Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte I/Roma
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1875)
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ROMA
Roma, il 1° novembre 1786.
Finalmente posso aprire la bocca, e mandare un lieto saluto a miei amici. Mi sia perdonato il segreto, e la partenza di nascosto. Osavo appena confessare a me stesso dove ero diretto; per istrada ancora, temevo di non arrivare, e soltanto quando varcai la Porta del Popolo, fui certo di trovarmi a Roma.
Lasciate ancora che io vi dica che vi ricordo le mille volte, anzi sempre, in presenza di tanti oggetti, che non avrei mai creduto di visitare solo. Soltanto per aver visto che ognuno era attaccato anima e corpo al Settentrione, quasi fosse scomparsa ogni attrativa da queste contrade, io mi sono deciso ad intraprendere questo lungo viaggio tutto solo, ed a cercare quel centro de’ miei desideri, al quale mi trovavo spinto da una forza irresistibile. Anzi negli ultimi anni era questa diventata una specie di malattia morale, che solo l’aspetto di questi luoghi, poteva guarire. Ora lo posso confessare; negli ultimi tempi io non potevo più nè leggere un libro latino, nè gettare lo sguardo sopra una vista d’Italia. Il desiderio di visitare queste contrade, era diventato per me una necessità. Ora che lo avrò soddisfatto, mi torneranno tanto più cara la mia patria, più cari i miei amici, e proverò tanto maggiore soddisfazione nel ritornare costì, in quanto chè sento con certezza che non terrò solo per mio uso, ed a mio solo vantaggio i tesori raccolti, ma che saranno questi a disposizione di tutti.
Roma il 1.° Novembre 1786.
Sì; io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuto visitare quindici anni sono, in buona compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più tardi.
Non mi sono quasi fermato sui monti del Tirolo. Visitai abbastanza bene Verona, Vicenza, Padova, e Venezia; rapidamente Ferrara, Cento e Bologna; e quasi non posso dire di avere visto Firenze. Ma il mio desiderio di arrivare a Roma era cotanto vivo, e cresceva per tal modo ad ogni istante, che non mi riusciva possibile il fermarmi, e non mi trattenni più di tre ore a Firenze. Ora mi trovo qui in calma, e pare avrò questa per tutta la mia vita. Imperocchè, si può dire cominciare una vita nuova, allorquando si vedono co’ propri occhi, ed in complesso, quelle cose le quali si conoscono unicamente per relazione, ed in parte soltanto. Vedo ora qui avverati i sogni della mia prima gioventù; vedo nella loro realtà le prime stampe di cui abbia memoria, quelle viste di Roma, le quali stavano appese alle pareti dell’anticamera, nella casa paterna; vedo ora nella loro realtà esposti tutti a miei sguardi, quegli oggetti che già conoscevo dai dipinti, dai disegni, dalle incisioni in rame ed in legno, dalle riproduzioni in gesso, ed in sughero; dovunque io mi aggiro, trovo una conoscenza, in un mondo nuovo; tutto mi riesce nuovo, ad onta sia ogni cosa, quale io me la rappresentavo. E potrei dirne altrettanto delle mie idee, delle mie osservazioni. Non ho avuto pensieri nuovi; non ho trovata cosa che già io non conoscessi, ma le mie antiche idee sono cotanto vive, cotanto precise, cotanto connesse, che io le posso ritenere nuove.
Nella stessa guisa Pigmalione che aveva formata la sua statua cotanto a norma de’ suoi desideri, dando a quella tanta verità, e tanta vita, quanto ne può dare un artista, dovette pure trovarla diversa, allorquando il marmo animato muovendo incontro a lui gli disse: «io sono quella!»
E parimenti mi dovrà giovare il trovarmi a contatto di un popolo totalmente sensuale, intorno al quale tanto si è parlato e scritto, e che giudica tutti i forastieri a norma delle sue proprie idee. Sono disposto a perdonare, a chi lo trascina, e lo disapprova; è troppa la differenza che passa fra noi, ed il trovarsi nella qualità di forastiero in relazione con esso, è difficile, e costoso.
Il 3 Novembre.
Uno dei motivi principali che mi spingevavo ad affrettare la mia venuta a Roma, era la festa di Ognissanti, il primo di questo mese, imperocchè io pensavo, che se si rendono cotanti onori ad un santo solo, grandi cose si dovessero pur fare, per i santi tutti. Se non che, io mi trovavo in un profondo errore. La chiesa romana non ha stabilita una festa generale, grandiosa, per tutti i santi; ed ogni ordine religioso può festeggiare tranquillamente la memoria del suo patrono, imperocchè il giorno onomastico, e gli onori che in quello si rendono al santo, sono dedicati interamente a questi.
Ieri però, giorno dei morti, ebbi migliore ventura. Il Papa celebra questa festa nella sua cappella privata del Quirinale. Ognuno vi ha libero accesso, ed io mi affrettai a portarmi a Monte cavallo con Tischbein1. La piazza davanti al palazzo è propriamente caratteristica, e tuttochè irregolare, presenta aspetto piacevole, e grandioso. Vidi finalmente i due colossi, e non bastano nè l’occhio, nè la mente, a formarsene idea corrispondente. Ci affrettammo ad entrare colla folla in un ampia e stupenda corte, ed a salire per una scala grandiosa. In quella sala, di fronte alla cappella, alla vista di quella lunga serie di stanze, si prova un senso di riverenza, per trovarsi sotto un medesimo tetto con il vicario di Cristo.
La funzione era cominciata; il Papa ed i Cardinali si trovavano di già nella chiesa. Il santo padre è di aspetto bellissimo, ed imponente; i cardinali sono di varie età, e di diversa presenza.
Avrei avuto un vivo desiderio di udire il capo supremo della chiesa cattolica, dischiudere l’aurea bocca, e parlare della felicità indicibile delle anime sante, in modo da rapirmi in estasi. Se non che, nel vederlo muoversi unicamente davanti all’altare, volgendosi ora all’uno ora all’altra parte, facendo gesti, atti, e mormorando preghiere, nè più nè meno che qualunque altro sacerdote, si risvegliò in me il sentimento protestante, e non provai piacere di sorta alla vista della funzione, che già mi era nota, per avere assistito altre volte alla messa. Cristo del resto, insegnò oralmente fin da ragazzo la sua dottrina, ed anche nella sua gioventù non si rinchiuse nel silenzio, risultandoci dal Vangelo che parlava spesso, volontieri, e stupendamente. Che cosa mai direbbe, pensavo io, se qui apparisse, se vedesse il suo rappresentante sulla terra muoversi a quel modo, ora di quà, ora di là, mormorando, a fior di labbra, parole inintelligibili? Mi sovvenne ancora una volta del venio iterum crucifigi, e fatto cenno al mio compagno di volere uscire, tornammo nell’ampia sala, ricca di dipinti.
Trovammo ivi radunata grande quantità di persone, le quali stavano osservando le preziose pitture, imperocchè questa festa di Ognissanti, è pure la festa di tutti gli artisti di Roma. Non solo la cappella, ma tutto quanto il palazzo, sono in questo giorno accessibili ad ognuno, per varie ore; non vi ha d’uopo di dare mancie, e si è liberi dalle molestie del custode.
Stavo contemplando le pitture a fresco delle pareti, imparando a conoscere ed apprezzare pittori, dei quali non conoscevo neppure i nomi, come a cagion d’esempio, Carlo Maratti.
Però mi tornavano più accette le opere di quei pittori, de’ quali già conoscevo l’indole, e la maniera. Ammirai in modo particolare la Santa Petronilla del Guercino, la quale stava già in S. Pietro, dove venne sostituita all’originale una copia in mosaico. Si vede il cadavere della santa sotto alla tomba, richiamato a novella vita, ed a giovinezza eterna in cielo; si potrà dire quello che si vorrà di questa doppia azione, il quadro non cesserà per questo dall’essere stupendo.
Mi colpì però maggiormente ancora un quadro del Tiziano, il quale supera tutto quanto ho visto finora; non saprei dire poi, se per vero suo merito, o perchè il mio occhio cominci ad essere più esercitato. Rappresenta quello una figura imponente di vescovo, in pieno costume sacerdotale, ricco di ricami e di ornati svariatissimi, in oro. Volge gli occhi al cielo, appoggiandosi colla sinistra a poderoso bastone pastorale, tenendo nella destra un libro, dove si direbbe abbia trovata in quello stesso momento rivelazione divina. Sorge dietro lui una bella figura di giovane donna, la quale tiene una palma nella mano, e sembra gettare lo sguardo sul libro aperto, e prendere viva parte a quanto in esso si legge. Per contro si scorge alla destra un vecchio, di aspetto serio, il quale, tuttocchè vicinissimo al libro, non pare fare, verun caso di questo, imperocchè, tenendo nelle mani le chiavi, non ha d’uopo di chi glie ne apra il senso. Di fronte a quel gruppo si scorge un giovane nudo, di forme bellissime, legato, e bersagliato da freccie, il quale volge lo sguardo davanti a sè in atto modesto. Negli spazi intermedi si scorgono due monaci i quali portano la croce ed i gigli, e che stanno inginocchiati in atto di adorazione davanti ai santi. Il muro, di forma semicircolare, che forma il fondo di tutte queste figure, trovasi aperto in alto, ed ivi si scorge fra le nuvole la Vergine, la quale volge amorevolmente lo sguardo al basso. Tiene in grembo un bambino graziosissimo, il quale sorride, porgendo una corona, che si direbbe stia quasi per gettare al basso; e da entrambi i lati poi si scorgono angeli, i quali porgono corone in abbondanza, mentre più in alto, sopra l’imagine raggiante della Trinità, si scorge la mistica colomba, la quale forma per così dire il centro ed il vertice, di tutta l’azione.
Si potrebbe dire che siasi voluta rappresentare in questo quadro un’antica tradizione, riunendo nel miglior modo possibile, figure cotanto diverse le une dalle altre, cotanto disparate. Se non che, non sorge l’idea di ricercare quale sia il senso recondito del quadro; lo si accetta quale si porge, non pensando ad altro, fuorchè ad ammirare l’inarrivabile perfezione dell’esecuzione. Alcun poco più intelligibile, ma pur sempre misterioso, si è un dipinto del Guido, che si scorge nella cappella la quale porta il suo nome. Si vede la Vergine giovanissima, di aspetto graziosissimo, pudica, la quale siede sola in atto di cucire, con due angeli a fianco, i quali sembrano pendere da suoi cenni. Quel quadro graziosissimo c’insegna ad onorare l’innocenza, ed il lavoro, protetti dal cielo. Non ha d’uopo nè di leggenda, nè d’interpretazione.
