, scompare la forma primitiva.
Torno sempre al mio principio. Allorquando si dà ad un artista un tema, un argomento pregevole, potrà in allora produrre sempre opera parimenti pregevole. In questo caso si era dato incarico all’artista di costruire una galera, degna di portare il capo della repubblica, nel giorno solenne destinato a fare testimonianza della sovranità sul mare, e quell’incarico venne disimpegnato in modo stupendo. Quel legno è tutto ornamenti; non si potrebbe neanco dire che sia sopracarico di ornamenti, è tutto sculture, dorature, improprio a qualsiasi uso pratico, fatto unicamente, per mostra, per presentare al popolo il suo capo, nel modo il più splendido. Apprendiamo da questo fatto che questo popolo, nella stessa guisa che si compiace nell’ornare i suoi cappelli, vuole vedere ornati pure e brillanti i suoi capi. Questo legno di parata si può dire presentare un vero inventario di quanto erano, e ritenevano essere, i Veneziani.
Il 5 Ottobre; nella notte.
Ritorno or ora ridendo dalla tragedia, e non posso a meno di consegnare alla carta questa mia allegria. Il dramma per dir vero non era cattivo; l’autore aveva radunati tutti i personaggi tragici, e gli attori non recitavano male. Le situazioni per la massima parte erano conosciute, alcune però nuove, e per dir vero felici. Due padri che si odiavano; figliuoli e figliuole delle due famiglie rivali, innamorati perdutamente gli uni delle altre, ed anzi due uniti già secretamente in matrimonio. Le morti tennero dietro le une alle altre, e per fare felice la giovane coppia non mancava più altro, se non che i due padri si uccidessero dessi pure alla lor volta; così fu fatto, e calò il sipario. Cominciarono allora gli applausi, e si gridò a squarciagola fuori! fuori! finchè i due sposi, sollevato il sipario, comparvero sulla scena, e traversandola a furia inchini, rientrarono nelle quinte dalla parte opposta.
Ma il pubblico non era ancora soddisfatto; continuò ad applaudire, a gridare fuori i morti! finchè i due padri comparvero alla loro volta sulla scena, facendovi dessi pure i loro inchini, ed allora alcuni presero a gridare bravi i morti! e questi furono a lungo trattenuti sulla scena dagli applausi, finchè poi loro si permise di ritirarsi. Questo scherzo divertì il pubblico in modo incredibile, e risuonano tuttora al mio orecchio i Bravo! Bravi! che gli Italiani hanno ad ogni momento sulle labbra, e che questa sera valsero ad evocare dalla loro tomba i morti.
Buona notte! Così possiamo dire noi, abitatori delle contrade settentrionali, ad ogni ora quando ci separiamo nelle tenebre. L’Italiano invece non dice Felicissima notte! che una volta sola, quando cioè si reca il lume nella stanza, quando difatti finisce il giorno, e comincia la notte, che sono cose affatto distinte l’una dall’altra. Sarebbe intraducibile l’espressione caratteristica di queste parole; imperocchè le parole, dalle più sublimi alle più volgari, riproducono le particolarità delle nazioni nella loro indole, nei loro sensi, nelle loro abitudini.
Il 6 Ottobre.
Dalla tragedia di ieri sera ho pure imparato qualcosa. Ho udito in primo luogo in qual modo gl’Italiani pronuncino e declamino i loro versi endecassilabi; quindi ho capito con quanta avvedutezza il Gozzi mescolasse le maschere alle figure tragiche. È questa la forma di spettacolo più adatto a questo popolo, il quale vuole essere commosso in modo aspro, non prende parte intima, sensibile alle disgrazie, e gode unicamente allorquando l’eroe parla bene; imperocchè pone molta importanza al discorso, ma intanto vuole pure ridere, e si compiace di qualche schiocchezza.
Nello spettacolo prende parte unicamente alla rappresentazione della realtà. Allora quando il tiranno porse al suo figliuolo la spada, richiedendolo di uccidere la propria consorte, la quale gli stava di fronte, il popolo cominciò a manifestare la sua disapprovazione in nodo clamoroso, e poco mancò che la rappresentazione non potesse proseguire più oltre. Richiedevano che il vecchio ritirasse la sua spada, e con ciò l’azione non avrebbe potuto avere il suo sviluppo. Finalmente il figliuolo minacciato, prese una risoluzione; si avanzò sulla scena in atto di preghiera, domandando al pubblico di usare pazienza per poco, assicurando che il tutto sarebbe finito a seconda de’ suoi desideri. Quella situazione, tuttochè preparata con arte, era assurda, contro natura; ed io non potei a meno di approvare il senso retto del popolo.
Ora io comprendo meglio i lunghi discorsi, e le frequenti dissertazioni pro e contro la tragedia greca. Gli Ateniesi vi prestavano orecchio più volontieri ancora che gli Italiani, e le comprendevano meglio ancora di questi, assuefatti quali erano ad assistere tutti i giorni, alle discussioni dei tribunali.
Il 6 Ottobre.
Nelle opere del Palladio, e specialmente nelle chiese, ho rilevato parecchi difetti, allato a molti pregi. Mentre io stava pensando fino a qual punto io potessi avere ragione o torto, nel giudicare uomo di tanto valore, mi parve mi stesse egli al fianco e mi dicesse: «ho fatto la tale e la tal cosa contro la mia volontà; però l’ho fatta, perchè nelle condizioni in cui mi trovavo quello si era l’unico mezzo che mi fosse dato, per potere esprimere le mie idee.»
Mi parve, per quanto io valgo a comprenderlo, che nel considerare l’altezza e la larghezza di una chiesa già esistente, di una antica casa a cui dovesse dare una facciata, egli si debba essere proposta la soluzione di questo problema; in qual modo potrò dare a quest’area la forma la più imponente? Nei particolari sarà forza ammettere alcun che di irregolare, di scorretto, vi saranno quà e là alcuni difetti, ma il complesso sarà grandioso, e porgerà bello aspetto.
E per tal guisa riprodusse i pensieri sublimi che aveva nell’animo, tuttochè non abbia sempre potuto fare tutto quanto avrebbe voluto, e lascino talvolta le sue opere a desiderare, nei particolari.
Il convento della Carità pertanto, deve essere tenuto in tanto maggior pregio, dacchè il maestro aveva ivi campo libero, e poteva dar corso senza intoppi al suo genio. Se quell’edificio avesse avuto suo compimento, non vi sarebbe forse opera architettonica più perfetta, nei tempi moderni.
Comprendo ognora più le sue idee, a misura leggo le sue opere, e scorgo in qual modo avesse egli studiati gli antichi; scrive poco, ma ogni sua parola ha il suo peso. Il suo quarto libro, il quale tratta dei templi antichi, si deve dire una vera introduzione al retto studio dei monumenti dell’antichità.
Il 6 Ottobre.
Ieri sera assistetti nel teatro di S. Crisostomo, alla rappresentazione dell’Elettra di Crèbillon, tradotta ben inteso in italiano, e non potrei dire a qual punto mi sia spiaciuta quella tragedia, e quanto orribilmente io mi vi sia annoiato.
Gli attori erano però buoni, recitavano con molta intelligenza, ed in una scena sola, Oreste declamò ben tre narrazioni poetiche. Elettra, donnetta graziosa, di mezzana statura, di una vivacità tutta francese, di contegno decente, declamava i versi a dovere, se non che sbagliò pur troppo dal principio alla fine, il senso della sua parte. Intanto ho avuta occasione di persuadermi, che gli endecasillabi italiani non sono guari addatti alla declamazione, imperocchè l’ultima sillaba, in generale breve, non ostante la valentia dell’attore, ferisce l’orecchio di chi l’ascolta.
Il 6 Ottobre.
Questa mane di buon ora mi sono recato alla funzione a cui assiste tutti gli anni in questo giorno, nella chiesa di S. Giustina, il doge, in memoria di una vittoria riportata anticamente sui Turchi. Allorquando giunsero davanti alla piccola piazza le barche dorate, le quali portavano il principe, e buona parte della nobiltà, ornate tutte di drappi, e mosse da remi dipinti in rosso, allorquando sbarcarono il clero e le confraternite, con lanterne d’argento, fissate in cima a lunghe aste, attraversando il ponte ricoperto di tappeti, che dal canale dava accesso alla terraferma, e che si videro strisciare sul suolo le code, prima delle toghe di colore violaceo dei Savi, quindi di quelle rosse dei senatori, e finalmente il doge, col berretto frigio in oro, con veste talare parimenti di tela d’oro, col manto d’armellino, di cui tre domestici sorreggevano la coda, e che si viddero sulla piccola piazza, davanti alla chiesa le bandiere tolte ai Turchi, avrei detto di avere sott’occhio un tappeto antico di stupendo disegno, e di vivace colorito. Viaggiatore delle contrade settentrionali, provai grandissimo piacere a quello spettacolo tutto nuovo. Presso noi, dove tutti assistono alle feste col loro modo di vestire abituale, dove nelle maggiori si vedono sempre anzitutto soldati collo schioppo in ispalla, tutta quella pompa, tutto quello sfarzo, sarebbero stati per avventura fuor di luogo; ma qui, tutte quelle toghe, tutte quelle code, tutto quel corteggio solenne, erano al loro posto.
Il doge è uomo di bell’aspetto, inoltrato già negli anni, ed il quale per quanto possa essere affranto dalla vecchiaia in contemplazione della dignità di cui è rivestito, cammina ritto tuttora della persona, ad onta delle sue vesti di grave peso. Del resto pare il patriarca di questa stirpe numerosa, ed ha l’aspetto sommamente buono ed affabile; il suo costume gli stà benissimo, ed il cappuccio sottoposto al berrettone non lo pregiudica punto, essendo finissimo e trasparente, cosicchè punto non nasconde la canizie del vecchio venerando.
Accompagnavano il doge cinquanta nobili all’incirca, i quali vestivano la toga a coda di colore chermisino; begli uomini in generale, nessuno di aspetto meschino, molti di alta statura, con teste voluminose le quali facevano buona figura sotto le loro ampie parrucche bionde ricciute; tutte quelle fisionomie ripiene, di carni molli, bianchissime, liscie, di aspetto pacato, rivelavano la soddisfazione di essere al mondo, e di trovarvisi bene.
Allorquando tutto il corteggio solenne, ebbe preso posto nella chiesa, e si diede principio alla funzione, i membri delle confraternite entrarono processionalmente due a due per la porta maggiore nella chiesa, uscendone per una porta laterale a destra, dopo avere presa l’acqua benedetta, e dopo avere fatto una genuflessione davanti all’altare maggiore, ed un saluto al doge, ed ai nobili.
Il 6 Ottobre.
Questa sera ho assistito al famoso concerto de’ gondolieri, i quali cantano sulle loro proprie melodie, i versi del Tasso e dell’Ariosto. Conviene per dir vero ordinare questo trattenimento, non essendo desso abituale, ed appartenendo piuttosto alle tradizioni, oramai scomparse, del buon tempo antico. Spuntata la luna, salii in una gondola la quale portava un cantore a prora, un altro a poppa, e cominciarono il loro canto, alternandosi ad ogni verso. La melodia che Rousseau ha resa volgare, ritiene del corale, e del recitativo; mantiene sempre lo stesso ritmo, e non ha misura, le modulazioni sono pure sempre le stesse, e le mutano unicamente, quasi una specie di declamazione, sia nel tuono che nella misura, secondo il significato del verso, ed è facile formarsi un’idea dell’effetto che ne risulta.
Non voglio ricercare in qual modo sia sorta questa melodia, ma la si deve pure dire adattissima a persone di poca coltura, le quali abbiano disposizione per la musica, e vogliono subordinare a quella, il canto di poesie che sanno a memoria.
Talvolta un cantore, dotato di voce estesa, qualità questa la quale è tenuta dal popolo in maggior pregio, se ne stà sulla sua barca presso la sponda di un’isola o di un canale, ed intuona la sua canzone con quanta più energia vi può dare. La voce corre sul mare, nel silenzio della notte; la sente un altro in lontananza, il quale conosce la melodia, e che comprende le parole, e risponde col verso che segue; ripiglia il canto il primo e così di seguito, in guisa che l’uno è sempre l’eco dell’altro. Il canto dura talvolta tutta quanta la notte, senza parere che i cantori provino stanchezza, e quanto è maggiore la distanza fra i due, tanto migliore riesce l’effetto, sovratutto se chi ascolta si trova nel mezzo.
