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disfazione per il modo con cui venne trattato. Qualunque si fosse l’argomento, era trattato a perfezione, e dipinto poi, quasi fosse smalto.

Mi accadde pertanto come a Balaam, il profeta confuso, il quale benediva nel mentre credeva scagliare maledizioni, e ciò mi avverrebbe fuori di dubbio soventi, quando io mi trattenessi qui a lungo.

Così pure se io mi trovo di bel nuovo in presenza di un quadro di Rafaello, o che quanto meno gli sii attribuito con una certa probabilità, ne provo del pari grandissimo piacere. Vidi di questi una S. Agata, quadro pregevolissimo, tuttochè abbia sofferto non poco. L’artista produsse l’aspetto di una vergine florida, sicura di sè, però senz’ombra nè di freddezza, nè di durezza. Ho ritenuta benissimo quella figura, ed intendo leggerle in imaginazione la mia Ifigenia, e non far dire alla mia eroina cosa, che non avesse potuto dire pure questa santa.

E poichè ho fatto ancora una volta parola di questo dolce peso, che porto meco nelle mie peregrinazioni, non posso tacere che i grandi capolavori e le bellezze naturali fra cui mi aggiro, fanno sorgere intorno a me una serie meravigliosa di figure poetiche, le quali mi danno da pensare. Nel partire da Cento, volli riprendere il mio lavoro; l’imaginazione mi trasportò l’argomento dell’Ifigenia da Delfo, e mi fù mestieri stenderne la traccia, della quale voglio dare qui un idea, la più concisa che mi sarà possibile.

Elettra nella sicura speranza che Oreste recherà a Delfo dalla Tauride l’imagine di Diana, appare nel tempio di Apollo, e vi offre quale sacrificio di propiziazione, la crudele scure che arrecò tanti danni alla casa di Pelope. Se non che, pur troppo arriva uno dei Gerci, e le narra come egli abbia accompagnati Oreste e Pilade nella Tauride, ed ivi abbia visto portare a morte i due amici, e gli sia riuscito salvarsi. L’infelice Elettra va fuori dei sensi, e non sa più contro chi debba volgere la sua ira, se contro gli Dei, o contro gli uomini.