Ed ora per fare diversione a tutta questa serietà artistica, vi voglio narrare un caso piacevole. Avevo osservato di già, che parecchi artisti tedeschi, dopo avere scambiate poche parole con Tischbein che conoscevano, mi guardavano, passando sù e giù davanti a me. Tischbein, il quale si era allontanato per pochi istanti, mi si avvicinò di nuovo dicendomi «Il caso è piacevole; si è sparsa già la voce che siamo qui, e l’attenzione degli artisti si è fissata a cercare i due soli stranieri che non conoscono. Ora vi era uno di noi, il quale accertò averli riconosciuti; essere stato anzi seco loro in relazione; cosa alla quale non si era guari disposto a prestar fede. Fu richiesto di osservarci, e di sciogliere il dubbio, ed egli ha risposto che noi non siamo noi, e che non abbiamo nessuna rassomiglianza colle nostre persone, in guisa che, per il momento almeno, l’incognito è protetto; ed in seguito ci porgerà congiuntura di ridere e divertirci.»
Dopo di ciò mi mescolai con maggiore franchezza alla schiera degli artisti, richiedendoli del nome degli autori di parecchi quadri, de’ quali non conoscevo ancora la maniera. Per ultimo mi colpì un quadro, il quale rappresentava S. Giorgio, nell’atto di atterrare il drago, e di liberare la Vergine. Nessuno era in grado di nomarmene l’autore, allorquando mi si accostò un signore di bassa statura, di aspetto modesto, il quale fino allora non aveva pronunciata parola, e che mi disse essere quel quadro del Pordenone pittore veneziano, ed una fra le migliori sue opere, e che più valse a stabilire la sua fama. Allora mi potei spiegare meglio l’impressione favorevole che quel quadro mi aveva prodotto; imperocchè essendo di scuola veneziana che già conosco, mi trovai in grado di apprezzare maggiormente l’abilità del maestro.
Il gentile artista il quale mi aveva favorito quella spiegazione, si era Enrico Meyer, svizzero, il quale si trova da vari anni qui a studiare, con un suo amico Colla, e che oltre al riprodurre con molta maestria alla seppia i busti antichi, è molto versato pure nella storia dell’arte.
Roma, il 7 novembre.
Mi trovo qui da sette giorni, e mi vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Giriamo continuamente, vo acquistando cognizione della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine, gli edifici, visito ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più notevoli; cammino sù e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa, imperocchè soltanto a Roma, è possibile prepararsi a conoscere Roma.
Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione. Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni.
Quando si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure dessa sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora traccie del carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra; e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho fatto altro che cercare a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla quale cosa mirabilmente giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè, a partire dal secolo XV ai giorni nostri, valenti artisti ed eruditi, dedicarono a quegli studi tutta intera la loro vita.
Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente nel percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa, che si resta stanchi, quasi spossati dal continuo vedere, ed ammirare.
Il 7 Novembre 1786.
Abbiatemi per iscusato, amici miei, se quindinnanzi mi troverete scarso di notizie; fintanto che si viaggia, si raccoglie sempre qualcosa per istrada; ogni giorno si ha qualche novità a narrare; corrono il pensiero, la penna, il giudicare. Qui invece si vive quasi in una grande scuola, dove s’impara cotanto in un giorno, che non si sa da qual parte cominciare ad esporlo. Per farlo a dovere, converrebbe stare qui vari anni, ed osservare un silenzio pittagorico.
Stessa data.
Io stò benissimo. Il tempo è come dicono i romani brutto; regna vento di mezzodì, scirocco, il quale reca ogni giorno pioggia più o meno, ma per conto mio non mi lagno di questo tempo abbastanza caldo, ad un dipresso quali sono da noi nella state, i giorni ne’ quali non piove.
Il 7 Novembre.
Apprendo ogni giorno più ad apprezzare il talento di Tischbein, non che i suoi principii, e le sue viste intorno all’arte. Egli mi ha fatto vedere i suoi disegni ed i suoi schizzi, i quali sono propriamente belli, e promettono molto. Il suo soggiorno presso Bodmer ha chiamata la sua attenzione sui primi tempi della stirpe umana, allorquando questa aveva preso possesso della terra, e doveva sciogliere il problema, di diventare padrona del mondo.
Quale introduzione al complesso del quadro di quell’epoca, egli si studiò di rappresentare in modo visibile l’epoca, la più remota del mondo, montagne rivestite di stupende foreste, gole profonde scavate da torrenti furiosi, volcani in ebullizione i quali cominciano appena a fumare, e sul davanti un tronco, rimasto in piedi, di un elce annoso, con un pastore il quale prova contro le radici a metà scoperte di quello, la forza di resistenza del suo bastone, il tutto felicemente ideato, e lodevolmente eseguito.
In un altro foglio stupendo, rappresentò l’uomo domatore del cavallo, e di tutti gli altri animali, come parimenti vincitore dell’aria e delle acque, se non sempre colla forza, coll’artifizio. La composizione di quel disegno è stupenda, e ritengo, che dipinto ad olio produrebbe un grande effetto. Converrà pensare ad avere una copia di quel disegno per Weimar. Ora egli sta pensando di fare una collezione d’uomini illustri dell’antichità, nella quale avrà occasione di riprodurre figure dal vero. Ha fatto poi lo schizzo, pieno di vita, di una battaglia, nella quale due corpi di cavalleria si attaccano con vera furia, in un terreno attraversato da un profondo burrone, che i cavalli durano la più grande fatica a superare. Non havvi luogo in quella composizione a pensare alla difesa. Rappresenta unicamente la furia dell’attacco, l’energia della risoluzione; il burrone superato, ovvero la caduta in quello, dei cavalli e dei cavalieri. Questo quadro gli darà occasione di rivelare la cognizione ch’egli possiede dei cavalli, de’ quali ha studiato a fondo le forme, ed i movimenti.
Egli desidererebbe di rannodare quei disegni e vari altri ad un poema, il quale valesse a darne la spiegazione, mentre riceverebbe questo a sua volta maggiore importanza ed attrattiva dai disegni. L’idea è felice; se non che, per tradurla in atto, converrebbe vivere assieme parecchi anni.
Il 7 novembre.
Finora non ho visto che una volta sola le loggie di Rafaello, e la scuola d’Atene, la qual cosa sarebbe quanto il volere studiare Omero, in un manoscritto monco e difettoso. Al primo aspetto non procurano soddisfazione completa; è d’uopo studiarle a lungo, osservarle attentamente, per potere apprezzare quelle opere in ogni loro parte. Le pitture meglio conservate sono quelle delle volte delle loggie, le quali rappresentano fatti della bibbia. Poche per dir vero sono opera propriamente di Rafaello; la massima parte venne eseguita sopra i suoi disegni, e sotto la sua direzione, ma quelle volte lo furono a dovere, e paiono dipinte ieri.
Il 7 novembre.
Nella mia gioventù ho nudrito parecchie volte il desiderio di potere fare il viaggio d’Italia con un uomo colto, con un Inglese a cagion d’esempio, versato nell’arte e nella storia, ed ora posso dire, che quel mio sogno si è avverato, assai meglio di quanto non avrei osato sperare. Tischbein viveva da molto tempo qui quale mio migliore amico, con il desiderio di farmi vedere Roma; ci conoscevamo da buona pezza per corrispondenza, ora ci conosciamo di persona; quale migliore guida avrei potuto io desiderare? Duolmi solo che il mio tempo è ristretto, se non chè, farò tutto il mio possibile, per impiegarlo a dovere.
E da tutto quanto io vado scorgendo, prevedo che sorgerammi desiderio di tornare, allorquando dovrò partire.
L’8 novembre.
Il mio semi incognito, strano se volete ed anche alquanto capriccioso, mi arreca vantaggi ai quali non avrei pensato. Dal momento che ognuno si ritiene obbligato di fingere d’ignorare chi io sia, ed ognuno si astiene dal parlar meco della mia persona, non possono far altro tutti fuorchè parlare di sè o delle cose che loro stanno a cuore, e per tal guisa apprendo ogni giorno quali siano le occupazioni di ognuno, quanto si faccia, ovvero sorga di pregevole. Il consigliere aulico Reifenstein2 secondò, desso pure, questo mio capriccio; se non che riuscendogli meno accetto per certe sue ragioni particolari il nome che io avevo scelto, mi ha creato barone senz’altro, ed io non sono denominato più altrimenti che il barone il quale stà di fronte a Rondanini, ovvero semplicemente il barone, senz’altra aggiunta; e ciò tanto più facilmente, che in Italia corre molto l’usanza di designare le persone unicamente con i loro prenomi, ovvero sopranomi. Ma intanto io raggiungo il mio scopo, di scansare la noia di dovere dar conto di continuo della mia persona, e de’ miei lavori.
Il 9 Novembre.
Talvolta io mi soffermo a ricordare le cose già viste. Penso volontieri a Venezia, a quella creazione grandiosa in seno al mare, sorta come Pallade armata dal cervello di Giove. Qui la Rotonda, tanto internamente quanto all’esterno, mi ha fatta profonda impressione per il suo carattere grandioso. In S. Pietro sono riuscito a comprendere come l’arte, al pari della natura, può accrescere tutte le proporzioni; e l’Apollo del Belvedere mi ha persuaso della verità di questa osservazione. Imperocchè, nella stessa guisa non valgono i migliori disegni a dare un’idea di quell’edificio, non erano valse le copie in gesso, che io già conosceva da buona pezza, a darmi idea del pregio della statua originale in marmo.
Il 10 Novembre 1786.
Io vivo qui in una condizione di quiete, di serenità, che non conoscevo da buona pezza. Il mio costume di vedere e considerare le cose quali sono; la mia costanza nel lasciare gli occhi aperti alla luce; la totale mancanza di ogni pretesa, mi riescono utili ancora questa volta, e mi rendono pienamente felice, nella quiete della mia vita attuale. Ogni giorno un qualche oggetto nuovo, meraviglioso; ogni giorno imagini fresche, grandiose, rare, ed un complesso che si vagheggiava da lungo tempo, ma che non si riusciva mai ad imaginare.
Oggi sono stato alla piramide di Cestio, e verso sera sul monte Palatino, dove sorgono imponenti le mura in rovina, del palazzo dei Cesari. Non è possibile, io credo, trovare vista uguale a questa. Nulla propriamente si scorge di meschino, tuttochè non manchi quà e là qualcosa, che si vorrebbe togliere, biasimare; ma queste parti, desse pure concorrono alla grandezza del complesso.