Per farmelo provare, i miei due cantori scesero dalla gondola alla Giudecca, e presero posto l’uno di fronte all’altro sulle sponde del canale, dove io andai su e giù, allontanandomi sempre da quello il quale doveva cominciare a cantare, ed accostandomi a quello il quale aveva allora finito. Ed allora potei provare per la prima volta l’armonia, il carattere di quel canto, il quale udito in lontananza è propriamente sorprendente, quasi un lamento senz’impronta di mestizia; parrà incredibile, ma in certi momenti, commuove al punto di far sgorgare le lagrime. Io attribuiva quell’effetto a disposizione particolare del mio animo, se non che un buon vecchio il quale stava meco, mi disse: «È singolare come quel canto intenerisce, e molto più quanto più è ben cantato!» Egli desiderava che io avessi potuto udire le donne del Lido, quelle di Malamocco specialmente e di Palestrina, le quali cantano desse pure i versi del Tasso sulla stessa melodia e sopra altre di carattere analogo. Mi soggiunse che quelle donne, allorquando i loro mariti trovansi a pescare in mare sogliono prendere posto sulla spiaggia, ed ivi, alla sera, intuonano quelle loro melodie ad alta voce, in fino a tanto che i loro uomini d’in alto mare loro rispondano, trattenendosi per tal guisa con questi. Non è questo, particolare commovente? Però si comprende facilmente che un estraneo non potrebbe provare grande soddisfazione ad ascoltare quelle voci, le quali debbono lottare contro il romore delle onde del mare; ma però se non si comprendono le parole, si sente la melodia di questo canto di una persona solitaria, la quale mira a farsi udire ed ottenere risposta da altra, la quale si trova a notevole distanza.
L’8 ottobre.
Quest’oggi mi sono portato al palazzo Pisani Moretta, per vedervi uno stupendo quadro di Paolo Veronese. Vi si scorgono le donne della famiglia di Dario, inginocchiate davanti ad Alessandro ed Efestione; la madre s’inchina davanti quest’ultimo, scambiandolo per il re, ed egli le accenna di volgersi alla destra. Si narra, non saprei con quanta verità, che l’artista avesse ricevuto benevola accoglienza dalla famiglia Pisani, trattenendosi a lungo presso quella, e che per gratitudine avesse dipinto in segreto quel quadro, lasciandolo nel partire arrotolato sotto il letto. Merita del resto il dipinto di avere un’origine straordinaria, imperocchè è fatto propriamente, per dare idea della valentia di quel grande maestro. Rivela questo tutta la grand’arte del pittore, di dare alle sue opere un aspetto armonico, senza ricorrere ad una tinta monocrona, ma col sapere fondere colle ombre e colla luce i colori; questa tela poi, trovasi in ottimo stato di conservazione; pare sia uscita ieri dallo studio del pittore, ed opere di quel genere non recano più soddisfazione quando hanno sofferto per l’azione del tempo od altrimenti, tuttochè non si sia in grado di spiegarne precisamente il motivo.
Chi volesse poi giustificare il pittore, per il costume dei suoi personaggi, non troverebbe altro a dire, se non che ha voluto quegli rappresentare un fatto del secolo XVI. Ogni altro tentativo di spiegazione, sarebbe vano. La varietà di fisionomie e di aspetto, fra la madre, la consorte e la figliuola di Dario, è pienamente conforme al vero e felicissima; la giovane principessa, inginocchiata dietro le altre due donne, è una ragazza graziosissima, con una figura fina, espressiva, non scevra neppure di una certa alterigia; si direbbe che si trova poco soddisfatta davvero, della sua posizione.
L’8 Ottobre.
La mia antica dote caratteristica di contemplare le cose, coll’occhio del pittore le cui opere mi fanno impressione, mi ha condotto a fare una riflessione. È chiaro che l’occhio si forma a norma degli oggetti che si hanno in vista da giovani, e convien dire che i pittori veneziani vedessero le cose sotto un aspetto più limpido, più sereno, che gli altri uomini. Noi che siamo vissuti per lo più in una contrada ora fangosa, ora polverosa, senza colorito, di aspetto cupo, e rinchiusi inoltre spesse volte in appartamenti ristretti, non ci possiamo formare idea di quelle tinte calde, brillanti.
Allorquando io vo vagando per la laguna, alla luce di uno splendido sole, e che contemplo i miei gondolieri curvarsi sul remo, ed emergere, vestiti di colori vivaci, dal verde del mare nell’azzurro dell’atmosfera, posso dire di avere propriamente sott’occhio un dipinto della scuola veneziana. La luce del sole fa brillare i colori; le onde sono così leggiere, che si direbbe potere queste alla loro volta fare le parti di luce. E la stessa cosa si può dire della tinta del mare; tutto è chiaro, limpido, trasparente, sia l’onda spumante, siano gli sprazzi di luce, fra cui io occupo un punto impercettibile.
Tiziano e Paolo Veronese possedevano in sommo grado questa chiarezza, questa limpidezza di tinte, e quando fa difetto ai loro quadri, si può ritenere con certezza, che questi ebbero a soffrire, ovvero che furono ristaurati.
Le cupole, le volte, non che le pareti laterali della chiesa di S. Marco, sono tutte rivestite di figure, di ornati a colori su fondo in oro; e cotali lavori sono gli uni propriamente buoni, gli altri di minore pregio, a seconda della maggiore o minore valentia dei maestri i quali ne disegnarono i cartoni.
Mi fece piacere lo scorgere che tutti quei mosaici conservano il loro carattere primitivo, e che sono tutti, tanto i buoni quanto i cattivi, formati ugualmente con piccoli cubi di vetro. L’arte alla quale andarono debitori gli antichi dei loro pavimenti, i Cristiani delle volte delle loro chiese, si è ridotta ora miseramente a fabbricare braccialetti, e tabacchiere. Corrono tempi peggiori, di quanto in generale si ritenga.
L’8 Ottobre.
Nel palazzo Farsetti esiste una collezione preziosa, di copie in gesso delle migliori statue antiche. Non farò menzione di quella che trovansi a Manheim e di altre che sono oramai conosciute da tutti; accennerò soltanto quelle che trovai nuove. Una Cleopatra colossale, la quale si addormenta nel sonno della morte coll’aspide arrotolato attorno al braccio; una Niobe, la quale cerca far riparo col suo manto alla più giovane fra le sue figliuole, contro le freccie di Apollo; un gladiatore, un genio alato in atto di riposo; finalmente statue di filosofi, ritti in piedi, e seduti.
Sono opere tutte, le quali potranno recare soddisfazione in ogni tempo, e dare a pensare a lungo, sul merito dei loro autori.
Molti busti poi mi hanno riportato addirittura nei tempi antichi, e solo mi duole l’essere così poco versato in quella parte; se non che, spero farvi progressi, ora che conosco la strada.
Palladio me l’ha additata, e mi ha aperti gli occhi allo studio dell’antichità, e dell’arte antica. La cosa vi parrà per avventura alquanto strana, ma non sarò mai tanto paradossale quanto Jacopo Bohmen, quando pretendeva avere compreso nel contemplare un piatto di stagno, l’irradiazione di Giove sull’universo. Trovasi pure in quella collezione un pezzo del cornicione del tempio di Antonio e di Faustina a Roma; e questo stupendo pezzo di architettura mi ricordò i capitelli del Panteon di Manhein. Non è più quistione dei santi della nostra architettura gotica, i quali sorgono sopra mensoline, nè delle nostre colonnine, che paiono tubi di pipe da tabacco, nè di quelle guglie sottili, le quali terminano in un fiore! Di tutta quella robaccia, grazie a Dio, sono libero per ora.
Voglio ricordare ancora qui alcune opere di scultura che ho viste in questi giorni, e che mi hanno fatta impressione, tuttochè io le abbia contemplate di passaggio, ed alla sfuggita; sono i due grossi leoni in marmo bianco, i quali stanno sulla porta dell’arsenale, l’uno nell’atto di dormire, l’altro seduto, appoggiato sulle zampe anteriori; contrasti stupendi della varietà della vita. Sono di tal grandezza, che impiccioliscono tutto quanto sta loro vicino, e che l’uomo stesso si sentirebbe annientato alla loro presenza, se non valesse a rialzarlo la contemplazione di oggetti sublimi. Sono per certo quei due leoni lavoro dei tempi migliori della scultura greca, e vennero portati a Venezia dal Pireo, nell’epoca più splendida della repubblica.
Sono probabilmente pure di origine greca due bassi rilievi, che si scorgono incastrati nel muro nella chiesa di S. Giustina, la vincitrice dei Turchi, ma che disgraziatamente trovansi in certo modo privi di luce dagli stalli della chiesa. Il sagrestano me li fece osservare, perchè la tradizione narra abbia il Tiziano tolti da quelli le forme degli angioli d’inarrivabile bellezza, che si scorgono nel suo quadro del martirio di S. Pietro. Nel basso rilievo sono genii, i quali portano gli attributi delle varie divinità, e per dir vero di una tal bellezza, da non potersi imaginare l’uguale.
Contemplai del pari con molto piacere nella corte di non so più quale palazzo, una statua colossale di Marco Agrippa nudo; ed un Delfino che gli stà allato, pare volere alludere ad una vittoria di mare. Quanto non rende poi un semplice mortale simile agli Dei, quella rappresentazione in attitudine eroica!
Viddi pure in vicinanza i cavalli che stanno sulla facciata della chiesa di S. Marco. Dal basso sulla piazza non si scorge che sono macchiati, parte di un bellissimo colore di metallo dorato, parte di colore verde di rame. Esaminandoli con attenzione, si scorge che anticamente erano indorati per intiero, e si vedono tuttora le graffiature fatte sui corpi loro dai barbari, per trarre l’oro dalla superficie. Meno male che le forme rimasero illese.
Sono pure una stupenda quadriglia di cavalli, e mi piacerebbe udire il giudizio al riguardo di persona versata nelle cognizioni ippiche. La cosa che mi ha colpito maggiormente, si fù che stando a loro vicini sembrano pesanti, mentre visti dal basso, sulla piazza, appaiono svelti, leggieri come capre!
L’8 Ottobre.
Mi recai stamane per tempo colla mia guida sul lido, quella lingua di terra la quale chiude la laguna, e che la separa dal mare. Scesi dalla gondola, attraversammo diagonalmente quella striscia di terreno. Udivo un forte rumore; era il mare, e non tardai guari a vederlo che si frangeva contro la sponda, nell’atto di ritirarsi però da quella, essendo l’ora in cui si ritirava la marea. Era pertanto il mare che io vedevo in quel momento, e lo potevo seguire sulla spiaggia, che mano mano si veniva scoprendo; avrei voluto si trovassero colà i nostri ragazzi, per farvi raccolta di conchiglie; feci io pure da ragazzo, scegliendone alcune, e mi potei persuadere della tinta nera che danno le seppie, le quali si trovano in abbondanza su quella spiaggia.
Stando sul lido, a poca distanza dal mare i due cimiteri degl’Inglesi e degli Ebrei, ai quali non si consente sepoltura nella terra benedetta del campisanto, destinato alla generalità della popolazione. Vidi colà la tomba del bravo console Smith, e della sua consorte; sono debitore al primo dell’edizione del Palladio, e glie ne manifestai la mia gratitudine, sulla sua sepoltura appartata.
E non è questa appartata soltanto, ma oramai ricoperta dalle sabbie, che i venti trasportano su quella lingua di terreno, la quale si allarga e si rialza di continuo, e fra poco quella tomba rimarrà totalmente sepolta.
E pure stupenda e grandiosa la vista del mare. Voglio vedere se potrò spingermi alquanto in quello in una barca, che le gondole non vi si arrischiano.
L’8 Ottobre.
Sulla sponda del mare ho raccolte pure alcune piante, e le similitudini delle loro forme mi facevano riconoscere le loro qualità; se non che sono tutte smilze, sottili, succulenti, viscose, ed è manifesto che il sale contenuto nel suolo, e più ancora l’aria impregnata tutta di sale, loro dà quelle qualità; sono ricche di sughi al pari delle piante acquatiche, ma ad un tempo sottili, smilze, come le piante di montagna, e quando le loro foglie sono di forma accuminata, come per esempio i cardi, sono fatte a punta, lunga, fina e molto dura. Trovai un cespuglio, le cui piante erano simili al nostro innocente farfaro, ma le foglie erano armate di punte, tenaci quanto il cuoio, ed i fusti più forti. Ne porto meco semi, ed alcune foglie (Erynginum maritimmum).
Vado spesso sul mercato dei pesci, dove se ne vedono di tutte le qualità; e mi compiaccio molto nell’esaminare colà la varietà dei prodotti del mare.
Il 9 Ottobre.
Giornata stupenda, dal mattino a sera. Sono stato a Palestrina, più in di là di Chioggia, dove esistono quelle costruzioni grandiose denominate murazzi, che la repubblica ha fatto innalzare a difesa contro il mare. Sono fabbricati in pietra, e destinati propriamente a proteggere contro gli assalti dell’elemento distruttore, quella striscia stretta di terreno, denominata il Lido, la quale separa il mare dalla laguna.