Nel rientrare poi in me stesso, nel prendere ad esame le proprie sensazioni come si fa con piacere in ogni occasione di qualche momento, scopro in me un sentimento il quale mi arreca grande soddisfazione, e che anzi mi arrischio ad esprimere. Parmi, che chi visiti attentamente questa città ed abbia occhi per vedere, debba acquistare fermezza di carattere, formarsi di questa dote pregevolissima un’idea, che non aveva dapprima. Lo spirito si modifica, viene acquistando serietà senza cadere nell’aridità; si trova in una condizione pacata, tranquilla, la quale procura soddisfazione. Quanto meno per conto mio mi trovo non avere apprezzato mai cotanto rettamente le cose, quanto dacchè mi trovo qui, e ne sono lieto, per le conseguenze che ne potrò provare, per il rimanente della mia vita.
Per tal guisa mi lascio guidare dalle mie senzazioni; l’ordine verrà di poi. Non sono qui per vivere a modo mio; voglio sforzarmi ad imparare, a conoscere gli oggetti grandiosi, a formarmene un’idea precisa, prima che io abbia raggiunto i quarant’anni.
Li 11 Novembre.
Oggi sono stato far visita alla ninfa Egeria, quindi a visitare il circo di Caracalla, dopo i sepolcri distrutti lungo la via Appia, finalmente la tomba di Cecilia Metella, la quale può valere a dare idea di una costruzione solida. Quegli uomini lavoravano per l’eternità, avevano tenuta a calcolo ogni cosa, toltane la pazzia furente dei distruttori, contro la quale nulla valeva ad opporre resistenza. Quanto non ho desiderato foste qui! Le rovine del grandioso acquedotto sono propriamente imponenti, ed era pure un nobile scopo quello di fornire d’acqua una popolazione, con opere di quella mole. Alla sera andammo al Colosseo, quando cominciava di già a farsi scuro. A fronte di questo, ogni altro monumento appare meschino; la sua imponenza è tanta, che si dura fatica ad imprimersene l’aspetto nella mente, lo si ritiene unicamente in proporzioni minori, e quando si ritorna a vederlo, appare sempre più grandioso.
Frascati, il 15 Novembre.
I miei compagni sono già a letto, ed io scrivo, intingendo la penna nella conchiglia, la quale contiene tuttora l’inchiostro della China, che ha servito per i disegnatori. Abbiamo passato qui due belle giornate, scevre totalmente di pioggia, calde, e con un sole limpido, al quale nulla avrebbe trovato a ridire la state. La contrada è amenissima; il paese sorge in cima ad una collina, alla quale si potrebbe quasi dar nome di monte, ed ogni passo porge bei punti di vista a chi vuole disegnare. L’orizzonte è vastissimo; si scorge Roma, al di là di questa il mare, ed a diritta le montagne di Tivoli, ed altre. Questa contrada piacevolissima, è fatta a posta per la villeggiatura, e nella stessa guisa che gli antichi Romani avevano già qui le loro ville, i Romani dei tempi moderni, da un secolo, ed anche prima, costrussero belle case di campagna, nei punti i più favorevoli. Girammo per due giorni in questi dintorni, trovando sempre qualcosa di nuovo, di bello.
Quasi quasi però direi che la sera era più piacevole ancora della giornata. Non appena la brava locandiera aveva deposta la lampada d’ottone a tre becchi sull’ampia tavola rotonda, ed augurata la felicissima notte, ci radunavamo tutti attorno a quella, e si cavavano fuori i fogli, sui quali durante la giornata si erano eseguiti disegni, ovvero presi schizzi. Si parlava intorno a questi, si discuteva se gli oggetti fossero stati presi dal miglior punto di vista; se si fossero riprodotti a dovere; si trattavano tutte le quistioni che valessero a porsi in grado di rendere conto esatto di quanto si era fatto. Il consigliere aulico Reifenstein, sa presiedere con molto tatto, e con molta autorità a quelle sedute; se non chè promotore del tutto si è Filippo Hackert3, il quale sa prendere queste viste con molta intelligenza, e disegnarle con gusto finissimo. Artisti e dilettanti, uomini e donne, giovani e vecchi, tutti egli sa dirigere, animare a provarsi a seconda delle forze rispettive, ed a tutti poi, predica nel modo più efficace coll’esempio. Dopo che egli partì da Roma, il consigliere Reifenstein seppe continuare la lodevole usanza di radunare una società, di trattenerla per tal guisa promuovendo l’attività di ognuno, ed in queste riunioni si rivelano in modo curioso e dilettevole, l’indole, le doti caratteristiche di ognuno. Tischbein, a cagion d’esempio, quale storico della pittura di paesaggio, è tutt’altro uomo che quale pittore di paesaggio. In questi trova mezzo di disegnare bei gruppi, oggetti graziosi, dove altri non li avrebbe saputi rinvenire, talvolta fa pure schizzi di figure umane, prendendo a modelli ragazzi, bifolchi, mendicanti, che sa riprodurre con molta grazia e semplicità; talvolta pure con pochi tratti di penna o di matita, disegna ancora animali in modo felicissimo, somministrando per tal guisa nuovo argomento sempre alla conversazione.
Quando poi il discorso langue, e sta per cadere, allora poi, secondo l’usanza introdotta da Hackert, si legge la teoria di Sulzer, e tuttochè quest’opera considerata da un punto di vista elevato, possa lasciare qualcosa a desiderare, si osserva però con piacere la sua influenza proficua, sulle persone dotate di una mediocre coltura.
Roma, il 17 Novembre.
Siamo di ritorno! Questa notte è caduto un’acquazzone con tuoni, lampi, ed ora continua a piovere; però fa sempre caldo.
Poche parole poi mi basteranno a rendere conto della soddisfazione provata in questo giorno. Viddi in S. Andrea della Valle gli affreschi del Domenichino, non che la galleria Farnesina, dipinta dal Carracci. Vi sarebbe di che parlarne per mesi non che per un giorno.
Il 18 Novembre.
Fa di nuovo bel tempo; la giornata è limpida, calda, piacevole. Vidi nella Farnesina la storia di Psiche, della quale tenni per tanto tempo le stampe colorate nella mia stanza; quindi in S. Pietro in Montorio la trasfigurazione di Rafaello, tutte conoscenze antiche, quasi amici, coi quali si sia stato da molto tempo in corrispondenza, e che si conoscano per la prima volta, di persona. La vita comune è però tutt’altra cosa; ogni punto di contatto si rivela tosto, al pari di ogni punto di repulsione.
Si rinvengono poi ad ogni tratto, in ogni luogo, cose stupende, delle quali non si è parlato cotanto, e che non vennero divulgate al pari di altre colle copie e colle incisioni; e di queste porterò meco parecchi disegni, eseguiti da giovani artisti.
Il 18 Novembre.
Le ottime relazioni che avevo strette già con Tischbein per corrispondenza epistolare, il desiderio, la speranza che io gli aveva manifestato parecchie volte di potere venire in Italia, fecero sì, che fin dal primo istante ci trovammo legati da intrinsichezza. Egli aveva sempre pensato a me, si era preso sempre pensiero delle cose mie. Conosce pure bene i materiali adoperati nella costruzione, sia dagli antichi che dai moderni; li ha studiati a fondo, spintovi dal suo amore di artista, e guidato dal suo occhio di artista. Aveva spedito non ha guari al mio indirizzo a Weimar una raccolta di campioni di quei materiali, che sarò lieto di trovare colà, al mio ritorno in patria. Ed intanto ottenne questa una ragguardevole appendice. Un sacerdote, il quale trovasi attualmente in Francia, e che aveva formato il disegno di scrivere un’opera intorno ai materiali di costruzione adoperati dagli antichi, aveva ottenuto, per mezzo della Propaganda, molti campioni di marmi dell’isola di Paro. Furono questi lavorati qui, e dodici pezzi, dalla grana la più fina alla più grossa, vennero riservati per me, adatti gli uni alla scultura, gli altri all’architettura. E non ho duopo di spiegare quanto giovi la cognizione dei materiali impiegati nelle arti, a portare giudizio intorno ai prodotti di questa.
Del resto havvi qui di frequente, occasione di fare raccolta di oggetti di quella natura. Passeggiavamo uno di questi giorni in aiuole piantate di fresco di carcioffi, per le rovine del palazzo di Nerone, e non potevamo trattenerci di gravarci le tasche di pezzi di granito, di porfido, di marmi di varie specie, che si offerivano ai nostri sguardi, e che porgono tuttora testimonianza irrefragabile della splendidezza del rivestimento delle pareti, in quelle antiche costruzioni.
Il 18 Novembre.
Oggi voglio farvi parola di un quadro meraviglioso, e molto problematico, il quale trae pure a sè l’attenzione, fra mezzo a cotante cose stupende.
Trovasi qui da parecchi anni un Francese, molto conosciuto quale dilettante, e raccoglitore di oggetti d’arte. Egli venne in possesso, non si sa come, nè di dove, di una antica pittura a fresco; la fece restaurare dal Mengs, ed ora possiede un vero capo lavoro nella sua collezione. Winckelmann ne parla con entusiasmo. Rappresenta Ganimede, il quale porge a Giove una coppa piena di vino, e ne riceve in compenso un bacio. Il francese muore, e lascia il quadro alla sua padrona di casa, quale antico. Mengs viene a morire a sua volta, e sul suo letto di morte disse, non essere il quadro antico, averlo dipinto egli. Ed ora si disputa accanitamente al riguardo. Sostengono gli uni avere voluto Mengs fare un semplice scherzo, mentre gli altri per contro dicono ch’egli non sarebbe stato mai capace di eseguire quel quadro, troppo bello quasi per Rafaello stesso. Io l’ho visto ieri, e devo pur dire non avere visto mai cosa più bella della figura di Ganimede, nella testa sovratutto, e nel dorso; nelle altre parti ebbero luoghi molti ristauri; intanto con tutte quelle dispute il quadro venne in discredito, e nessuno ne vuole fare acquisto dalla povera vedova.
Il 20 Novembre 1786.
Sappiamo per esperienza che spesso si desidera publicare le poesie accompagnate da disegni, ed incisioni, come pure che spesso i pittori riproducono nei loro quadri scene dei poeti, e pertanto trovo molto degna d’encomio l’idea di Tischbein, che fin da principio, pittore e poeta debbano lavorare d’accordo, per formare un opera complessa. La difficoltà sarebbe poi minore, qualora si trattasse di poesie brevi, delle quali fosse facile afferrare tosto il senso.
Tischbein nutre a questo riguardo idee graziosissime, nel genere degl’idilli ed è degno di osservazione che gli argomenti ch’egli vorrebbe per tal guisa commentati, illustrati dalla poesia, sono di tal natura che non varrebbe a riprodurli la sola pittura, ovvero la sola poesia. Egli me n’ha tenuto discorso nelle nostre passeggiate, per animarmi ad intraprendere lavoro di tal fatta seco lui. Abbiamo fatto di già il progetto dell’incisione che dovrebbe servire di frontispizio al libro, e se non mi arrestasse il pensiero d’impegnarmi in un nuovo lavoro, sarebbe possibile che io finissi per intraprendere quello.
Roma il 22 Novembre 1786.
Festa di S. Cecilia.
Voglio dedicare alcuni versi al ricordo di questa giornata piacevolissima, o quanto meno narrare storicamente le soddisfazioni che io ho provate. Faceva un tempo stupendo; l’atmosfera era tranquilla, il cielo sereno, il sole caldo. Mi recai con Tischbein sulla piazza di San Pietro, dove passeggiammo sù e giù, ricoverandoci, allorquando cominciammo a sentire caldo, all’ombra dell’obelisco, la quale era abbastanza ampia per offrire riparo ad entrambi; ed ivi continuammo a passeggiare, mangiando uva, che avevamo acquistata nei dintorni. Quindi salimmo nella cappella sistina, dove la giornata chiara e limpida, era opportunissima per contemplare le pitture. Il giudicio universale, ed i moltiplici dipinti della volta, tutti di Michelangelo, eccitarono la nostra ammirazione. Non facevo altro che guardare, e rimanere compreso di stupore. La franchezza del maestro, la varietà, la grandiosità del suo talento, sono superiori ad ogni espressione. Dopo avere contemplato a lungo ogni cosa, uscimmo da questo santuario dell’arte, e ci portammo nella chiesa di S. Pietro, la quale in questa giornata cotanto stupenda, era chiara ed allegra in ogni sua parte. Godemmo di tutta la grandiosità, e di tutta la magnificenza di quella vista, senza porre mente a quanto potesse offerire di meno opportuno, di meno delicato, in alcune parti. Ci restringemmo a godere di quanto era fatto per procurarci soddisfazione.
Finalmente salimmo sul tetto della chiesa, dove si può dire avere in piccole proporzioni, l’imagine di un città ben costrutta. Si direbbe quasi scorgervi case, magazzeni, fontane, chiese, ed un tempio grandioso, il tutto nell’aria, con belle strade, fra mezzo a quei vari oggetti. Salimmo sulla cupola, e vedemmo di lassù la catena degli Apennini illuminata dal sole, il monte Sorratte, le colline vulcaniche di Tivoli, Frascati, Castelgandolfo, la pianura, e più oltre il mare. L’atmosfera era tranquillissima; non regnava, neanco a quell’altezza, ombra di vento, e nell’interno della palla di rame, faceva caldo quanto nella stufa di un orto botanico. Dopo avere contemplato a nostro bell’agio quella vista magnifica, scendemmo facendoci aprire le porte, le quali danno accesso ai cornicioni del tamburro della cupola della navata, all’interno della chiesa. Si può passeggiare su quelli, e guardare di lassù al basso, in ogni parte della chiesa, e quando fummo sul cornicione del tamburro, vedemmo passare al basso il Papa, venuto a fare la sua preghiera del pomeriggio. Nulla più ci restava a vedere in San Pietro. Scesi da quell’altezza uscimmo dalla chiesa, e dopo avere pranzato frugalmente, ma allegramente in una modesta osteria del Trastevere, ci avviammo alla chiesa di S. Cecilia.
Userò poche parole per descrivere l’apparato dell’interno di quel tempio, riboccante di persone. Non si vedevano più mura, nè marmi. Le colonne erano ricoperte di velluto rosso, legato a quelle con treccie di oro; i capitelli scomparivano sotto la loro copertura, parimenti di velluto ricamato in oro, ed erano ricoperti per tal guisa tutti i pilieri, tutte le cornici. Tutti gli intervalli delle pareti erano rivestiti di tele dipinte, in guisa che tutta la chiesa sembrava un mosaico. Di fronte e di fianco all’altare maggiore ardevano non meno di duecento candele, formando queste quasi una parete di luce, la quale illuminava tutta la navata del tempio. Di fronte all’altare maggiore, ed al disotto dell’organo vi erano due palchi, ricoperti questi pure di velluto, e nell’uno stavano i cantanti, nell’altro i suonatori, i quali facevano musica di continuo.
Udii colà una specie nuova e bella, di musica. Nella stessa guisa che si eseguiscono concerti di violino o d’altri stromenti, si eseguivano colà concerti di voci, in modo che una voce, per esempio il soprano, si era quella predominante, la quale eseguiva gli a solo, accompagnata di quando in quando dai cori, e sempre poi come, ben si comprende dall’orchestra. L’effetto di quella musica era bellissimo. Se non chè, io devo finire, come finì pure questa bella giornata. La sera andammo ancora all’opera, dove si rappresentavano i Litiganti, se non che ci eravamo di Vertiti abbastanza, e non tardammo ad uscire, ed a venire a casa.
Il 23 Novembre.
Perchè non mi accada nel mio caro incognito quanto avviene allo struzzo, il quale ritiene non essere visto, allorquando ha nascosto il suo capo, cedo qualche volta, pur continuando a sostenere la mia tesi. Sono stato a fare visita al principe di Lichtenstein, fratello della contessa di Harrach, per la quale nutro così profonda stima; ho pranzato qualche volta pure in casa sua, e non tardai guari ad accorgermi che questa mia condiscendenza avrebbe finito per portarmi più oltre di quanto avrei desiderato, e così avvenne di fatti. Mi si era cominciato a parlare dell’abate Monti, del suo Aristodemo, tragedia la quale deve essere recitata fra breve. Mi si era detto che l’autore desiderava leggermela, ed udire il mio avviso. Senza dare una risposta negativa, lasciai cadere il discorso; se non chè, un bel giorno presso il principe trovai il poeta con uno de’ suoi amici, e vi fu letta la tragedia.
L’eroe, come ben si sa, era un re di Sparta, il quale, tormentato dai rimorsi si toglie la vita, e mi si lasciò comprendere in modo molto cortese, che l’autore del Werther non sarebbe forse stato malcontento di udire riprodotti in quel dramma, alcuni squarci del pregevolissimo suo libro; per modo che neppure nelle mura di Sparta, non mi fu possibile sfuggire ai mani irritati dell’infelice giovane.
Lo svolgimento di quella tragedia è semplice, pacato; i sentimenti, la lingua, corrispondono al soggetto; sono improntati di forza, non disgiunta da tenerezza. Tutto il lavoro rivela un bell’ingegno.
Non mancai di manifestare a modo mio, e non già per dir vero seguendo l’uso di esagerare degl’Italiani, quanto avevo rinvenuto di buono, di pregevole nel dramma; e l’autore non mi parve malcontento del mio giudizio, tuttochè, colla sua vivacità meridionale, avrebbe domandata qualcosa di più. Si sarebbe voluto sopratutto, che io avessi pronosticato l’effetto che la tragedia avrebbe prodotto sul pubblico alla recita.
Me ne scusai, allegando la mia ignoranza delle abitudini, del gusto del paese, del metodo di recitare degli attori, restringendomi ad emettere il dubbio che i Romani, assuefatti quali sono a non assistere mai ad un opera di due atti, ovvero ad una comedia di tre atti senza un ballo, od almeno un passo a due per intermezzo, si potessero piegare a tenere dietro per cinque atti, allo svolgimento semplice e severo di una tragedia classica. Soggiunsi ancora, che il suicidio mi pareva argomento totalmente estraneo all’ordine d’idee degl’Italiani, dicendo che avevo bensì udito ogni giorno quasi che un tale aveva ucciso un tal altro, ma che non mi era avvenuto ancora di udire che qualcuno si fosse tolto spontaneamente la vita.
Diedi allora ascolto con attenzione a tutto quanto si volle addurre per combattere i miei dubbi; ammisi ragioni le quali mi parvero di una certa forza, ed aggiunsi che non avevo maggiore desiderio che di udire rappresentare la tragedia, e di poterla applaudire nella compagnia de’ miei amici. Questa mia dichiarazione fu benissimo accolta; ed ebbi questa volta occasione di rimanere soddisfatto della mia condiscendenza, imperocchè il principe di Lichtenstein si è la cortesia personificata, ed egli mi ha procurato mezzo di potere visitare molte gallerie, per le quali occorre il permesso dei proprietari, il quale non si ottiene senza una qualche difficoltà.
Per contro non mi trovai disposto ad aderire al desiderio della figliuola del pretendente, la quale bramava dessa pure fare conoscenza della bestia rara. Cercai scusarmene, e sono deciso a tenere fermo nel mio rifiuto.
Se non che, non è questa ancora la migliore maniera; e mi accorgo ora, siccome ho avuto occasione di osservare di già altre volte nel corso di mia vita, che l’uomo il quale vuole veramente il bene, ha d’uopo di essere attivo, deferente verso gli altri, nè più nè meno di quello interessato, meschino, cattivo. La cosa è evidente, ma per altra parte è malagevole, osservare cotale contegno.
Il 24 Novembre.
Della nazione non saprei dire guari altro, se non che gli uomini sono pur sempre gli stessi, sia che vivano fra lo splendore e la pompa della religione e delle arti, sia che traggano i loro giorni nelle caverne, e nelle foreste. La cosa principale che colpisce i forastieri, e della quale oggi ancora parla tutta la città, non facendo però altro che semplicemente parlarne, sono gli omicidi i quali sono cosa abituale. Quattro individui vennero uccisi in queste tre settimane, fra le persone le quali si trovano in qualche modo in relazione con noi. Oggi toccò ad un bravo artista svizzero, Schwendeman, incisore di medaglie, ultimo allievo di Hetlinger, il quale fu aggredito di sorpresa, nello stesso modo avvenuto a Winckelmann. L’uccisore gli diede ben venti colpi di pugnale, e quando vidde che era ricercato dalla forza, finì per uccidersi. Però, questa non è qui l’usanza. L’assassino cerca rifugio in una chiesa, ed allora non occorre altro.
Converrebbe pertanto che io mi occupassi pure delle ombre del mio quadro, che vi facessi parola dei delitti, della malsania, delle innondazioni, dei terremoti; se non che in questo momento l’eruzione del Vesuvio si è quella, la quale trae in agitazione tutti quanti i forastieri, e conviene farsi forza, per non correre a quella volta, per resistere alla forza di attrazione, di un tanto fenomeno di natura. In questo momento si direbbe che non esistono più a Roma tesori di arte; tutti i forastieri interrompono il corso dei loro studii, delle loro osservazioni, tutti corrono a Napoli. Io però voglio ostinarmi a stare qui, nella speranza che il vulcano serberà qualcosa ancora per me.
Il 1° Dicembre.
Trovasi qui Moritz4, conosciutissimo anche presso di noi per le sue peregrinazioni in Inghilterra. Desso è uomo eccellente, alla buona, e la sua compagnia ci sarà piacevolissima.
Il 1° Dicembre.