Le lagune sono prodotto della natura, da tempi remotissimi. Contrastarono dapprima la terra, l’acqua, e la marea; quindi ritirandosi a poco a poco le acque primitive, si venne formando all’estremità superiore del mare adriatico una vasta palude, la quale talvolta sommersa, venne in parte abbandonata dalla marea. I punti più elevati furono occupati, rafforzati coll’arte, e per tal guisa sorse Venezia, formata di un complesso di cento isole, e circondata di cento altre.
Contemporaneamente si scavarono con immensi lavori, e grandissima spesa canali profondi in quella regione paludosa, in guisa da potere, anche nel tempo della bassa marea, portare i legni da guerra ne’ punti principali di approdo, ed ora è d’uopo mantenere con prudenza, e con assidua cura aperte quelle vie di comunicazione, che la scienza e la tenacità di volere formarono, nei tempi antichi. Il Lido, quella striscia di terra lunga e sottile, la quale, siccome già notai, separa le lagune dal mare, dà accesso a questo in due punti soltanto, vale a dire presso il castello, ed all’estremità opposta verso Chioggia. La marea porta regolarmente, due volte al giorno, nella laguna le acque del mare, le quali si ritirano, seguendo sempre la stessa direzione; e quando queste sono alte, si coprono tutte le parti basse, dalle quali emergono se non asciutti, però non inondati, i punti più elevati.
Ben altra cosa sarebbe, se il mare si aprisse nuove vie, se danneggiasse il lido, se entrasse nella laguna ed uscisse da quella a suo capriccio. Non solo sarebbero rovinati i villaggi, che sorgono sul Lido, Palestrina, S. Pietro, ed altri; ma verrebbero ancora interrati i canali di comunicazione aperti con tanta fatica e con tanta spesa, e sarebbe trasformata del tutto la topografia del lido, e delle isole protette da quello. Ad impedire questa catastrofe, è d’uopo proteggere, salvare il Lido, acciò il mare non tolga agli uomini il possesso, di quanto seppero acquistare e ridurre ai loro usi.
Nei casi sovratutto, in cui il mare è grossissimo, importa provvedere a che continui entrare nella laguna per due punti soltanto, perchè per tal modo resta rotta la sua forza, e dopo poche ore, seguendo le leggi fisse della marea, le acque si ritirano.
Venezia non ha altro a temere, se non chè, la lentezza colla quale il mare si ritira, le assicura secoli di durata, e provvedendo accuratamente ai canali, si manterranno aperte le comunicazioni coll’Adriatico.
Sarebbe d’uopo soltanto, che gli abitanti mantenessero la loro città più pulita, cosa altrettanto facile quanto necessaria, e che può eziandio avere grandi conseguenze per l’avvenire. Ora è vietato bensì, sotto gravi pene d’ingombrare i canali interni con materiali, di gettare in quelli le spazzature; ma non si può impedire che un aquazzone improvviso, trasporti d’un tratto nei canali appunto, le immondizie che stanno ammonticchiate ad ogni angolo, e peggio ancora che chiudano queste i canali sotterranei, destinati a dare corso alle acque piovane, ponendo le piazze e le strade in pericolo di rimanere allagate. Ho visti io chiusi dalle immondizie, e con acque stagnanti, canali destinati opportunamente a dare sfogo alle acque piovane, della piazza di S. Marco.
Allorquando scoppia un temporale, si cammina nel fango; tutti gridano, bestemmiano, si sporcano nel salire e nello scendere dei ponticelli, i mantelli, i tabarri che si portano qui tutto l’anno; e tutta quella mota ricade sulle scarpe, sulle calze, che la è una vera disperazione. Se non chè, appena ricompare il sole, nessuno più pensa a quegl’inconvenienti. Tanto è vero che il pubblico, il quale si lagna sempre d’essere mal servito, non sà provvedere a farsi servire meglio; ma qui dove è sovrano, vi si dovrebbe almeno provare.
Il 9 Ottobre.
Questa sera sono salito di bel nuovo sulla torre di San Marco, imperocchè avendo vista di là la laguna nella sua splendidezza al momento della marea alta, la volevo contemplare pure nella sua povertà, durante la marea bassa. È necessario vedere i due quadri, per potersi formare un idea precisa della località; e difatti, produce un certo senso il vedere terra, dovunque dove prima si era vista acqua. Le isole non sono più isole, ma bensì terreni coltivati, che sorgono in un’ampia palude di tinta verdastra, fra mezzo a moltiplici canali. Tutta quella vasta palude, è coperta di piante acquatiche, le quali alla lunga devono desse pure contribuire a rialzare il suolo, tuttochè continuamente smosse e disturbate dal flusso e riflusso, i quali non danno tregua alla vegetazione.
Voglio ancora una volta far parola del mare; colà io viddi oggi per la prima volta l’abitazione delle lumache di mare, delle patelle, delle aragoste. Quale stupenda cosa non sono però gli esseri animati? Come ogni loro parte corrisponde alle condizioni della loro esistenza! Quanto non mi giova in oggi quel poco studio che ho fatto della storia naturale, e quanto godo nel poterlo continuare! Però conviene che io mandi a miei amici qualcosa di più positivo, che semplici esclamazioni.
I murazzi a difesa del mare presentano prima alla base alcuni gradini, alti e ripidi; quindi una superficie verticale leggermente inclinata; poi di nuovo un gradino, ed una superficie verticale leggermente inclinata, finalmente un tratto di muro affatto verticale, che termina con una sporgenza verso il mare. Ordinariamente la marea alta copre i gradini, i piani inclinati, e nei casi straordinari si frange sul tratto di muro verticale, e sulla sporgenza di quello.
Il mare porta seco i suoi abitatori, piccole lumache le quali si possono mangiare, patelle univalve, e sovratutto poi gamberi, se non che appena hanno questi animali preso possesso della superficie scabra dei muri, le acque del mare nell’abbassarsi riprendono, e riportano seco. Da principio tutte quelle bestioline non sanno di che cosa si tratti; credono sempre che le acque salse ritorneranno; ma queste più non si alzano, il sole è ardente, i muri non tardano ad asciugare; è tempo di pensare alla ritirata. Ed i gamberi si valgono di quel momento, per fare la loro preda. Non si può vedere cosa più curiosa, e più comica ad un tempo, che i movimenti di questi animali, formati di un capo rotondo e di due lunghe tanaglie, imperocchè le loro zampe, nascoste dal capo, non si vedono. Tostochè scorgono una patella, si avvanzano verso quella; l’afferrano colle loro tanaglie, e la capovolgono sul suolo per divorarsela. Se non chè, talvolta la patella, quando vede accostarsi il nemico si ferma, e si attacca al suolo con quanto ha di forza, ed allora il gambero le gira attorno, la tenta da tutti i lati; fa tutto il suo possibile per capovolgerla; ma ad onta sia di tanto più forte, non riesce a staccare quell’animaluccio dal suolo; rinuncia a quella preda, volge ad un altra, e la prima, liberata dal pericolo, cerca scampo nella fuga. Per quanto io abbia osservato attentamente parecchi di questi duelli, non ne ho visto neppur uno, nel quale il gambero abbia riportata la vittoria.
Il 10 Ottobre.
Quest’oggi finalmente, posso dire di avere udita una buona e bella comedia! Nel teatro di S. Luca, si recitavano le Baruffe Chiozzotte, titolo che volendolo tradurre alla lettera suonerebbe, le dispute e le picchiate di Chioggia. I personaggi sono tutti marinai abitanti di Chioggia, le loro mogli, sorelle, e figliuole. L’abitudine di tutta quella gente di schiamazzare sempre, nell’allegria come nel dolore; il loro contegno, la loro vivacità, la loro bontà d’animo, i loro modi volgari, i loro frizzi, i loro capricci, sono riprodotti con inarrivabile spontanietà. La comedia è ancora una di quelle del Goldoni, ed essendo stato io ieri appunto in quel paese, cosicchè mi risuonavano tuttora all’orecchio le voci, mi stavano tutt’ora davanti agli occhi i modi di quei marinari, quelle scene mi divertirono moltissimo, e quantunque io non potessi comprendere tutti i particolari, riuscii però a seguire lo svolgimento dell’azione. L’argomento della comedia è il seguente; le donne di Chioggia stanno sedute sulla strada, davanti alle loro case, filando, cucendo, ricamando, cicaleggiando, facendo chiasso, siccome è loro costume; passa un giovane, il quale saluta una di quelle donne più cortesemente delle altre, e di là comincia la disputa, la quale tosto si anima, cresce, non ha più freno, trascende ai rimproveri, alle ingiurie; ognuna cerca soperchiare le altre; una vicina, più viva delle altre, scende alle accuse; ne nasce un chiasso, un parapiglia indescrivibile; si finiscono per menare le mani, in guisa che vi si deve mescolare la giustizia.
Nel secondo atto la scena ha luogo nel tribunale; l’attuaro, che fa le veci del podestà assente, il quale nella sua qualità di nobile non avrebbe potuto essere portato sul teatro, interroga le donne una ad una, e la cosa si complica; imperocchè, essendo desso innamorato della prima attrice, trovasi tutto lieto di avere occasione di trattenersi seco lei da solo a solo, ed a vece d’interrogarla, le fa una dichiarazione. Un altra donna la quale è innamorata dell’attuaro, si precipita nella sala, furente per la gelosia; l’innamorato della prima donna, irritatissimo a sua volta, ne fa altrettanto, entrano pure gli altri, seguono nuove ingiurie, nuovi rimproveri, ed il chiasso ricomincia nel tempio della giustizia, uguale a quello di poco prima sulla strada.
Nell’atto terzo l’azione si complica sempre più, ma poi ha scioglimento pronto necessario, però felice nel modo seguente.
Un vecchio marinaro, impacciato ne’ suoi modi, ne’ suoi gesti, ed affetto sovrattutto da balbuzie fin dall’infanzia, fa contrasto a tutta quella gente mobile, vivace, ciarliera, dimenandosi con tutta la persona, prima di poter pronunciare una parola; e quando arriva a poter parlare, lo fa sempre in modo conciso, proverbiale, sentenzioso, il quale pone sempre più in rilievo la volubilità, la parlantina sfrenata di tutti gli altri.
Non ho poi mai visto finora un popolo prendere cotanta parte ad uno spettacolo, godere a tal segno, di vedersi riprodotto sulla scena con tanta naturalezza. Non faceva altro che ridere, ed applaudire durante tutta la rappresentazione. È d’uopo però soggiungere che gli attori erano eccellenti. Si erano distribuite, secondo la loro diversa attitudine, le parti di quei caratteri, i quali sono i più abituali nel popolo. La prima attrice era graziosissima, e stava molto meglio in quel costume schietto e volgare, che vestita all’eroica. Le donne tutte, e questa specialmente, imitavano colla più grande evidenza le voci, i gesti, i modi delle donne del popolo, e vuolsi propriamente dar lode all’autore, per avere saputo trasportare con tanta verità sulla scena i costumi di quello. La cosa non sarebbe guari possibile con altro popolo, di natura meno piacevole, ma si dovrà pur sempre dire, che la comedia è scritta da mano maestra.
La compagnia Sacchi, per la quale scriveva il Gozzi, trovasi oggi dispersa. Vidi però la Smeraldina, la quale appartenne a quella; donnetta graziosa, con una faccia rotonda, pienotta, piena di vita, di brio, e propriamente allegra. Vidi recitare con quella il Brighella, attore alto, magro, ma abilissimo, particolarmente nei gesti, e dotato di grande mobilità di fisonomia. Le maschere, le quali presso di noi hanno aspetto di altrettante mummie, sono qui per contro piene di vita, e si devono dire propriamente, prodotto indigeno di questa contrada. Riuscirono, per così dire, a personificare le varie età, caratteri, e condizioni, e per quanto recitino le maschere in teatro per la maggior parte dell’anno, si trovano pur sempre naturalissime, quelle figure convenzionali.
Li 11 Ottobre.
Non essendo possibile poi, il vivere continuamente solo in mezzo a tanta folla, ho finito per contrarre relazione con un vecchio signore francese, il quale, non conoscendo una parola d’italiano, si trova qui smarrito, confuso, e non sà dove dare del capo, non ostante tutte le sue lettere di raccomandazione. Egli è persona di nascita distinta, di modi garbati, ma che non sà guari nulla di nulla. Può avere oltre a cinquant’anni, ed ha a casa sua un ragazzo di diciasette anni, di cui attende ansiosamente notizie. Ho avuta occasione di rendergli qualche piccolo servigio; egli visita l’Italia a suo comodo, però rapidamente, tanto che basti per averne idea, ricavandone quel profitto che può, ed io gli ho dato spiegazione di molte cose. Parlandogli io di Venezia, mi domandò da quanto tempo io mi trovassi qui, ed allorquando risposi che eran solo quattordici giorni, e che non vi ero mai stato dapprima, egli mi disse: «Il parait que vous n’avez pas perdu votre temps!» E questa si è la prima testimonianza che posso addurre della mia buona condotta. Il mio francese trovasi qui da otto giorni soltanto, e parte domani. Trovai curioso di conoscere questo pretto tipo di Versagliese, all’estero. Egli dice di viaggiare, e mi recò stupore il vedere come si possa viaggiare, senza pensare ad altro che a se stesso; e sì, che questi è, a modo suo uomo, uomo dabbene, compito, ed aggiustato.