Qui in Roma, dove si vedono molti forastieri i quali si recano in questa capitale del mondo, guidati da altri motivi che dall’interesse per l’arte nel senso il più sublime, trovasi in pronto tutto quanto uno possa desiderare. Sonovi certe arti di second’ordine, le quali si potrebbero quasi dire mestieri, richiedendo più che altro abilità di mano e pratica, le quali si portarono ad un alto grado di perfezione, e che porgono grande attrattiva ai forastieri.
Tale si è la pittura colla cera, accessibile a chiunque abbia acquistata una certa pratica dei colori, e dei lavori preparatori, dopochè non gli rimane altro a fare, che riccorrere all’uso del fuoco, ottenendo per semplici mezzi meccanici lavori, i quali non lasciano di colpire per la loro novità. Sonovi abili artisti, i quali danno lezione di questo metodo di pittura, e che sotto il pretesto di preparare i colori, compiono la maggior parte del lavoro, in guisa che, allorquando il quadro, reso brillante per l’impiego della cera fa bella figura nella sua cornice dorata, la graziosa dilettante rimane compresa di stupore della propria abilità, di cui era inconscia.
Altra piacevole occupazione si è pure quella di riprodurre in argilla finissima, preparata con molta cura, pietre dure incise, formandone pure medaglie, colla riproduzione, sia del diritto, che del rovescio.
Maggiore abilità poi, attenzione e pazienza si richieggono, per fabbricare i vetri a colori. Il consigliere Reifenstein possiede nella propria casa, o quanto meno in vicinanza a quella, tutto quanto occorre, per dedicarsi a quei passatempi geniali.
Il 2 Dicembre.
Ho trovato qui per caso il libro di Archenholz5 sull’Italia, ma letto sul sito il suo pregio scompare, quasi lo si accostasse al fuoco, e le pagine dopo essersi contorte e diventate nere, finissero per svanire in fumo. Per dir vero le cose le ha viste, ma non aveva coltura bastante per giudicarle a dovere, e distribuisce senza criterio tanto le lodi quanto il biasimo.
Roma, il 2 Dicembre 1786.
Questo tempo bello, caldo, tranquillo, interrotto soltanto da qualche giorno piovigginoso alla fine di novembre, la è cosa affatto nuova per me. Ne godo passando le belle giornate all’aria libera, le cattive nella mia stanza, e dovunque ho qualcosa da vedere, da imparare, da fare, sempre con piacere.
Il 28 novembre siamo tornati alla cappella Sistina, e vi ci siamo fatto aprire la galleria in alto, di dove si possono osservare meglio i dipinti della volta: lo spazio vi è per dir vero molto ristretto; non vi si muove senza difficoltà, ed anche con qualche pericolo per chi soffrisse di vertigini, e si staccasse dalle sbarre di ferro; se non che il disagio è compensato largamente, dalla vista di quel capolavoro. Ed io sono in questo momento compreso di tanta ammirazione per Michelangelo, che nulla io trovo superiore nella natura, tuttochè io non la possa contemplare con quella vastità di sguardo, con il quale egli la vidde. Valesse almeno quest’impressione a fissare nella mia memoria l’aspetto de’ suoi dipinti! Se non altro, voglio acquistare e portar via i disegni e le incisioni di tutti quelli, che mi verrà fatto di rinvenire.
Ci recammo di là alle logge di Rafaello, e non vi sarà difficile comprendere come in quel momento non ci sia quasi stato possibile apprezzarle. I nostri occhi erano rimasti cotanto colpiti da quelle forme grandiose, dalla perfezione stupenda in ogni sua parte di quella immensa composizione, che non potevano comprendere subito la grazia squisita di quegli ornati, di quei rabeschi finissimi, e che le stesse scene bibliche, per quanto siano belle, non ci producevano in quel momento tutto il loro effetto. Dovrebbe pure essere una grande soddisfazione il vedere molte volte, e con comodo, quasti capi lavori; il paragonarli gli uni agli altri senza idee preconcette, imperocchè per la prima volta non si considerano che da un solo punto di vista.
Di là ci recammo, con un sole quasi caldo, alla villa Panfili, dove vi sono giardini bellissimi, e vi ci trattenemmo fino a sera. Una vasta prateria tutta piana, circondata di elci e di pini, era tutta ricoperta di margherite, le quali si volgevano tutte dalla parte del sole, ed ora ho potuto occuparmi di bel nuovo alquanto di botanica, imperocchè, in una passeggiata fatta un altro giorno a Monte Mario, visitammo la villa Melini, e la villa Madama. È curioso osservare l’effetto di una vegetazione continua, rigogliosa, non interrotta dal freddo. Qui non si scorgono bottoni, e si comprende per la prima volta che cosa sia un bottone. La pianta di fragola (arbutus unedo) fiorisce ora di bel nuovo, mentre maturano gli ultimi suoi frutti; così pure sugli aranci si vedono contemporaneamente fiori, e frutti, maturi questi, gli uni totalmente, gli altri per metà soltanto. Però in questa stagione le piante degli aranci, sempre quando non sorgono protette dal riparo di qualche muro, devono essere coperte. Vi ho fatta parola già altra volta del cipresso, albero rispettabilissimo, perchè cresce dritto, e vive lunghissimi anni. Tra breve mi recherò a visitare il giardino botanico, e spero trovarvi occasione di acquistare molte cognizioni. Non havvi a mio avviso soddisfazione uguale a quella che procura ad uomo riflessivo la vista di una nuova contrada; e quando io cessassi dal provare quella contentezza, riterrei essere diventato tutt’altro uomo, da quello che sono stato sin qui.
Per oggi depongo la penna. Un’altra volta non vi terrò discorso d’altro che di uccisioni, di malsania, di terremoti, di disgrazie, perchè non difettino le ombre a miei quadri.
Il 3 Dicembre.
Il tempo fin qui ha per lo più variato di sei in sei giorni. Due giornate stupende, una coperta, due o tre piovviginose, quindi bel tempo di nuovo. Cerco impiegarle tutte nel miglior modo possibile.
Ed intanto tutti questi oggetti stupendi, sono sempre conoscenze nuove per me. Non ho vissuto ancora abbastanza con essi, non ho potuto ancora apprezzare abbastanza le loro doti. Taluni vi attraggono con tanta forza, esercitano cotale fascino, che vi rende per un certo tempo non solo ingiusto, ma indifferente verso gli altri. Il Panteon a cagion d’esempio, l’Apollo del Belvedere, alcune teste colossali, ed ultimamente la cappella Sistina, s’impossessarono per tal guisa del mio animo, che nulla io scorgo al di là di queste. Come possiamo, meschini quali siamo, ed assuefatti alla meschinità, star di fronte a quelle cose immense, nobili, perfette? E quando in certo modo si volesse volgere a quelle le spalle, vi circondano, vi stringono da ogni parte, ad ogni passo altri oggetti, i quali domandono, ottengono la vostra attenzione. Come mai sarebbe possibile sottarsi a questi? Non si può far altro che fermarsi, esaminarli, e giovarsi a questo fine degli studi già fatti da altri.
La nuova edizione della Storia delle arti del Winckelmann, tradotta dal Fea, è opera molto utile, che io mi sono procurata subito, e che trovo, sul luogo, molto pratica e molto istruttiva.
Anche le antichità romane cominciano interessarmi. Storia, iscrizioni, monete, cose tutte delle quali poco io seppi fin qui, mi cominciano ad interessare, e mi succede la stessa cosa che mi accadeva nello studio della storia naturale, imperocchè tutta la storia del mondo si rannoda a questo gran centro, ed io posso dire essere nato una seconda volta, essere risorto, nel giorno in cui sono venuto a Roma.
Il 5 Dicembre.
Nelle poche settimane dacchè io mi trovo a Roma, ho visto di già arrivare e partire molti forastieri, ed ho avuta occasione di meravigliarmi della leggerezza colla quale trattano dessi tutti questi oggetti venerandi. Sia ringraziato Iddio, che nessuno di questi uccelli di passaggio me ne potrà più imporre quindinnanzi, allora quando mi parlerà di Roma nelle contrade settentrionali; nessuno mi muoverà più la bile, imperocchè, ho visto io pure alla mia volta, e saprò quale conto dovrò fare delle loro ciarle.
L’8 Dicembre.
Abbiamo pur sempre belle giornate. La pioggia, la quale cade di quando in quando, favorisce la vegetazione, e mantiene verdi i giardini. Gli alberi permanentemente verdi mutano le foglie poco a poco, in guisa che non si scorgono mai spogli di queste. Si vedono nei giardini piante di agrumi, cariche di frutti, le quali crescono e vivono in piena terra, all’aria aperta, senz’avere d’uopo di essere coperte.
Avrei voluto darvi conto particolareggiato di una gita piacevolissima che abbiamo fatta al mare, della pesca che abbiamo eseguita ivi, quando alla sera, nel far ritorno a Roma, il buon Moritz si ruppe il braccio, per la caduta del suo cavallo sul selciato sdrucciolo della città, e questo tristo caso guastò tutta la nostra soddisfazione ed arrecò una certa malinconia nella nostra piacevole società.
Roma, il 13 Dicembre.
Sono stato propriamente lieto nell’udire che la mia partenza improvvisa e di nascosto, non sia stata presa in mala parte. Vogliate ad ogni modo, avermene ancora una volta per iscusato. Non ho mai avuta intenzione di recare dispiacere a chicchessia; e neanco ora saprei che cosa dire per giustificarmi; e tolga Iddio che io funesti un amico, col narragli quanto ho dovuto soffrire, prima di prendere quella risoluzione.
Ora io mi sto qui, riavendomi a poco a poco dal mio salto mortale, e quasi più ancora io vi studio, di quanto io mi dia spasso. Roma è un mondo, e vi vorrebbero anni ed anni per addentrarvisi, e conoscerlo a dovere. Quante volte non mi paiono felici i viaggiatori, i quali si contentano di dare uno sguardo, e se ne vanno.
Stamane per tempo mi caddero sotto mano le lettere scritte d’Italia dal Winckelmann. Con quale commozione ne intrapresi la lettura. Sono trascorsi trentun anno, dacchè egli veniva qui per la prima volta, povero diavolo quale io sono, e più ancora; ma ricco di serietà tedesca, di amore per l’antichità, e per l’arte. Quanto, e come stupendamente egli ha lavorato! Come mi è sacra la memoria di un tanto uomo, ed in questa località!
All’infuori delle bellezze naturali, le quali sono vere, e conseguenti in ogni loro particolare, nulla havvi che parli con tanta vivacità all’imaginazione, quanto la memoria di un uomo dabbene e d’ingegno, quanto il ricordo delle sue opere. E questa senzazione si prova vivissima, qui in Roma dove si scatenarono cotanti arbitri, dove si commisero cotante pazzie per prepotenza e per danaro.