Il 12 Ottobre.
Ieri sera ho visto al teatro di S. Luca una comedia nuova l’Anglicismo in Italia? Dal momento che viaggiano molti Inglesi in Italia, era cosa naturale che si fossero osservati i loro costumi, ed io credeva apprendere qual conto facessero gl’Italiani di questi loro ospiti ricchi e sempre bene accetti; se non chè, poco vi era da imparare davvero. Alcune scene ridicole, felici come sempre, ma il resto serio, pesante, senza la menoma intelligenza dell’indole degl’Inglesi; i soliti discorsi morali, sentenziosi, della comedia italiana, mescolati questa volta ad un azione volgare.
Convien dire però, che la comedia non piacque, e fu sul punto di essere fischiata; gli attori poi, non si sentivano più nel loro elemento, come sulla piazza di Chioggia. Ed essendo questa l’ultima comedia che vedrò qui, pare che l’idea migliore che riporterò, sarà quella di quelle scene popolari.
Ed ora che ho riletta questa parte del mio giornale, che vi ho aggiunte alcune osservazioni ancora, delle quali avevo preso appunti nel mio taccuino, farò un rotolo di questi fogli, per poterli spedire a miei amici, e sottoporli al loro giudizio. Trovo che avrei potuto dire varie cose con maggior precisione; trattarne altre più estesamente, più accuratamente; ma quali stanno, verranno pur sempre quale ricordo fedele di una prima impressione, la quale, tuttochè possa non essere sempre la vera, ci rimane pur sempre preziosa. Potessi almeno dare a miei amici un idea di quest’esistenza piacevole. Gli Italiani vedono sempre in nero oltremonti; ed a me pure sembrano di qui, malinconiche le contrade al di là delle alpi. Però ravviso pur sempre care figure fra quelle nebbie! Il clima solo mi potrebbe indurre a preferire queste contrade alla mia terra natia; imperocchè l’origine e le abitudini sono catene, le quali non si frangono facilmente. Io non potrei vivere qui, come del resto in nessun luogo, dove io non avessi occupazione; per ora lo spettacolo nuovo mi dà di continuo che fare, che pensare. L’architettura sorge quale un antico spirito, dalla sua tomba, e m’invita a studiare le sue dottrine, quali regole di una lingua morta, non già per porle in pratica, o per rinvenirvi unicamente soddisfazione, ma bensì per pormi in grado di potere venerare in silenzio l’esistenza rispettabile di un passato scomparso per sempre. E siccome Palladio fa di continuo appello a Vitruvio, mi sono procurato le opere di questi, pubblicate dal Galliani; se non chè, questo in folio ingombra il mio bagaglio, e vi accresce peso, come lo studio di quello, grava la mia mente. Palladio colle sue parole, colle sue opere, con i suoi pensieri, con il modo di tradurli in atti, mi ha agevolato lo studio di Vitruvio, ben più di quanto avrebbe potuto fare la sola traduzione italiana, giacchè Vitruvio si legge con difficoltà; è scritto in modo oscuro, e per comprenderlo a dovere, è d’uopo porvi molta attenzione. Ad onta di ciò, io lo vado leggendo alla sfuggita, e me ne rimane sempre una certa impressione. E per esprimere meglio il mio pensiero, direi che lo leggo quasi un breviario, più per devozione, che per istruzione. Le sere cominciano ad essere lunghe, e vi ha tempo a leggere, ed a scrivere.
Sia ringraziato Iddio che io trovo tuttora piacere, alle cose di cui mi compiacqui nella mia giovinezza! Quale soddisfazione non provo io, nel rileggere di bel nuovo gli antichi scrittori! Imperocchè, ora io lo posso dire; posso confessare la mia infermità, per non dire addiritura la mia pazzia. Da alcuni anni io non potevo più leggere un autore latino; non potevo più considerare cosa, la quale mi destasse l’idea d’Italia. E se talvolta ciò avveniva a caso, mi faceva propriamente soffrire. Herder si rideva spesse volte di me, perchè studiavo tutto il mio latino nello Spinoza, imperocchè egli aveva osservato essere quello l’unico libro latino che io leggessi; se non che, egli ignorava a quel punto io mi dovessi guardare dagli antichi, e come unicamente per disperazione io cercassi rifugio in quelle generalità astruse. Ed ultimamente ancora, la traduzione delle satire di Wieland, mi aveva reso infelice; ne avevo lette due appena, che già stavo per impazzire.
Se io non avessi presa la risoluzione che ora mando ad esecuzione, non so davvero quale misera fine avrei fatto, tanto era diventato in me ardente, imperiosa, la bramosia di potere considerare questi oggetti con i miei propri occhi. Le cognizioni storiche non sono quelle che mi tentano; stanno a mia portata, ma separate da un muro insuperabile. Le cose invece, non mi danno nessuna pena, e tuttochè io le veda per la prima volta, direi averle già vedute. Sono stato pochi giorni a Venezia, ma mi sono addentrato abbastanza nel modo di vivere, nell’esistenza per meglio dire di questa città, per sapere che ne porto meco un idea, tuttochè incompleta, fedele però ed esatta.
Venezia, il 14 Ottobre alle 2, di notte.
Scrivo negli ultimi istanti del mio soggiorno in questa città, imperocchè devo partire fra poco per Ferrara, colla barca corriera. Parto volentieri da Venezia, dacchè per starvi più a lungo con piacere e con profitto, avrei dovuto fare altri passi, i quali avrebbero dissestato i miei progetti. Del resto tutti se ne allontanano in questo momento, portandosi alle loro ville, o possessioni sulla terra ferma. Intanto non ho perduto qui il mio tempo, e ne riporto ricordi molti, singolari, e rari.
Il 16 Ottobre di buon mattino sulla barca.
I miei compagni di viaggio, uomini e donne, gente tutti semplice ed alla buona, stanno tuttora dormendo al basso tutti, nel camerino cabina. Io però ho passate le mie due notti sul ponte, avviluppato nel mio mantello; non faceva fresco se non verso il mattino, ed io ripeto la mia antica canzone, lascerei tutto agli abitanti del paese, purchè io potessi al pari di Didone, torre loro tanto del loro clima, che bastasse a trasformare le nostre abitazioni. La è tutt’altra esistenza. Il viaggiare a questo modo, con tempo stupendo, è piacevolissimo; la vista è monotona, ma graziosa. Il Po è fiume bellissimo, e lo sguardo non si stende oltre le sue sponde, riccamente imboschite. Ho visto pure qui, come sull’Adige, costruzioni nel fiume, le quali sono meschine, e malsane al pari di quelle della Saale.
Ferrara, il 16 nella notte.
Arrivato qui stamane per tempo, verso le sette, mi dispongo a ripartirne domattina, e per la prima volta mi sorprende una specie di noia in questa bella e vasta città, tutta piana, ma spopolatissima. Tutte queste strade furono animate un tempo dallo splendore di una corte brillante; quì vissero l’Ariosto malcontento, il Tasso infelice, e riteniamo rappresentarci ora quei tempi, nel visitare questi luoghi. La tomba dell’Ariosto è ricca di marmi, ma di cattivo gusto. Vi fanno vedere, quale prigione del Tasso, una specie di stalla, o di magazzeno da carbone, dove certamente egli non fù mai rinchiuso. Da principio nessuno in quella casa sapeva dar conto di nulla, ma finalmente si svegliarono, per amore della mancia; mi sovvenne la macchia d’inchiostro formata dal calamaio scagliato da Lutero, che il castellano rinfresca di quando in quando. Buona parte dai viaggiatori hanno un non sò che di scimunito, e ricercano volentieri quelle memorie di dubbia autenticità. Ero diventato simile abbastanza a questi, perchè presi poca parte alla visita di una bella università, fondata e largamente dotata da un cardinale, originario di Ferrara, ed unicamente mi compiacqui qui di alcuni monumenti antichi, che sì scorgono nella corte.
Se non che, valse, e tosto, a rallegrarmi la vista di un bel quadro, il quale rappresenta S. Giovanni Battista, alla presenza di Erode, e di Erodiade. Il profeta nel suo costume ordinario, più che semplice, sta conversando vivacemente colla signora. Questa volge tranquillamente lo sguardo al principe che gli sta seduto al fianco, il quale stà contemplando attentamente il profeta. Si vede davanti al re un cane bianco, di mezzana statura, e sbocca fuori di sotto alle vesti di Erodiade un altro cagnolino di razza bolognese, ed entrambi abbaiano verso il profeta. Non vi pare che l’idea sia felice del tutto?
Cento, il 17 a sera.
Vi scrivo quest’oggi, di migliore umore che ieri, dalla patria del Guercino. Convien pur dire, che tengo sott’occhio ben altra vista. Questa la è cittadina piacevole, ben fabbricata, di cinque mila abitanti all’incirca, pulita, di aspetto agiato, ed animata, la quale giace in una vasta pianura ben coltivata. Salii tosto, secondo il mio costume, in cima ad un campanile, e viddi di là un mare di sommità di pioppi, fra i quali sorgevano in vicinanza piccole case rurali, circondate tutte dal proprio orto, o giardino. La terra è fertile, il clima mite. Era una bella sera di autunno, quale di rado l’abbiamo noi nella state. La giornata era stata coperta, ma il cielo si era rasserenato; le nuvole si andavano concentrando a mezzogiorno ed a tramontana verso i monti, ed io nutro speranza di avere domani una bella giornata.
Viddi qui per la prima volta, in vicinanza, gli Apennini. L’inverno dura qui soltanto i due mesi di dicembre e di gennaio; l’aprile vi è piovoso; durante il resto dell’anno il tempo generalmente vi è buono. Le pioggie non vi durano a lungo, ed in quest’anno ebbero il settembre migliore, e più caldo dell’agosto. Viddi con piacere sorgere gli Apennini a mezzogiorno, imperocchè ne ho oramai abbastanza delle pianure, e domani vi scriverò dai piedi di quelli.
Il Guercino amava la sua città natale, e del resto è generale negl’Italiani questo patriottismo locale, il quale ha data origine alla manifestazione di tanti sentimenti lodevoli, ed alla fondazione di tante instituzioni, specialmente religiose. E qui, promossa da quel grande maestro sorse un’accademia di pittura, alla quale egli lasciò vari quadri, de’ quali menano vanto tuttora i suoi concittadini, e che per dir vero, sono pregevoli.
Il nome del Guercino risuona sulla bocca di tutti, ed è sacro a tutti, giovani e vecchi.
Mi andò molto a genio il suo quadro di Cristo risorto, il quale appare alla Vergine Maria. Questa, inginocchiata davanti il divin figliuolo, lo contempla con una espressione di amore indescrivibile. La sua sinistra tocca il corpo di lui, propriamente sotto la ferita infelice, la quale guasta tutto l’effetto del quadro. Il Cristo ha posata la sua mano sinistra attorno al collo della Vergine, e si curva alquanto per agevolare a questa il mezzo di potere contemplare la ferita; quest’attitudine dà alla figura un certo non so che, non vorrei già dire di forzato, ma che però non soddisfa. Ad onta di ciò, il quadro è di una bellezza inarrivabile. Lo sguardo di malinconia, con il quale il Salvatore contempla la Vergine, è sommamente caratteristico; si direbbe rivelare quello, che neppure la risurrezione sia valsa a spegnere la memoria delle sofferenze sue e di lei.
Questo quadro venne inciso da Stränge, ed io vorrei che i miei amici potessero vederne almeno questa riproduzione.
Dopo quello la mia attenzione fu fissata da una Madonna. Il bambino cerca il seno della madre, la quale, per pudore, rifugge dallo scoprire il petto. L’idea è bella, naturale, e fu riprodotta con grande maestria.
Vidi pure un’altra Madonna, la quale tiene sulle ginocchia il bambino rivolto agli spettatori, nell’atto d’impartire a questi la sua benezione, idea questa felice nel senso della mitologia cattolica, e che difatti, venne ripetuta le molte volte.
Guercino è propriamente un pittore valente, dotato di forza virile, senz’ombra però di durezza; che anzi i suoi dipinti presentano una grazia morale gentile, una spontaneità, ed una grandiosità pacata, serena, le quali fanno sì, che le sue opere, quando l’occhio vi si è assuefatto, si riconoscono tosto a primo aspetto. La leggerezza, la soavità, la perfezione del suo pennello, recano propriamente stupore. Usa volontieri ne’ suoi panneggiamenti tinte di rosso cupo, le quali si fondono stupendamente su quelle azzurrine, delle quali si vale pure volontieri.
Gli argomenti degli altri suoi quadri che ho visti qui, sono tutti più o meno infelici. L’ottimo artista pose il suo ingegno alla tortura; però a nulla valsero pennello, imaginazione, abilità di mano. Sono lieto di avere potuto vedere ed apprezzare questi lavori, tuttocchè questo correre, senza fermarsi, non valga guari nè per diletto, nè per istruzione.
Bologna, il 18 Ottobre nella notte.
Questa mane di buonissima ora sono partito da Cento, e non tardai molto ad arrivare in questa città. Un servitore di piazza svelto, e che conosceva a fondo il campo della sua industria, non appena udì che io avevo intenzione di qui trattenermi per poco, mi portò a precipizio in tante strade, in tanti palazzi, in tante chiese, che io ebbi tempo appena di segnare sul mio Volckmann1 dove ero stato, e chi sa, se ad onta di quei segnali, potrò ricordare quanto ho visto? Al momento ricordo unicamente due punti lucidi, dove ho quietato.
Prima di tutta la S. Cecilia di Rafaello! La è quale già la conoscevo, ma ora posso dire di averla vista; egli riusciva sempre a fare quanto gli altri desideravano fare, e nulla di meglio, nulla di più potrei dire di quel quadro, se non chè desso è quadro di Rafaello. Scorgonsi a fianco della santa Cecilia cinque altri santi, i quali non mi vanno ugualmente a genio, ma formano tanta parte del quadro, che si desidera a questi pure una durata eterna, dacchè non potrebbero essere staccati da quello. Però, per giudicare rettamente Rafaello, per apprezzarlo secondo il vero merito, per non ritenerlo in certo modo un Dio, che al pari di Melchisedech non possa presentare nè padre nè madre, è d’uopo studiare, considerare i suoi predecessori, i suoi maestri. Questi posero le loro fondazioni sul terreno fermo e stabile della verità; vi lavorarono costantemente, assiduamente, e gareggiando gli uni cogli altri, innalzarono, mano a mano, la piramide, alla quale egli, favorito di tutti questi vantaggi, illuminato da un genio, propriamente divino, posò l’ultima pietra sul vertice che nessuno varrà più a raggiungere, non che superare.
L’interesse storico poi diventa maggiore, quanto più si contemplano le opere degli antichi maestri. Francesco Francia fu artista degno di rispetto, e Pietro Perugino tal valentuomo, di natura così schietta, che lo si potrebbe dire d’indole tedesca. Alberto Durer per sua buona sorte era stato in Italia. Ricordo avere visti a Monaco due quadri di lui, di una ruvidezza incredibile. Quanto non si trovò smarrito il povero uomo a Venezia, dove perdette il tempo presso i preti, coi quali dimorò settimane e mesi. E nei suoi viaggi nelle Fiandre, non gli vennero dati papagalli, in cambio degli stupendi capolavori co’ quali sperava far fortuna, e non si trovò costretto per risparmiare la mancia, a fare il ritratto dei servitori di locanda, i quali gli porgevano un piatto di frutta! Mi commuove propriamente un cotale artista buon diavolo, imperocchè la sua sorte in fondo è pure la mia, se non che, io mi so trarre alquanto meglio di impaccio!
Verso sera riuscii a sottrarmi a quest’antica, veneranda e dotta città, ed alla folla, la quale nelle sue strade fornite tutte di portici, può passeggiare tutta quanta la giornata, prendersi spasso, attendere a suoi affari, senza darsi pensiero nè della pioggia, nè dell’ardore del sole. Salii in cima ad un alta torre, tutto lieto di trovarmi all’aria aperta. La vista di colassù era stupenda. Si scorgevano i colli del Padovano, più in fondo le alpi del Friuli, del Tirolo, della Svizzera, in una parola tutta la catena settentrionale, immersa oggi nella nebbia. A ponente la vista si stendeva a grande distanza nella pianura, dove si scorgeva la torre di Modena, e verso levante, si scorgeva parimenti la vasta pianura, fino al mare adriatico, la quale diventa visibile, al levare del sole. Verso mezzodì si vedevano i contrafforti dell’Apennino, coltivati fino alla loro sommità, non che i colli di Vicenza, popolati di chiese, di palazzi, di ville. Il cielo era purissimo, sgombro di nuvole, scorgevasi soltanto all’orizzonte una specie di fumo leggiero. Il guardiano della torre mi assicurò che soltanto da poco più di sei anni sorge questa nebbia in lontananza; che senza di quella, con il canocchiale egli poteva vedere distintamente i monti di Vicenza, colle loro cappelle, colle loro case, locchè attualmente accade soltanto di rado, nei giorni più limpidi. E queste nebbie sorgono di preferenza sulla catena nordica, e fanno della nostra cara patria un vero soggiorno di Cimmeri. Il guardiano della torre mi fece notare del pari la posizione salubre e l’aria pura della città, additandomi i tetti delle case, i quali per ver dire paiono nuovi, non offrendo la minima traccia di muschio, nè d’umidità. Può darsi però vi contribuisca pure la qualità delle tegole, le quali appaiono, sovratutto le più antiche, cotte con somma accuratezza.
La torre pendente porge una vista orribile, eppure è probabile sia stata costrutta per tal modo, ad arte. Io riterrei potersi spiegare come segue, quella stranezza e o pazzia. Nei tempi delle guerre intestine, ogni edificio grandioso serviva ad uso di fortezza, ed ogni famiglia distinta e possente, innalzava una torre. Poco a poco diventò questa quistione per modo di dire di amor proprio; ogni famiglia voleva che primeggiasse la propria torre, e quando le torri perpendicolari diventarono volgari, si finì per porre mano a costruirne una, la quale pende. Ed è forza ammettere che il proprietario e l’architetto raggiunsero il loro scopo; si passa davanti alle torri perpendicolari altissime, e svelte, senza punto badarvi, e si cerca quella la quale pende. Salii in cima a questa pure; gli strati dei mattoni sono orizzontali, e si può ritenere siano collegati gli uni agli altri per mezzo di cemento di una forza straordinaria, non che di perni in ferro.
Il 19 Ottobre a sera.
Ho impiegata tutta, la mia giornata nel vedere e rivedere quante più cose mi furono possibili, se non che accade nell’arte, quanto avviene pure nella vita, la quale tanto più si allarga, quanto più c’inoltriamo in quella. In quel firmamento sorgono ad ogni tratto nuove stelle che io non posso numerare, e che mi generano confusione; i Caracci, Guido, il Domenichino sorti in un risveglio dell’arte; se non che, per poterli apprezzare a dovere, occorrerebbero scienza, criterio, i quali mi fanno difetto; e che io non potrò acquistare se non poco a poco. Grande ostacolo poi, ad apprezzare queste opere d’arte, s’incontra nella stranezza e nella nullità degli argomenti che rappresentano, i quali indispongono, mentre si vorrebbe venerare quelle, e ritenerle preziose.
Si potrebbe dire che la stirpe degli Dei si sia mescolata alle figliuole degli uomini, e che ne siano sorti mostri. Mentre il genio sublime di Guido, la soavità del suo pennello, che avrebbe dovuta dedicare unicamente alla rappresentazione delle cose le più perfette, esercitano un vero fascino, spesse volte vi respingono la volgarità, il carattere orribile degli argomenti da esso trattati, che nessuna parola sarebbe abbastanza severa per qualificare; si ha sempre che far coll’anatomia, col patibolo, col macello, colle sofferenze dei protagonisti, non si rinviene mai un soggetto che ispiri interesse, che alletti la fantasia. Sempre malfattori, o convulsionari; sempre ribaldi o scimuniti, cosicchè il pittore per cavarsi dall’impiccio, dipinge un giovane baldo nudo, una graziosa spettatrice, ed in ogni caso tratta suoi santi quali i modelli in legno a snodature del suo studio, gettando loro sulle spalle un mantello, disposto in belle pieghe. In tutti quei quadri non havvi espressa un idea. Su dieci soggetti, uno solo forse meritava essere dipinto, e quest’unico non fu interpretato dal pittore nel suo vero senso.
Il quadro grandioso nella chiesa dei Mendicanti è un vero capo d’opera di pittura, ma ad un tempo il quadro il più insulso che si potesse commettere ad un artista, e pretendere da quello. Fu dipinto per un voto, fatto io credo dal senato, e ritengo abbia dato questo pure l’idea del quadro. I due angioli che sarebbero degni di consolare una Psiche nelle sue sventure, si vedono ivi costretti....!
Il S. Procolo è una bella figura, ma gli altri, i vescovi, i preti! Al di sotto si scorgono angioli, i quali scherzano cogli attributi. Il pittore, il quale si trovava col coltello alla gola, cercò scampo per dimostrare almeno in questi, ch’egli non era addirittura un barbaro. Del Guido sonvi pure due figure nude, un S. Giovanni nel deserto, ed un S. Sebastiano, stupendamente dipinti, questo e quello; ma che cosa esprimono? S. Giovanni apre la bocca, e S. Sebastiano si curva!
Considerando la cosa dal punto di vista storico, si potrebbe dire che la religione ha fatto risorgere le arti, ma che la superstizione finì per prendere il sopravvento, e le mandò di bel nuovo in rovina.
Dopo pranzo, trovandomi alquanto più di buon umore che questa mane, e portato a giudizi meno severi, scrissi le parole seguenti sul mio taccuino: «Nel palazzo Tanari trovai un quadro rinomatissimo del Guido, il quale rappresenta la Vergine nell’atto di allattare il bambino. La figura è di grandezza maggiore del vero, e la testa si direbbe dipinta da un Dio; è indescrivibile l’espressione di affetto, colla quale la madre stà contemplando il divino pargoletto. Parmi abbia voluto il pittore esprimere una sofferenza tranquilla, serena, quasi sentisse la Vergine non essere quello che sta allattando un frutto dell’amore, ma bensì un dono del cielo, il quale gli dovrà essere ritolto, e che nella sua umiltà, non riesce a comprendere, come sia stato donato a lei.» Il resto del quadro è occupato da un immenso panneggiamento di cui fanno molto caso gl’intelligenti, ma del quale io non saprei che cosa dire. Anche i colori sono poi anneriti, e tanto la stanza, quanto la giornata, non erano favorevoli per la luce.
Ad onta della confusione nella quale mi trovo, sento però di già, che la pratica, l’esperienza, la parte che prendo all’arte, cominciano a rischiararmi le idee. E difatti mi piacque moltissimo una circoncisione del Guercino, perchè conosco quel pittore, e mi va molto a genio. Non posi mente all’argomento ingrato, e provai soddisfazione per il modo con cui venne trattato. Qualunque si fosse l’argomento, era trattato a perfezione, e dipinto poi, quasi fosse smalto.
Mi accadde pertanto come a Balaam, il profeta confuso, il quale benediva nel mentre credeva scagliare maledizioni, e ciò mi avverrebbe fuori di dubbio soventi, quando io mi trattenessi qui a lungo.
Così pure se io mi trovo di bel nuovo in presenza di un quadro di Rafaello, o che quanto meno gli sii attribuito con una certa probabilità, ne provo del pari grandissimo piacere. Vidi di questi una S. Agata, quadro pregevolissimo, tuttochè abbia sofferto non poco. L’artista produsse l’aspetto di una vergine florida, sicura di sè, però senz’ombra nè di freddezza, nè di durezza. Ho ritenuta benissimo quella figura, ed intendo leggerle in imaginazione la mia Ifigenia, e non far dire alla mia eroina cosa, che non avesse potuto dire pure questa santa.
E poichè ho fatto ancora una volta parola di questo dolce peso, che porto meco nelle mie peregrinazioni, non posso tacere che i grandi capolavori e le bellezze naturali fra cui mi aggiro, fanno sorgere intorno a me una serie meravigliosa di figure poetiche, le quali mi danno da pensare. Nel partire da Cento, volli riprendere il mio lavoro; l’imaginazione mi trasportò l’argomento dell’Ifigenia da Delfo, e mi fù mestieri stenderne la traccia, della quale voglio dare qui un idea, la più concisa che mi sarà possibile.
Elettra nella sicura speranza che Oreste recherà a Delfo dalla Tauride l’imagine di Diana, appare nel tempio di Apollo, e vi offre quale sacrificio di propiziazione, la crudele scure che arrecò tanti danni alla casa di Pelope. Se non che, pur troppo arriva uno dei Greci, e le narra come egli abbia accompagnati Oreste e Pilade nella Tauride, ed ivi abbia visto portare a morte i due amici, e gli sia riuscito salvarsi. L’infelice Elettra va fuori dei sensi, e non sa più contro chi debba volgere la sua ira, se contro gli Dei, o contro gli uomini.