Mi recò particolare soddisfazione un passo di una lettera di Winkelmann a Franken. «A Roma, dice egli, fa d’uopo esaminare ogni cosa con una certa pacatezza, che diversamente si corre il rischio di essere scambiato per un Francese. Roma, io credo sia la più grande scuola per ognuno, e per conto mio l’ho provato, e me ne sono persuaso.»
Queste parole corrispondono a puntino all’idea che io mi sono potuto formare di questa città; e per certo non è possibile, fuori di Roma, imaginarsi le sensazioni che qui si provano. Qui in certo modo si nasce una seconda volta, e si considerano quali idee puerili tutte le idee che si ebbero dapprima. Anche l’uomo il più semplice, qui si trasforma in qualche maniera; se non altro si allarga la cerchia delle sue idee.
Questa lettera vi perverrà coll’anno nuovo, ed io vi auguro ogni felicità in principio di quello; prima che desso volga al suo fine ci rivedremo, e sarà questa pure per me vivissima soddisfazione. Il passato fu la parte più importante della mia vita, ed ora, sia che io debba morire, sia che io abbia a prolungare ancora la mia esistenza in entrambi i casi sarà bene. Poche parole ancora per i ragazzi, ai quali le potrete leggere, ovvero narrare loro quanto segue:
Non si sa qui che cosa è l’inverno; nei giardini si vedono piante sempre verdi, il sole splende limpido e riscalda; non si scorge neve, se non a distanza, sui monti verso tramontana. I limoni che sono piantati nei giardini contro le pareti, si riparano con coperture mobili, formate di canne, ma altre piante di agrumi più robuste, crescono all’aria libera. Non sono tagliati come da noi, nè piantati in una cassa di legno, ma crescono bensì in piena terra, disposti in filari, gli uni accanto agli altri. Non è possibile imaginare vista più piacevole.
Con pochi spiccioli si ottengono frutti di quelli, quanti si vogliono. Sono buoni di già in questa stagione, ma al mese di marzo saranno migliori.
Ultimamente abbiamo fatto una gita al mare, ed ivi una pesca, prendendo pesci e gamberi, di forme strane e curiose, fra quali il pesce pure, che al contatto produce la scossa elettrica.
Il 20 Dicembre.
In fin del conto provo quasi più fatica, pensieri, che soddisfazione. Quella specie di risurrezione intima, interna, della quale vi ho fatta parola, continua. Pensavo bensì imparare qui molte cose, ma non mi sarei imaginato mai di dovere ritornare addirittura a scuola, di dovere ripetere le tante cose, completare lo studio di tante altre. Ora però ho finito per persuadermene, mi vi si sono pienamente rassegnato, e quanto più obbedisco a questa necessità, tanto maggiore soddisfazione ne provo. Mi trovo nella condizione di un architetto, il quale voleva innalzare una torre, e si accorge di avere gittate cattive fondazioni; se non che per buona sorte se ne avvidde ancora in tempo, sgombra quelle dalla terra che di già le ricopriva, cerca correggere il difetto, rafforzarle, e si rallegra in anticipazione della solidità del suo futuro edificio. Voglia Iddio che anche dopo il mio ritorno io possa continuare a sentire le conseguenze morali della nuova sfera di vita nella quale sono entrato, imperocchè coll’allargarsi del sentimento artistico, sono pure le idee morali quelle, le quali vanno soggette a maggiori modificazioni.
Trovasi qui il dottore Munter di ritorno dal suo viaggio di Sicilia. È uomo d’indole vivace, energico, ma io ignoro quale sia il suo scopo. Sarà di ritorno costà nel mese di maggio, e vi potrà narrare ben molte cose, essendo oramai due anni ch’egli viaggia in Italia; se non chè, egli si trova malcontento degli Italiani, i quali non tennero guari conto di molte commendatizie serie di cui era fornito, le quali gli dovevano aprire molti archivi e biblioteche non accessibili al pubblico, in guisa che suoi desideri al riguardo tornarono vani.
Egli ha fatta una bella raccolta di monete, e di medaglie, e mi disse possedere un manoscritto, il quale fissa e stabilisce regole certe per la nunismatica, quando le opere di Linneo per la botanica. Herder glie ne potrà domandare maggiori informazioni, e non gli sarà fors’anco impossibile ottenere copia di quello scritto. È possibile fare qualcosa a questo riguardo, e tosto o tardi, converrà pensare a coltivare pure questo campo.
Il 25 Dicembre.
Comincio ora a visitare le cose migliori per la seconda volta riportandone un’idea più chiara, più precisa, che nello stupore e nella confusione di una prima visita. Per potere raggiungere questo scopo, fa d’uopo che l’animo sia pienamente riposato, e tranquillo.
Il marmo è propriamente un materiale prezioso, ed è per questo motivo, che l’originale dell’Apollo del Belvedere reca cotanta soddisfazione, imperocchè il soffio di vita, il rigoglio di giovinezza che emana da quello scompare nelle copie in gesso, anche le più fedeli, e le più accurate.
Di fronte alla mia abitazione, nel palazzo Rondanini, si scorge una testa di Medusa, più grande del vero, e nei lineamenti stupendi, e propriamente distinti di quella figura, si scorge riprodotta colla maggiore evidenza la rigidezza della morte. Posseggo di già varie buone copie o riproduzioni in gesso, ma il prestigio del marmo svanisce. Non vi ha più traccia della trasparenza, dell’aspetto di vita di quello. Il gesso è inerte, morto.
Reca però piacere lo assistere alla riproduzione in gesso delle statue; lo scorgere le membra stupende da quelle uscire ad una ad una dalla forma, porgendo aspetto nuovo. Ed inoltre si possono contemplare in quelle riproduzioni, gli uni al lato degli altri i capi d’opera, i quali si trovano sparsi per tutta Roma, e paragonarli gli uni agli altri, la quale cosa è di tutta importanza. Non ho potuto astenermi dal fare acquisto di una testa colossale di Giove. Dessa si trova ora di fronte al mio letto, in buona luce, per guisa che posso porgerle i miei omaggi alla comparsa dei primi raggi del sole, ed intanto, ad onta della sua imponenza e della sua serietà, ha dato dessa origine ad una piccola avventura piacevole.
La nostra vecchia padrona di casa, sempre quando viene in camera per farvi il letto, porta seco il suo gatto fedele. Stavo nella sala vicina, e sentivo la buona donna occupata a porre in assetto la camera. Tutto ad un tratto ella apre la porta correndo, agitata contro tutte le sue abitudini, accennandomi entrare nella stanza per esservi spettatore di un miracolo; ed avendole io domandato di che cosa si trattasse, mi rispose che il gatto stava adorando il padre eterno, soggiungendo, avere osservato le molte volte già, possedere quell’animale altrettanta intelligenza quanto un Cristiano, però essere questo un gran miracolo. Mi affrettai ad entrare nella camera, per potere contemplare la cosa con i miei propri occhi, e per dir vero era quella abbastanza curiosa. Il busto trovasi collocato in cima ad un alto piedistallo, ed il corpo trovasi troncato alquanto al disotto del petto, in guisa che la testa campeggia in alto. Il gatto si era arrampicato sul tavolo, ed aveva collocate le sue zampe sul petto del Dio, e stendendo quanto poteva le sue membra perveniva col suo muso all’altezza della sacra barba, che stava leccando con vera compiacenza. Non volli sturbare la fede della buona vecchia nel miracolo, ma mi spiegai la strana devozione del gatto per mezzo dell’odorato finissimo di quella razza di animali, il quale lo aveva fuor di dubbio fatto accorto del grasso, rimasto, nel cavare il busto dalla forma, negl’interstizi della voluminosa barba del padre degli Dei.
Il 29 Dicembre 1786.
Dovrò dire molte cose ancora di Tischbein, e dargli vanto di essersi formato da sè, in modo originale, propriamente tedesco, come pure di essersi preso durante il suo secondo soggiorno in Roma molto pensiero di me, coll’avermi fatto preparare una serie di copie delle opere dei migliori maestri, le une al lapis, altre alla seppia, od acquarello, le quali, recate in Germania, lontane dagli originali, acquisteranno maggior pregio, e varranno a mantenermi viva la memoria di quelli.
Nella sua carriera artistica, dedicata dapprima alla pittura di ritratti, si trovò Tischbein, a Zurigo specialmente, in relazione di uomini distinti, traendo dalla frequentazione di questi, grande profitto.
Ho portato qui meco la seconda parte dei fogli sparsi e mi fu grandemente accetta. Herder udrà con piacere quanto mi abbia giovata la lettura ripetuta di quel libriccino. Tischbein non riusciva a comprendere, come uno avesse potuto scrivere quelle pagine, senza essere stato mai in Italia.
Il 29 Dicembre.
In questa cerchia artistica si vive quasi in una stanza tutta specchi, dove si vedono di continuo, ed anche più di quanto si verrebbe, se stesso e gli altri. Mi ero accorto di già che Tischbein mi stava spesse volte osservando attentamente, ed ora sò che egli ha intenzione di eseguire il mio ritratto. Ne ha fatto di già uno schizzo, ed anzi ha fatto preparare pure la tela. Mi vuole dipingere ora di grandezza naturale, in abito da viaggio, avviluppato in un ampio tabarro bianco, seduto all’aria libera sur un obelisco rovinato a terra, e nel fondo del quadro intende collocare un tratto della campagna di Roma, colla vista di alcune rovine. Sarà fuor di dubbio un bel quadro, e non avrà altro difetto se non quello di essere troppo ampio per la dimensione delle nostre abitazioni nordiche. Mi potrò benissimo ricoverare di bel nuovo in quelle, ma non so dove mai potrò trovare spazio per il mio ritratto.
Il 29 Dicembre.
Non ho potuto a meno di accorgermi dei tentativi che si vorrebbero fare per trarmi fuori della mia oscurità, del desiderio che avrebbero i poeti di leggermi, o quanto meno di darmi a leggere le loro produzioni, della facilità che troverei qui a rappresantare una parte importante; ed intanto mi basta avere compreso lo scopo al quale si mirerebbe con tutti questi passi. Imperocchè le molte piccole compagnie, o circoli che si sono formati, e si agitano in questa metropoli mondiale, hanno tutti una certa impronta di città piccola.
Il mondo è uguale dovunque, ed il solo pensiero della parte che dovrei, che potrei prendere a quella vita meschina, mi dà fastidio, prima ancora che io l’abbia provata. Sarebbe forza accostarsi ad un partito; far proprie le passioni di quello; mescolarsi a suoi intrighi; lodare artisti e dilettanti; dir male dei loro emuli, lasciarsi guidare dai ricchi, e dai grandi. Ed a quale scopo mi dovrei piegare a questa vita, a recitare cogli altri questa litania?
No certamente; io mi accosto soltanto quanto mi basta per avere conoscenza pure da questi particolari, quindi tornarmene a casa tranquillo troncando agli altri ed a me stesso il desiderio di farmi fare, e di fare conoscenza più intima con quel mondo pettegolo. Io voglio vedere Roma quale sussiste, quale dura, e non quale si muta e si trasforma ogni decennio; e quando mi sopravvanzasse tempo, lo vorrei impiegare meglio. La storia specialmente si può qui studiare meglio che in qualsiasi altro punto del globo. Altrove si legge, quasi stando di fuori, qui invece si direbbe essere nell’interno dei fatti; tutto qui si rannoda, tutto di qui parte, e vi fa ritorno. E ciò non solo per la storia romana, bensì per la storia universale. Di qui si possono seguire, accompagnare i conquistatori fin sulle sponde del Weser o dell’Eufrate; si può per quanto si sia un balordo, uno scimunito aspettare il ritorno dei trionfatori sulla via sacra, prendendo parte intanto, prima di godere di questo splendido spettacolo, alle distribuzioni di grano, e di danaro, che si fanno alla plebe.
Il 2 Gennaio 1787.
Si può dire tutto quello che si vuole, a favore di una tradizione orale, ovvero scritta, ma in pochi casi si colpisce nel segno, imperocchè il carattere proprio di un essenza, di un principio, non si può communicare neppure nelle cose spirituali. Però quando si abbia acquistato un colpo di vista sicuro, allora si può leggere, ed ascoltare con frutto; imperocchè il tutto si rannoda alla vivacità dell’impressione, ed allora si può pensare, riflettere, giudicare.
Voi altri mi avete beffeggiato le molte volte, allorquando io considerava con particolare attenzione da certi punti di vista, pietre, piante, animali; avete cercato ritrarmi da quello studio; ora io porto la mia attenzione sugli architetti, sugli scultori, sui pittori, ed anche fra questi, troverò qualcosa ad imparare.
Il 6 Gennaio.
Torno or ora da casa di Moritz, al quale si doveva sfasciare oggi appunto il braccio, oramai guarito. Egli va benissimo. Mi tornerà fuor di dubbio profittevole quanto ho potuto provare, ed apprendere, stando in questi quaranta giorni molte ore a fianco di quel poveretto, in qualità di infermiere, di padre spirituale, di confidente, di ministro di finanze, di segretario privato. Durante tutto questo tempo, si alternarono di continuo le più vive sofferenze, e le soddisfazioni le più pure.
Per distrarmi allogai ieri nella sala una riproduzione in gesso della testa colossale di Giunone, il cui originale stà nella villa Ludovisi. Si fu questa la mia prima passione in Roma, ed ora ne sono al possesso. Non havvi parola che possa dare idea di quella; si direbbe un canto di Omero.
Ho però meritato di avere quindinnanzi quella bella compagnia, imperocchè vi posso finalmente dar annuncio, che l’Ifigenia è ultimata, vale a dire che stanno sul mio tavolo due copie abbastanza simili l’una all’altra di quella; ed una di queste, verrà costà fra breve. Preparatevi a farle buona accoglienza, imperocchè ad onta non sia quale avrebbe dovuta essere, si comprende però abbastanza da quella, quale io l’avrei voluta.
Vi siete lagnati alcune volte di certi passi oscuri nelle mie lettere, i quali sembravano alludere ad un peso dal quale io fossi oppresso in mezzo a tutte queste magnificenze, ed a quello non aveva poca parte questa giovane Greca, mia compagna di viaggio, la quale mi costringeva a lavorare, quando avrei voluto unicamente guardare e vedere.
Mi fece sovvenire di quel mio ottimo amico, il quale si era preparato ad un grande viaggio a cui si sarebbe potuto benissimo dare nome di viaggio di scoperta. Dopo avere per vari anni fatto studi intorno a quello, e fatto economie, finì all’ultimo per rapire ancora una ragazza di buona famiglia, dacchè aveva pensato che non gli avrebbe dato gusto il viaggiar solo.
Potrei dire essermi deciso, in modo ugualmente delittuosa, a portare meco l’Ifigenia da Carlsbad; ed ora io voglio accennarvi in breve, dove io mi sia trattenuto specialmente seco lei.
Allorquando partii del Brennero, la trassi fuori dal pacco voluminoso, e la tenni presso di me. Sul lago di Garda, allor quando il vento di mezzogiorno agitava le onde, e mentre mi trovavo solo per lo meno quanto la mia eroina sulle spiaggie della Tauride, tracciai le prime linee della composizione, alla quale lavorai assiduamente a Verona, Vicenza, Padova, e Venezia. Se non che, appena abbandonato di bel nuovo il lavoro, mi si presentò alla mente l’idea di trattare l’argomento diversamente, vale a dire Ifigenia a Delfo, e lo avrei tosto fatto, se non me ne avessero trattenuto le distrazioni continue, ed un certo sentimento di dovere, verso l’antica composizione.
A Roma poi, lavorai con una certa costanza. Alla sera, prima di andare a letto, mi preparavo il mio penso per il mattino, ed appena svegliato, mi affrettavo a compierlo. Il mio metodo era semplice, scrivevo il dramma pacatamente in prosa, verseggiandolo quindi, linea per linea, periodo per periodo. Ora spetta a voi altri giudicare il merito del lavoro, nel quale io ho quasi più imparato, che propriamente lavorato. Troverete poi unite al dramma alcune osservazioni.
Il 6 Gennaio.
Per tenervi ancora una volta discorso di cose di chiesa, voglio narrarvi che nella notte del Natale abbiamo vagato per la città, e visitate le chiese dove si compivano le funzioni. Una fra queste è frequentata in modo speciale, dove l’organo e la musica hanno un impronta tutta pastorale, riproducendo il suono delle zampogne dei pastori, il cinguettio degli uccelletti, come del pari i belati degli agnelli.
Nel primo giorno delle feste di Natale, viddi il Papa in S. Pietro con tutto il suo clero che circondava il suo trono, mentre egli celebrava le funzioni solenni del rito. È spettacolo questo unico nella sua specie, stupendo, imponente pure, se si vuole; ma io sono oramai troppo invecchiato nelle idee protestanti, e tutta quella pompa anzichè scalzarle, contribuiva a rafforzarle in me: potrei io pure, come il mio pio predecessore dire a questo clero mondano, non mi vogliate nascondere il sole di un arte più sublime, di una umanità più pura.
Oggi, giorno dell’Epifania, ho voluto assistere alla messa celebrata secondo il rito greco. Le cerimonie mi parvero più adatte, più serie, più ponderate; e ad onta di ciò, più popolari di quelle del rito latino.
Ed ivi pure ho provato che sono oramai diventato vecchio per ogni cosa, ad eccezione della verità. Le loro ceremonie, i loro sacrifici, le loro processioni, i loro balli, tutto ciò scivola sopra di me, e cade a terra, nè più nè meno, che l’acqua sopra un tabarro di tela cerata. I fenomeni per contro, le scene della natura, quale il tramonto del sole alla villa Madama, un capo lavoro dell’arte, quale la testa non mai abbastanza lodata della Ginnone, producono pur sempre sopra di me viva e profonda impressione.
Ora comincia a darmi molestia la prospettiva dei teatri. Nella settimana ventura ne saranno aperti niente meno che sette. Trovasi qui Anfossi stesso, e reciterà Alessandro nelle Indie; si rappresenterà pure il Ciro, colla presa di Troia per ballo. Quest’ultimo farebbe la felicità dei ragazzi.
Il 10 Gennaio.
Verrà con questa mia la figliuola del mio dolore, imperocchè la mia Ifigenia merita questo nome, sotto più di un aspetto. Nell’occasione in cui la lessi al nostro circolo di artisti, cancellai parecchi versi, alcuni dei quali ho migliorati a quanto mi pare, altri ho lasciati, sui quali probabilmente vorrà Herder tirare due tratti di penna. Ho fatto quelle correzioni propriamente di mala voglia.
Il motivo per il quale da vari anni ho data ne’ miei lavori la preferenza alla prosa, si è perchè la nostra prosodia versa nella più grande incertezza, in guisa che il mio intelligente ed erudito amico e collaboratore, si trovava costretto a sciogliere molti dubbi, per i quali difettava di ogni principio fisso, di ogni norma.
Non mi sarei mai arrischiato a ridurre l’Ifigenia in versi giambici, se non avessi trovato una guida nella prosodia di Moritz. Le mie relazioni coll’autore, specialmente durante il tempo in cui trovavasi questi steso sul suo letto di dolore, mi furono della più grande utilità; ed io porgo preghiera agli amici, di volerlo ricordare con benevolenza.
Le è cosa strana, come poche sillabe nella nostra lingua siano decisamente lunghe e brevi. Per tutte le altre si possono fare tali indifferentemente, a piacere ed arbitrio. Ora Moritz ha ideato di disporre le sillabe in un certo ordine, facendo lunghe quelle che a fronte delle altre posseggono in certo modo maggiore importanza, le quali, collocate in posizione diversa, tornano ad essere brevi. Per dir vero non si può stabilire in questo particolare una regola fissa, invariabile; ma attenendosi a quel metodo, si avrà pur sempre un filo il quale servirà di guida, ed io mi sono trovato bene di averlo seguito.
Dal momento che io vi ho fatta parola di una lettura del mio dramma, devo pure accennarvi in breve, l’esito che abbia ottenuto. Tutta quella gioventù, assuefatta alle mie composizioni precedenti, d’indole vivace, progressiva, si aspettava qualcosa nel genere del Goetz di Berlichingen, e durava qualche fatica a piegarsi a questo mio nuovo lavoro, d’indole pacata e tranquilla; però i passi più semplici, più nobili, non fallirono il loro effetto. Tischbein al quale punto non sorrideva questa mancanza quasi totale di passione, cavò fuori un grazioso paragone. Disse che il dramma gli dava idea di un sacrificio, nel quale il fumo è trattenuto al basso verso terra da un aria alquanto pesante, nel mentre le fiamme libere s’innalzano verso il cielo. Fece un schizzo di quel suo pensiero, che porterò meco costì.
Ed intanto questo lavoro, del quale pensavo potermi liberare in pochi giorni, mi tenne occupato, sopra pensieri, e potrei dire angustiato, per ben tre mesi. Non è la prima volta che mi avviene di trattare quali accessorie le cose le più importanti, e non vale la pena di trattenersi più oltre, a fantasticare, od a ragionare a quel riguardo.