Intanto arrivarono pure a Delfo, Ifigenia, Oreste, e Pilade. La tranquillità serena d’Ifigenia porge contrasto meraviglioso colla vivacità della passione di Elettra, quando queste due s’incontrano, senza conoscersi. Il Greco fuggitivo vede Ifigenia, riconosce la sacerdotessa la quale aveva sagrificato i due amici, e la fa conoscere ad Elettra. Questa forma tosto il disegno di trucidare Ifigenia, collo stesso ferro che stacca di bel nuovo dall’altare, allorquando un incidente fortunato, riesce ad impedire quest’orribile scena fratricida. Se mi riesce di svolgere a dovere questo particolare, sarà una scena grandiosa, e delle più commoventi, che si siano viste mai in teatro. Ma come mai trovare qui tempo ed agio, quand’anche fosse ben disposta la fantasia?
Mentre io mi trovo angustiato da tutte queste idee, da tutti questi pensieri, è d’uopo che io faccia conoscere a miei amici un mio sogno di un anno fa, il quale mi parve di grande significato. Sognai, vale a dire, che io approdava in una barca piuttosto grande, in un’isola fertile, ricca di vegetazione, dove sapevo trovarsi in abbondanza bellissimi fagiani, e tosto mi posi cogli abitanti dell’isola alla caccia di quelli, e ne femmo larga preda, portandoli nella barca. Erano bensì fagiani, ma in quella guisa che le cose in sogno si trasformano, presentavano quelli code lunghissime, variopinte quanto quelle del pavone, e degli uccelli del paradiso. Li allogammo nella barca, colle teste rivolte all’interno, facendone un mucchio, di cui pendevano le code al di fuori della barca, brillando alla luce del sole in modo meraviglioso, lasciando appena tanto spazio che bastasse al timoniere, ed ai remiganti. Vagammo con quel raro carico sul mare tranquillissimo, ed io stavo pensando a quanti fra miei amici avrei potuto far dono di quegli animali stupendi. Giunto in un porto abbastanza ampio, ingombro di scavi, io mi smarrii nel passare dall’uno all’altro ponte di queste, per cercare un luogo sicuro, dove io potessi approdare colla mia piccola barca.
Spesse volte ci andiamo pascendo di tali illusioni, le qual per essere sorte nella nostra mente, porgono molta analogia con i casi, e colle vicende della nostra vita.
Sono stato pure nel rinomato istituto scientifico, denominato l’università, ovvero lo Studio. Quell’edificio grandioso porge bell’aspetto, specialmente nella corte interna, tuttocchè non sia della migliore architettura. Non mancano gli affreschi, e gli ornati in istucco sulle scale, e nelle gallerie; tutto vi è disposto in buon ordine, e non si può fare a meno di ammirare i vari particolari di quell’istituto, ad onta che il complesso non possa andare totalmente a genio di un Tedesco, assuefato a metodi di studio più liberi.
Ho avuta occasione in questa città di ripetere una osservazione già fatta altre volte, vale a dire, che l’uomo, ad onta siano mutati i tempi, e siano mutate pure le sue stesse idee, difficilmente si spoglia di una prima impressione. Le chiese cristiane continuano a mantenere la forma delle basiliche, tuttocchè quella dei templi corrisponda forse meglio, alle condizioni volute dal culto. Parimente gl’istituti scientifici, ritengono tuttora l’aspetto di monasteri, a motivo che le scienze le lettere furono coltivate dapprima nel silenzio e nella quiete dei chiostri. Le sale dei tribunali italiani, porgono tutta quanta l’altezza e la larghezza, che valsero a dare loro i municipi e le corporazioni le quali le cressero; sono vere piazze, chiuse e coperte. E non continuiamo parimenti a costrurre i nostri teatri collocando la maggior parte degli uditori sotto ad un tetto, quasi si trattasse tuttora della prima baracca messa assieme con tavole, sul campo di una fiera?
Gli scuolari furono spinti nelle università a seguito del grande impulso dato alle scienze dalla riforma, e quanto tempo non ebbe ciò a durare, prima che si pensasse a radunare in un istituto gli orfani, ed a dare a quei poverini l’educazione, e l’istruzione di cui tanto abbisognano?
Bologna, il 20 a sera.
Ho passata tutta quanta questa stupenda giornata all’aria aperta. Tostochè mi avvicino ai monti, risorge la mia passione per i sassi. Sono come Anteo, il quale si sentiva rinvigorire, non appena poneva il piede sulla terra, sua madre.
Ho fatta una gita a cavallo a Paderno, dove si trova il così detto spato bolognese pesante, del quale si formano le piccole gallette, le quali calcinate, brillano nelle tenebre, quando siano state esposte dapprima all’azione della luce, od alle quali si da più conciso in modo e rettamente, il nome di fosfori.
Cominciai ad incontrare per istrada roccie, le quali rivelavano la presenza di ferro vergine, dopo avere lasciata una dietro di me una collina di sabbia argillosa. Presso ad una fornace attraversai un torrente, il quale corre in gola, dove scendono molti piccoli rivi. A primo aspetto credetti vedere una collina argillosa la quale fosse stata dilavata delle pioggie, ma esaminandola in vicinanza, ho dovuto persuadermi che era di natura diversa; il nucleo di questa parte della collina, è formato di ardesie a strati sottilissimi, i quali si alterano con il gesso. Quelle ardesie sono cotanto mescolate a piriti a base di zolfo, che al contatto dell’aria e dell’acqua, si trasformano totalmente. Gli strati si sollevano si spostano, e si forma una specie di argilla sgranata, le cui superficie piane, sono rilucenti al pari del carbone fossile. Ed unicamente col romperne vari pezzi piuttosto voluminosi, come ho fatto, mi fu possibile riconoscere i veri elementi, e scoprire il modo della trasformazione. Parimenti si possono rilevare nelle superficie piane punti bianchi, e talora anche gialli; per tal guisa si va decomponendo poco a poco tutta la superficie, e la collina prende aspetto di piriti a base di zolfo, decomposte. Trovansi pure fra gli strati taluni più duri, di colore rosso e verde, come parimenti rinvenni, spesse volte nelle pietre piriti a base di zolfo.
Scesi poi nella gola del monte, aperta dalle pioggie più recenti, e trovai, con mia grande soddisfazione, in buon numero i prodotti nettuniani che cercavo, la maggior parte della forma di un uovo irregolare, taluni incastrati ancora nel monte, che si andava decomponendo, altri già liberi, altri circondati tuttora dall’argilla, la quale tenacemente vi aderisce. Si scorge a prima vista che non sono prodotti d’alluvione, ma sarebbe d’uopo di maggiori osservazioni, e di studii accurati, per potere decidere se si trovassero originariamente negli strati, o se si siano formati in occasione della sollevazione, e della decomposizione del suolo. Tutti quelli che io ho trovati, grandi e piccoli, hanno tutti più o meno le forma di un uovo, ed i più piccoli presentano del pari impercettibilmente, l’aspetto di una cristallizzazione. Il pezzo più grosso che io abbia trovato, pesa all’incirca ott’oncie. Trovai pure in quell’argilla pezzi sciolti, di gesso cristallizzato. Gl’intelligenti potranno fare ulteriori e migliori osservazioni, sui pezzi che porterò meco. Ed eccomi ancora un altra volta carico di sassi! Ne ho raccolti per il peso dell’ottavo di un cantaro!
Il 20 Ottobre; nella notte.
Quante cose dovrei pure scrivere, se io volessi narrare tutte le idee che mi passarono per il capo in questa giornata bellissima! Se non che, i miei desideri sono più forti che i miei pensieri e che la mia volontà. Mi sento spinto innanzi da una forza irresistibile, e duro fatica a fissare la mia attenzione sul presente. Ed il cielo pare volere secondare miei voti, dacchè mi si presentò un vetturino il quale ritorna a Roma, e dopo domani potrò partire a quella volta. Ed oggi e domani, mi sarà d’uopo badare a molte cose mie, provvedere a porle in ordine.
Logano, sull’Apennino il 21 Ottobre a sera.
Non sarei in grado di dirvi se io sia partito spontaneamente quest’oggi da Bologna, ovvero se io sia stato cacciato via di là. Basti il dirvi che afferrai con vera frenesia un occasione di venire via, ed ora mi trovo qui, in una poverissima locanda, e nella compagnia di ufficiale dell’esercito pontificio, il quale si reca a Perugia sua patria. Allorquando presi posto a suo fianco, in un legno a due ruote, gli dissi, tanto per entrare in discorso od a modo di complimento, che assuefatto nella mia qualità di Tedesco a trovarmi con militari, avevo piacere di fare oggi viaggio in compagnia di un ufficiale dell’esercito pontificio. «Non ve lo abbiate a male, mi rispose, la è cosa possibile che voi, quale Tedesco, abbiate un inclinazione per la carriera militare, imperocchè sento che in Germania tutti sono militari; ma per quanto mi riguarda, ad onta non sia pesante per nulla il nostro servigio, ed io mi trovi molto comodamente nella mia attuale guarnigione di Bologna, vorrei pure potere deporre questa divisa, e far valere i pochi beni di mio padre, se non che, io sono l’ultimo de’ suoi figliuoli, e mi è forza piegarmi alla mia sorte.»
Il 22 a sera.
Scrivo da Giredo, piccolo paesello sull’Apennino, dove io mi trovo benissimo, dal momento che io sono in viaggio, in conformità di quanto desideravo. Oggi si accompagnarono a noi un signore ed una signora, i quali viaggiano a cavallo; un Inglese, con una così detta sua sorella. Hanno due bei cavalli, ma viaggiano soli affatto senza seguito di sorta, ed il signore, a quanto pare, fa da palafreniere, e da cameriere. Si lagnano di tutto e di tutti, ed all’udirli si crederebbe leggere alcune pagine di Archenholz.
Gli Apennini sono per me una contrada meravigliosa. Nelle vaste pianure bagnate del Po, sorge una catena di monti di notevole altezza, la quale si prolunga fino all’estremità del continente italiano, in direzione di mezzodì, fra il Mediterraneo e l’Adriatico. Se questi monti non fossero cotanto ripidi, cotanto elevati sul livello del mare, se non fossero cotanto intricati nelle loro diramazioni, i fiotti e la marea avrebbero potuto fin dalle epoche le più remote, esercitare qui la loro azione, formarvi ampie pianure, e ne sarebbe sorta una stupenda contrada, in un clima felicissimo, alquanto più elevata che le altre terre. Quale ora si trova, forma un laberinto intricato di gole, di monti, e molte volte riesce difficile scorgere da dove abbiano origine le acque, ed in quale direzione corrano. Se le valli fossero meno profonde, se le pianure fossero più uniformi di livello, si potrebbe questa regione paragonare alla Boemia, toltone che i monti che sono di tutt’altra natura. Non vi si scorgono però terreni deserti, incolti; tuttochè montuosi sono tutti, più o meno, coltivati. Vi abbondano i castagni, i cereali; vi sono di ottima qualità e bellissime le praterie. Si vedono lungo la strada felci, con foglie piccole, di tessuto compatto, ed attorno alle chiese, alle cappelle, sorgono svelti cipressi.
Ieri sera il tempo era coperto, ma oggi, brilla di bel nuovo, chiaro e limpido, il sole.
Il 25 sera, Perugia.
Sono stato due sere senza scrivere. Le locande erano talmente pessime, che difettava ogni mezzo di potere stendere un foglio di carta. Comincio poi anche a trovarmi alquanto impacciato e smarrito, che da Venezia in quà, il viaggio non fù più tanto facile e piacevole.
Alle ventitrè, le dieci, secondo il nostro modo di computare le ore, sboccammo dall’Apennino, e vedemmo Firenze, stesa e adagiata in un’ampia valle, stupendamente coltivata, e popolatissima di case, e di ville.
Feci una rapida corsa nella città, viddi il duomo ed il battistero. E qui si apre davanti a miei occhi un mondo affatto nuovo e sconosciuto, nel quale però, io non mi voglio trattenere. I giardini di Boboli sono amenissimi, ma io mi affrettai di venirne via.
L’aspetto della città rivela l’agiatezza del popolo che la costrusse; si scorge che ebbe a godere una serie di anni felici. Del resto le opere pubbliche in tutta la Toscana, ponti, strade, presentano un aspetto grandioso. Ogni cosa vi è ordinata, pulita; gli usi, i costumi sono pieni di grazia, in ogni cosa si scorge l’accuratezza. Gli stati del Papa per contro, sembrano sussistere per la sola ragione che la terra li sostiene, e ricusa inghiottirli.
La Toscana si è quanto io vi diceva poco fa, avrebbero potuto essere gli Apennini, trovandosi dessa più depressa. Il mare, in epoche remotissime, ha soddisfatto al suo compito, e ne trasse origine un terreno argilloso, molto profondo, di colore giallicio, e facile ad essere lavorato. Qui si ara la terra profondamente, senz’arrivare però al disotto dello strato vegetale. L’aratro poi non ha ruote, ed il vomero di quello non è mobile. Il bifolco lo guida stando curvato sovr’esso, dietro i suoi buoi, e per tal modo smuove il terreno. Lo lavorano per fino cinque volte, e spargono poco concime colla mano. Finalmente seminano il grano, aprendo solchi nei campi per dare corso alle acque piovane; il grano cresce sulla parte del suolo sollevato fra i solchi, e questi servono a dare passaggio agli agricoltori quando si vuole penetrare nei campi, per isvellere le erbe cattive. Questo metodo di coltivazione si spiega per sè dove si ha da temere l’umidità, ma io non ho potuto comprendere perchè lo si osservi del pari, dove non havvi ombra di questo timore.
Facevo questa osservazione in vicinanza di Arezzo, dove si stende una magnifica pianura. Non è possibile vedere campi più belli; non vi ha una gola di terreno la quale non sia lavorata alla perfezione, preparata alla seminazione. Il fromento vi cresce rigoglioso, e sembra rinvenire in questi terreni tutte le condizioni che si richieggono a farlo prosperare. Nel secondo anno coltivano fave per i cavalli, imperocchè, qui non cresce avena. Seminano pure lupini, i quali ora sono già verdi, e portano i loro frutti nel mese di marzo. Il lino pure è già seminato; stà nella terra tutto l’inverno, ed il freddo, il gelo, lo rendono più tenace.
Gli olivi sono alberi meravigliosi, verdi quanto una prateria; vegetano talvolta tuttora per mezzo della scorza sola screpolata, dopochè venne in decomposizione il tronco. Ad onta di ciò, l’aspetto dell’olivo dura tuttora sano. Osservando le fibre del legno, si scorge che quell’albero cresce lentamente, e che il suo tessuto è compatto. L’olivo poi, non è molto ricco di foglie. Le colline in vicinanza di Firenze sono tutte coltivate a vigna, od olivi, e negl’intervalli fra i filari e le piante, si seminano cereali. Presso Arezzo ed oltre, i campi sono spogli di piante. Trovo che non si mette cura bastante a liberare gli olivi e le altre piante dall’edera, la quale talvolta le circonda, facendo loro danno; non sarebbe però cosa difficile. Non si vedono quasi praterie. Dicono poi che il grano turco stanchi molto il terreno, e che dopo l’introduzione di questo, l’agricoltura abbia perduto; ma io credo si deva invece ciò attribuire alla scarsità di concime.
Questa sera ho preso congedo dal mio capitano, promettendogli di andarlo visitare a Bologna nel mio ritorno. Egli era un vero rappresentante di buon numero de’ suoi connazionali. Voglio citarvi poche parole di lui, le quali basteranno a dare idea del suo carattere. Scorgendo che talvolta non parlavo, che stavo pensando, mi diceva. «A che cosa pensa! L’uomo non deve mai pensare! Pensando s’invecchia.» Ed un altra volta. «L’uomo non deve fermarsi in una cosa sola, perchè allora vien matto! Bisogna avere mille cose, una confusione, nella testa.»
Il brav’uomo, non poteva sapere per dir vero, che io tacevo e, stavo sopra pensieri appunto perchè io aveva nella testa una confusione d’idee nuove, ed antiche. Il fatto seguente varrà meglio ancora a dare idea della coltura di quel tipo italiano. Essendosi egli accorto che io ero protestante, mi domandò dopo alquanta esitazione, se si sarebbe potuto permettere di rivolgermi alcune interrogazioni, desiderando pure di venire in chiaro una volta, di cose per dir vero strane, ch’egli aveva udito intorno ai protestanti. «Potete voi, mi domandò egli, mantenere relazioni geniali con una graziosa ragazza, senza che sia vostra moglie? Ve lo permettono i vostri preti?» Risposi che i nostri preti erano persone prudenti, le quali non si davano pensiero di cotali inezie, ma che però se li volessimo interrogare sul serio sopra un tale argomento, ci direbbero essere la cosa illecita. «Non siete pertanto obbligati, ripigliò, di farne loro domanda? O voi felici! Dal momento che non vi confessate, non siete obbligati a saperne di nulla.» Ed allora prese a scagliare ingiurie e maledizioni contro i suoi preti, ed a vantare la nostra libertà. «Ci si narra, diss’egli, che tutti gli uomini, anche quelli che non sono Cristiani, sono obbligati a confessarsi, se non che, non potendo nella loro cecità conoscere il vero, si confessano ad un vecchio albero, la qual cosa, per quanto sia abbastanza empia e ridicola, basta a provare, che anche quegli uomini riconoscono la necessità della confessione.» Gli manifestai allora l’idea che ci facciamo noi della confessione, ed il modo con cui la pratichiamo. La cosa gli parve molto comoda, ma soggiunse che però non scorgeva grande differenza fra quella, ed il confessarsi ad un vecchio albero. Dopo alquanta esitazione, mi pregò seriamente di volergli ancora chiarire un altro punto. Assicurava aver udito dalla bocca di uno de’ suoi preti, uomo veritiero, che i protestanti potevano sposare le loro sorelle, la qual cosa per vero dire sarebbe stata seria. Allorquando gli risposi non essere ciò vero, e provai dargli un’idea della nostra dottrina, non mi riusci fissare la sua attenzione, ed invece mi fece un’altra domanda. «Ci si accerta, disse, che Federico il Grande, il quale ha riportate cotante vittorie, anche sui veri credenti, e riempito il mondo della sua fama, e che da tutti è ritenuto eretico, sia invece cattolico, ma abbia ottenuto dal Papa la facoltà di tenere nascosta la sua religione; e difatti si sa che non entra mai in nessuna delle vostre chiese, e si assicura che egli pratica il culto divino in una cappella sotto terra, addolorato di non potere confessare in pubblico la sua santa religione, imperocchè quando lo facesse, i suoi Prussiani, uomini bestiali, ed eretici arrabbiati, tosto lo ucciderebbero, misfatto il quale non rimedierebbe a nulla. Eppertanto il Santo Padre gli ha dato quel permesso, affinchè di nascosto ed in silenzio procuri per quanto può diffondere e giovare alla nostra santissima religione.» Tenni la cosa per incerta, rispondendo unicamente, che dal momento sarebbe stata quella un gran segreto, sarebbe difficile trovare chi fosse in grado di darne conto. Tutti i nostri discorsi anteriori furono ad un dipresso della stessa natura, e non potei a meno di ammirare l’abilità del clero cattolico, il quale sa, rimuovere, o rappresentare a suo modo, tutto ciò che può far danno alle sue dottrine.
Partii da Perugia in un mattino stupendo, felice di trovarmi di bel nuovo solo. La posizione della città è bella, e la vista del lago amena. La strada cominciava a scendere, correva in fondo ad un’ampia valle, quindi viddi Assisi.
Sapevo dal Palladio e dal Volckman, esistere colà un bel tempio di Minerva, costrutto ai tempi di Augusto, e tuttora in buonissimo stato. Lasciai presso la Madonna dell’Angelo il mio vetturino, il quale proseguiva il suo viaggio verso Foligno, e salii, con un vento fortissimo, a piedi ad Assisi, provando vivo desiderio di fare una passeggiata in quella solitudine. Lasciai alla mia sinistra le immense costruzioni delle chiese sovrapposte le une alle altre, dove sta la tomba di S. Francesco, le quali punto non mi attraevano, pensando avrei trovato colà impresso il marchio delle idee del mio capitano. Domandai ad un bel giovane la strada di Maria della Minerva, ed egli mi portò alla città, la quale sorge sopra un monte, e giunto finalmente nella parte antica di quella, apparve a miei occhi l’opera stupenda, primo monumento ben conservato dell’antichità, che si offerisse al mio sguardo, tempio modesto quale si conveniva a piccola città, ma cotanto felicemente ideato, ed eseguito con tanta perfezione, che farebbe buona figura dovunque. Prima di tutto si deve porre mente alla sua posizione. Dacchè ho letto nel Palladio e nel Vitruvio, in qual modo si edificassero le città, in quali luoghi si dovessero collocare i templi, gli edifici pubblici, cotali particolari assumono grande importanza a miei occhi, ed anche in questa parte gli antichi erano maestri. Il tempio sorge a mezzana altezza, sul punto del monte dove s’incontrano due colline, nella località denominata in oggi la piazza. Trovasi questa alquanto in pendenza, e sboccano in essa quattro strade, le quali formano una croce di San Andrea, salendo due in alto e scendendo due al basso. È probabile che non sussistessero nei tempi antichi le case le quali sorgono oggidì di fronte al tempio, e che chiudono la vista. Rimosso questo ostacolo la vista si stenderebbe verso il mezzodì, in una contrada fertilissima, ed il tempio sarebbe visibile da ogni parte. La direzione delle strade può essere antica, imperocchè seguono queste la forma e le pendenze del monte. Il tempio non sorge nel mezzo della piazza, ma in modo da essere visto subito, da chi arriva da Roma. Meriterebbero essere disegnati non solo l’edificio, ma la località pure, felicissima.
Non potevo saziarmi di contemplare la facciata, cotanto la è geniale e felicemente connessa in ogni sua parte. È d’ordine corinzio, e le colonne distano l’una dall’altra alquanto più di due moduli. I fusti delle colonne, ed i loro plinti, sembrano sorgere sopra piedestalli, ma non ne hanno che l’apparenza, imperocchè il zoccolo è interrotto in cinque punti, e fra gl’intervalli stanno cinque gradini, i quali portano sul piano dove posano propriamente le colonne, e dal quale si ha l’accesso all’interno del tempio. L’idea d’interrompere il zoccolo, trovava qui la sua retta applicazione, imperocchè, senza di ciò, sorgendo il tempio sopra un monte, sarebbe stato di mestieri prolungare di molto la gradinata, e restringere quindi l’area della piazza. Non si può riconoscere quanti gradini rimangono interrati; sono tutti sotterrati, ad eccezione di pochi, e trovansi ricoperti dal selciato. Mi allontanai a malincuore da quel bel monumento, proponendomi di chiamare sovr’esso l’attenzione degli architetti, meritando quello di essere studiato accuratamente, e disegnato con precisione, imperocchè, provai anche questa volta per esperienza, quanto poco si possa riporre fede nella tradizione. Palladio, nel quale io poneva piena fiducia dà un disegno di questo tempio, ma convien dire non lo abbia mai visto, imperocchè egli fa sorgere le colonne sopra piedestalli che posano sul piano, in guisa che sono alterate le proporzioni tutte della facciata, la quale è ben più pura, ben più graziosa quale la si scorge in realtà. Non potrei esprimere tutto quello che ho provato nel contemplare quel monumento, e non potrò a meno di ricavarne profitto.
Me ne tornavo tutto soddisfatto, scendendo la strada che porta a Roma, per una bellissima sera, quando udii dietro di me grida selvaggie, di persone le quali pareva si disputassero. Ritenni fossero alcuni birri, che avevo osservati di già nella città, e senza badare ad altro continuai la mia strada, dando però ascolto a quanto succedeva alle spalle, e non tardai guari ad accorgermi, che si trattava della mia persona. Quattro di quegli schiamazzatori, due dei quali armati di schioppo, e di aspetto tutt’altro che benevolo, mi passarono davanti, borbottando alcune parole, e fatti pochi passi si volsero, e mi circondarono, domandandomi chi io fossi e che cosa stessi facendo colà? Risposi essere forastiero, ed essere venuto a piedi in Assisi, mentre il mio vetturino proseguiva il suo viaggio per Foligno. Non parve loro probabile che uno pagasse una carrozza per camminare a piedi. Mi domandarono se io fossi stato al Gran Convento. Risposi di no, soggiungendo, che conoscendo quello da buona pezza, ed essendo architetto, avevo voluto questa volta visitare unicamente S. Maria della Minerva, la quale come ben sapevano, era un prezioso edificio. Non lo negarono, ma trovarono male che io non fossi andato far visita pure al santo, ed emisero il sospetto che io potessi pur anco essere un contrabbandiere. Loro replicai ridendo, essere pure strano sospettassero di contrabbando un uomo, il quale se ne viaggiava solo, colle tasche vuote, e senza valigia o zaino; ed inoltre loro proposi di portarmi seco loro nella città, di presentarmi al podestà, al quale avrei fatto vedere le mie carte, le quali avrebbero provato essere io un forastiero onorato e dabbene. Borbottarono alcune parole, dicendo non essere ciò necessario, e quando rinnovai con fermezza la mia proposta, finirono per allontanarsi, ripigliando la strada verso la città. Li accompagnavo coll’occhio, vedendo ancora una volta il prezioso aspetto del tempio di Minerva, che pareva volermi consolare dello spiacevole incidente, quindi gettai uno sguardo a sinistra, sulla malinconica. chiesa di S. Francesco, e stavo per proseguire la mia strada, allorquando uno di quegli uomini disarmati si staccò dagli altri, mi venne incontro con aspetto cortese, e salutandomi mi disse: «Dovreste pure, signor forastiero, darmi almeno una mancia; imperocchè io ho tosto riconosciuto che voi eravate uomo dabbene, e lo sostenni contro tutti i miei compagni. Se non che, sono quelli teste calde, e non hanno conoscenza del mondo. Avrete osservato fuor di dubbio, che io sono stato il primo a prestar fede alle vostre parole, ed a dare peso a quelle.» Gli feci i miei complimenti, animandolo a volere proteggere i forastieri onorati, i quali si porteranno in Assisi, sia per sentimento di religione, sia per amore dell’arte, e fra quelli specialmente gli architetti, i quali, tratti dalla fama della città e del tempio di Minerva, che non era mai stato finora nè disegnato nè inciso a dovere, non potevano mancare di venire, per rilevarne le misure, ed i disegni. Gli soggiunsi, che aiutandoli avrebbe avuta prova della loro gratitudine, ed intanto lo regalai di alcune monete che lo rallegrarono, anche per la lieta prospettiva di poterne intascare altre. Mi raccomandò di ritornare, e sovratutto di non mancare alla festa di S. Francesco, nella quale avrei avuta occasione di divertirmi, soggiungendo che ad un par mio dovendo pure spettare una bella donna, sarei stato sulla sua raccomandazione accolto con piacere in casa della più bella e più onorevole donna di Assisi. Prese da me congedo, protestando che di questa sera stessa si sarebbe ricordato di me presso la tomba di S. Francesco, ed avrebbe pregato per il mio felice viaggio. Finalmente se n’andò, e rimasi felice di trovarmi solo di bel nuovo in presenza delle bellezze naturali, essendo la strada da Assisi a Foligno la più amena che si possa imaginare, correndo per quattro ore sopra un monte, colla vista, a diritta, di una valle benissimo coltivata.
Col vetturino si viaggia male, ed i tratti migliori di strada sono ancora quelli ne quali lo si segue a piedi. Da Ferrara in quà ho fatto buona parte del viaggio a questo modo. Quest’Italia cotanto privilegiata dalla natura, è rimasta l’ultimo paese del mondo nelle cose meccaniche e tecniche, le quali procacciano vita facile, e comoda. Il legno de’ vetturini, la sedia come qui la chiamano, è fuor di dubbio una modificazione dell’antica lettiga, nella quale si facevano trasportare un tempo dai muli le donne, i vecchi, ed i personaggi distinti. A vece del mulo, che stava a tergo, il quale ora si attacca di fianco all’altro, ad una delle due barre che sortengono la lettiga, si sottoposero a questa due ruote, e tutto fu detto; non si pensò ad altra miglioria. Si continua ad essere scosso, balestrato, dondolato, in avanti, addietro, a destra, a sinistra, come da secoli e secoli, e così sono nelle loro abitazioni, in ogni altra cosa.
Quando si abbia desiderio di vedere riprodotte al vero le antiche idee poetiche degli uomini che vivevano all’aria libera, e che soltanto quando vi erano costretti dalla necessità cercavano rifugio nelle caverne, non si avranno che a visitare le abitazioni di queste contrade, nelle campagne particolarmente, le quali si possono qualificare vere caverne. Tanta noncuranza avrà la sua origine nel ricusarsi a pensare, per non invecchiare. Trascurano con una leggerezza incredibile di provvedere all’inverno, alle lunghe notti di questo, e vivono buona parte dell’anno quasi cani. Scrivo queste righe a Foligno, sotto una specie di portico di una semplicità omerica, dove tutti stanno gridando e facendo chiasso attorno ad un fuoco, il quale arde sulla terra, seduto ad una lunga tavola da pranzo, come quella che si dipinge per le nozze di Cana, dopochè mi fu possibile ottenere un calamaio, al quale io non aveva pensato; e dall’aspetto stesso di questo foglio, potrete riconoscere come io scriva a disagio, ed assiderato per il freddo.
Ora io mi accorgo della imprudenza commessa nell’intraprendere questo viaggio solo, e senza essermivi preparato. Colla diversità delle monete, dei prezzi, con i vetturini, colle locande pessime, la è una miseria di ogni giorno per uno che viene qui per la prima volta, e solo: ed a vece del piacere, e della soddisfazione che io speravo e mi ripromettevo, mi trovo di continuo ad ogni istante molestato da qualche contrarietà. Se non che io non ho mai avuto desiderio maggiore di quello di visitare questa contrada a qualunque costo, e quando anche io mi fossi dovuto trascinare a Roma sulla ruota d’Issione, non ne avrei mossa lagnanza.
Terni, il 27 Ottobre a sera.
Scrivo ancora una volta in una specie di caverna, la quale per giunta ebbe a soffrire un anno fa dal terremoto; la città trovasi collocata in una amena contrada; della cui vista ho potuto godere, facendo una passeggiata attorno alle mura; la quale si stende fra monti, che sono questi ancora calcari. Al pari di Bologna dall’altra parte dell’Apennino, giace Terni pure da questa parte, al piede dei monti.
Ed ora che ho abbandonato il capitano pontificio, mi trovo ad avere compagno di viaggio un prete. Questi pare più soddifatto del suo stato, e tuttochè sappia che io sono eretico, risponde cortesemente alle mie domande intorno al culto cattolico, non che ad altri argomenti d’identica natura. Nel trovarmi poi ad ogni momento fra persone nuove ottengo il mio scopo; basta udire parlare il popolo, per potersi fare un idea esatta dell’indole di una contrada. Sono in questa tutti gli uni contro gli altri in modo strano; possedono un amore proprio municipale e provinciale vivissimo, ma si detestano poi tutti a vicenda; tutte le classi stanno in guerra le une contro le altre; e nella vivacità delle loro passioni compaiono tali quali sono, senza cercare a velare i loro difetti, e porgono al forestiero uno spettacolo curioso sempre, e talvolta anche comico.
Sono salito a Spoleto, e mi sono portato sull’acquedotto il quale serve in pari tempo di ponte, per riunire due monti. I dieci archi che attraversano la valle, sono costrutti in pietra; durano da secoli, e portano l’acqua in ogni punto della città. Ed è questo il terzo monumento che io vedo dell’antichità; desso pure di carattere grandioso. L’architettura di que’ tempi è quasi una seconda natura, la quale corrisponde agli usi civili, e da quelli ripetono la loro origine l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto. Comprendo ora come avessi ragione nell’odiare tutti gli arbitri, i capricci, quali a cagion d’esempio la casina sul Weissenstein, il nulla per il nulla, tutta quella profusione di ornati meschini, e simili cose. Tutto ciò non ha vita, è morto dalla nascita, imperocchè tutto quanto non ha esistenza propria, non ha vita, non può nè essere, nè diventare grande.
Quanta soddisfazione non ho io provata da otto settimane; quanto non si allargò la cerchia delle mie idee! Confesso però che non fù senza fatica! Tengo di continuo gli occhi aperti, e m’imprimo gli oggetti nella mente. Senza di ciò non mi sarebbe possibile portarne giudizio.
Non posso ritenere il Santo Crocifisso, cappella d’aspetto singolare che trovasi sulla strada, quale avanzo di un tempio antico che sorgesse in quella località, ma bensì quale una riunione, eseguita non solo senza intelligenza, ma in un modo addirittura pazzo, di colonne, di pilastri, di architravi, rinvenuti forse sul luogo. Sarebbe impossibile il farne una descrizione, ma può darsi sia stata quella chiesa disegnata ed incisa.
La è cosa dolorosa intanto, mentre si cerca studiare l’antichità, il trovarsi di fronte unicamente a rovine, le quali si devono ricostituire coll’imaginazione, per potersene formare un’idea.
Le condizioni sono diverse, relativamente a quella che ha nome di terra classica. Allorquando si frena la fantasia, e si considera la contrada quale sussiste tuttora, la è pur sempre quella la quale fu testimone di grandi fatti storici, e pertanto io l’ho sempre esaminata fin qui piuttosto dal punto di vista geologico e pittorico, allo scopo di non lasciarmi fuorviare dall’imaginazione, e di potermi formare un’idea chiara e precisa delle località. Ad onta di tutto ciò, sorgono ad ogni passo i ricordi della storia, ed io provo un intenso desiderio di rileggere Tacito a Roma.
Devo poi fare ancora una volta parola del tempo. Dopo che partii da Bologna, e che attraversai l’Apennino, le nuvole correvano sempre verso tramontana; più tardi mutarono direzione, avviandosi verso il lago Trasimeno. I venti pertanto, a vece di spingere tutte le nuvole per la vasta pianura del Po verso i monti del Tirolo, ne mandano parte verso gli Apennini, ed è probabile che cadrà pioggia.
Si cominciano qui a raccogliere le olive; in alcuni luoghi le si colgono a mano, in altri le si cacciano a terra, battendo le piante con bastoni. Se l’inverno è precoce, quelle che rimangono si lasciano sull’albero sino alla primavera, ed oggi ho osservato in un terreno sassoso, gli alberi d’olivo i più grossi che io abbia visto fin qui.
Il favore delle muse come quello dei demoni, non ci visita sempre a tempo opportuno. Oggi mi sentivo spinto ad esprimere pensieri, idee, le quali non arrivavano per dir vero in buon punto. Avvicinandomi al centro del cattolicismo, attorniato da cattolici, rinchiuso con un prete in una sedia angusta, mentre mi proponevo di osservare accuratamente le bellezze della natura, i pregi dell’arte, mi balenò il pensiero che ogni traccia del Cristianesimo primitivo è scomparsa; e nel rappresentarmelo quale era nella sua purezza, a suoi primi tempi, quale lo leggiamo descritto negli atti degli Apostoli, rimasi spaventato nello scorgere come da quei principii purissimi, siasi trasformato in una specie di paganesimo strano e difforme. Ed allora mi sovvenne del giudeo errante, testimonio di tutte queste vicende, di tutte queste trasformazioni, le quali portarono le cose al punto, che se Gesù Cristo stesso facesse ritorno sulla terra, per cercar conto dell’esito delle sue dottrine, correrebbe rischio di essere posto una seconda volta in croce. La leggenda venio iterum crucifigi, mi potrebbe servire di tela, a svolgere, ed a trattare quell’argomento.
Per tal modo io vo vaneggiando, imperocchè, per l’impazienza di arrivare, mi corico vestito, e non trovo niente di più piacevole che di essere svegliato prima di giorno, di cacciarmi entro la mia sedia, e di passare tutta quanta la giornata fra il sonno e la veglia, fantasticando.
Civita Castellana, il 28 Ottobre.
Non voglio mancare di scrivere quest’ultima sera. Non sono ancora le otto, e tutti già se n’andarono a letto; cosicchè mi rimane tempo ancora ed agio, a riandare un passato piacevole, a rallegrarmi di un prossimo avvenire. Oggi ebbi una bellissima giornata; al mattino per dir vero faceva molto freddo, ma più tardi sorse il sole, che durò caldo e limpidissimo, e la sera fu bellissima, ad onta di alcun poco di vento.
Partimmo da Terni di buonissima ora, tanto che non era giorno ancora, allorquando giungemmo a Narni, cosicchè non ho potuto vedervi i ponti. Viaggiammo per valli e per gole, contrade tutte di monti calcari, belle, tanto in vicinanza che in distanza, senza che io abbia potuto vedere traccia di roccie di altra specie.
Otricoli sorge sopra una collina ghiaiosa, la quale deve la sua formazione all’azione remota delle acque, e le sue case sono costrutte in lava, tolta dalla parte opposta del fiume.
Difatti, varcato appena il ponte, s’incontrano terreni volcanici, siano che debbono questi la loro origine a vera lava, ovvero alle roccie primitive trasmutate dall’azione del fuoco. Si sale un eminenza, la quale si può ritenere di lava, di tinta grigia, contenente molti cristalli bianchi, a forma di granate. La strada liscia e buonissima, la quale da quell’altura porta a Civita Castellana, è formata di quella specie di lava, e Civita poi, è fabbricata in un tuffo volcanico, nel quale mi pare avere rinvenute ceneri, pietre pomici, e frantumi di lava. Dal castello si gode bellissima vista. Si scorge il monte Sorratte che sorge isolato, e che probabilmente è monte di natura calcare ed appartenente alla catena degli Apennini. I terreni di natura volcanica sono più bassi che l’Apennino, ed i loro accidenti di terreno devono la loro origine unicamente all’azione delle acque, come si può rilevare dall’aspetto svariato, strano talvolta, ma sempre eminemente pittorico, delle loro roccie.
Domani sera pertanto sarò a Roma; duro fatica tuttora a prestarvi fede, e che cosa mi rimarrà a desiderare, quando avrò soddisfatto questo mio desiderio? Non saprei trovare altro, se non di potere arrivare a casa colla mia barca carica di fagiani, e di trovarvi i miei amici in buona salute, di buon umore, e benevoli a mio riguardo.