Unisco a questa lettera un grazioso cameo, il quale rappresenta un leoncello, con un calabrone che gli ronza attorno al naso. Questo soggetto tornava molto accetto agli antichi, e lo si trova riprodotto di frequente. Desidero che quindinnanzi vogliate sigillare le vostre lettere con questa gemma, affinchè per tal modo mi pervenga di costì per parte vostra, una specie di eco artistica.
Il 13 Gennaio 1787.
Quante cose non avrei a narrarvi ogni giorno, se il più spesso la fatica o le distrazioni non m’impedissero dar di piglio alla penna! Aggiungete a queste cause le giornate abbastanza fredde, durante le quali si stà meglio dovunque che nelle stanze, le quali senza stufe, senza camini, non servono che per dormire, ovvero per starvi a disagio. Però, è d’uopo che io vi faccia parola di alcune cose viste nell’ultima settimana.
Nel palazzo Giustiniani esiste una Minerva, la quale ottenne tutta quanta la mia venerazione. Winckelmann non ne fa quasi parola; quanto meno non la ricorda a luogo opportuno, ed io sento che non sono degno di celebrarne i pregi. Allorquando ebbimo contemplata ed ammirata a lungo quella statua, la moglie del custode ci disse con tutta serietà, rappresentare quella una santa antica, e che gl’Inglesi, i quali appartengono tuttora a quella religione, sogliono in atto di venerazione baciarle una mano, la quale difatti è bianchissima, mentre le altre parti del marmo hanno tinta oscura, ed antica. Soggiunse ancora quella buona donna, essere poco tempo che una signora inglese capitata colà, si era inginocchiata davanti alla statua trattenendosi alcuni istanti in atto di preghiera, e che dessa, Cristiana, non aveva potuto vedere quella stranezza senza sorridere; che anzi aveva dovuto uscire dalla sala, per non scoppiare addirittura in un riso clamoroso. E siccome io non mi sapevo staccare da quella statua, l’ingenua donna finì per domandarmi, se per caso io avessi una figliuola la quale rassomigliasse a quella, dal momento che provavo tanto piacere a contemplare quel marmo. La buona donna non conosceva che venerazione ed amore; non possedeva idea veruna della semplice ammirazione di un capo lavoro artistico, della simpatia spontanea per un prodotto dell’ingegno dell’uomo. Ridemmo della dama inglese, ed andammo oltre col desiderio di tornare; desiderio che io non intendo tardare a lungo a soddisfare. Quando vogliate, amici miei, saperne più a lungo intorno a quest’ordine d’idee; non avrete che a leggere quanto dice Winckelmann, intorno allo stile sublime dei Greci. Disgraziatamente egli non ricorda colà questa Minerva. Pure, se io non vado addirittura errato, questa statua appartiene propriamente al fiore di quello stile, rappresentato in tutta la sua splendidezza.
Ora voglio farvi parola di spettacolo d’altra specie. Nel giorno dell’Epifania, in cui si festeggiava l’annuncio della buona novella dato ai gentili, siamo stati alla Propaganda. Ivi, alla presenza di tre cardinali, e di un uditorio numeroso, si cominciò a recitare un discorso, nel quale si trattava la quistione del luogo dove la Vergine Maria avesse ricevuti i re magi. Forse nella stalla? Ovvero altrove? Dopo si lessero alcune poesie latine, intorno allo stesso argomento; per ultimo ben trenta seminaristi, recitarono l’uno dopo l’altro brevi poesie, ognuno nell’idioma del loro paese natio, del Malabar, dell’Epiro, della Turchia, della Persia, della Colcia, della Palestina, dell’Arabia, dell’Assiria, delle contrade cofte, saracene, dell’Armenia, dell’Ibernia, del Madagascar, dell’Irlanda, della Boia, dell’Egitto, dell’Isauria, dell’Etiopia, e di parecchie altre regioni ancora, che ora più non ricordo. Quelle poesie mi parvero dettate in generale in ritmo nazionale, per essere declamate secondo l’uso delle singole nazioni, e si udirono ritmi e tuoni, propriamente barbari. Il Greco risuonò armonioso, quasi una stella, la quale splenda in limpido cielo. L’uditorio talvolta rideva sgangheratamente con poco rispetto, nell’ascoltare il suono di quelle voci strane, con grave discapito della serietà della riunione.
Voglio ora narrarvi ancora, una storiella, la quale varrà a provarvi in qual modo si trattino le cose sacre in Roma santa. Il cardinale Albani, morto non ha guari, assisteva un anno alla solennità della quale vi ho fatta or ora la descrizione. Uno fra i seminaristi, volgendosi ai cardinali, pronunciò per due volte in una lingua straniera la parola gnaia! gnaia! la quale suona ad un dispresso quanto canaglia. Il cardinale si volse a suoi colleghi, dicendo: «Si scorge ch’egli ci conosce!»
Il 15 Gennaio.
Quanto non ha lavorato Winckelmann, e quanto non ci ha lasciato ancora a desiderare! Con i materiali che egli aveva radunati de’ quali egli aveva acquistata profonda cognizione, si trovò in grado di dettare con tanta celerità la sua opera. S’egli fosse tuttora vivo, e godesse tuttora robustezza e salute, sarebbe il primo a dare una nuova edizione della sua opera, corretta ed accresciuta. Quali nuove osservazioni non avrebbe fatto, quali nuovi giudizi non avrebbe profferiti; quale partito non avrebbe saputo trare dagli studii, dalle osservazioni fatte dagli altri, attenendosi a suoi principii, dai nuovi scavi eseguiti, e dalle nuove scoperte fatte, tanto più, che ora sarebbe morto il cardinale Albani, per compiacere al quale, molte cose aveva scritte, e molte più forse ancora, aveva taciute.
Il 15 Gennaio 1787.
Finalmente anche l’Aristodemo venne rappresentato, e per dir vero felicemente, e con molto successo. Dal momento che l’abate Monti trovavasi in istretta relazione colla famiglia dei nipoti del Papa, e che era tenuto in molto conto nell’alta società, vi era luogo a sperar bene; e difatti i palchi gli furono larghi di applausi. La platea poi, rimase fin da principio incantata dagli stupendi versi del poeta, e della perizia degli attori; e non lasciò passare inosservata nessuna occasione di manifestare la propria soddisfazione. Il banco degli artisti tedeschi si distinse desso pure per gli applausi, e tuttochè fossero per avventura questi alquanto esagerati, erano però dovuti.
L’autore era rimasto a casa, molto inquieto intorno all’esito della sua tragedia, se non che, alla fine di ogni atto, gli vennero recate notizie della recita, le quali gradatamente convertirono in viva gioia, la sua ansietà. Ora non si mancherà di replicare il dramma, e le cose non potrebbero essere meglio avviate. Anche le cose le più disparate, quando possedono merito intrinseco, non possono a meno di acquistare il favore tanto del pubblico quanto degl’intelligenti.
Convien dire però che la tragedia fù recitata bene, e che l’attore specialmente, il quale sosteneva la parte principale, era di una rara perizia; si sarebbe detto propriamente vedere un antico imperatore sulla scena. Vestivano il costume che ci produce cotanta impressione nelle statue, ridotto ad uso del teatro, e si scorgeva manifestamente, che il primo attore aveva studiato i marmi antichi.
Il 16 Gennaio.
Roma sta per perdere un grande capo lavoro dell’arte antica. Il re di Napoli intende fare trasportare colà nel suo palazzo l’Ercole Farnese. Tutti gli artisti ne sono accorati, ma intanto avremo occasione di vedere quanto rimase nascosto ai nostri predecessori.
Quella statua, vale a dire, dalla testa alle ginocchia, come parimenti i piedi collo zoccolo su cui posano, fu scoperta nei possedimenti dei Farnese; le gambe però, dalle ginocchia alle caviglie, mancavano, e furono eseguite da Guglielmo Della Porta, e ristaurata in questo modo stette fino a questi giorni. Intanto nei possedimenti dei Borghesi, furono rinvenute le vere gambe antiche, le quali erano state allogate appunto, nella villa Borghese.
Ora il principe Borghese si decise privarsi di quell’antichità preziosissima, e di farne omaggio al re di Napoli. Le vere gambe saranno sostituite a quelle eseguite dal Della Porta, e si ritiene che ad onta fossero questa di ottimo lavoro, la statua, restituita alla sua integrità, guadagnerà di aspetto.
Il 18 Gennaio.
Ieri, festa di S. Antonio abate, abbiamo passata una giornata piacevole; faceva un tempo stupendo, nella notte aveva bensì gelato, ma la giornata fu limpida, tiepida.
È d’uopo notare che tutte quante le religioni le quali vennero diffondendo le loro dottrine ed il loro culto, furono condotte, in certo modo a far partecipare gli animali pure, ai loro favori spirituali. S. Antonio abate, ovvero vescovo, si è il patrono dei quadrupedi, e la sua festa si può dire giorno di saturnale per quelle povere bestie, condannate di frequente alle più dure fatiche, non meno che per gli uomini i quali le guidano, e le governano.
Tutti i padroni devono oggi starsene in casa, ovvero uscire a piedi, e non si manca di narrare storielle curiose delle disgrazie capitate a ricchi miscredenti, i quali si arrischiarono a costringere i loro cocchieri ad attaccare i cavalli alla carrozza, in questo giorno.
La chiesa del santo sorge sur una vasta piazza, d’ordinario poco meno che deserta, ma oggi animatissima, popolata di cavalli e di muli, i quali, stupendamente ornati di nastri intrecciati alla coda ed alla criniera, vengono portati davanti alla piccola cappella, la quale trovasi a poca distanza dalla chiesa, dove un sacerdote, armato di un poderoso aspersorio, prodiga a quelli vispi animali l’acqua benedetta, che toglie da un vasto recipiente, cacciandola loro talvolta addosso con tant’impeto, ed in tanta quantità, da farli imbizzarire. I cocchieri devoti offrono candele di maggiore o di minore peso; i padroni mandano limosine, regali, onde ottenere che quegli animali che sono loro di tanta utilità, vadino per l’anno immuni da ogni disgrazia.
Prendono la loro parte pure a questa distribuzione d’acqua santa gli asini, e gli animali cornuti, i quali non sono punto tenuti in minor pregio degli altri, dai loro possessori.
Dopo avere goduto alquanto di questo spettacolo unico, femmo una lunga passeggiata sotto un cielo limpidissimo ed attorniati da oggetti interessantissimi, ai quali non porgemmo questa volta grande attenzione, abbandonandoci tutti al gusto di prenderci spasso, di divertirci.
Il 19 Gennaio.
Dunque il gran re, il quale ha riempito il mondo della sua fama, e che per le sue gesta luminose, avrebbe meritato pur anco il paradiso dei cattolici, ha compito desso pure la sua carriera mortale, e se n’andò trattenersi cogli eroi suoi pari, nel regno delle ombre. Quanto non si resta tranquilli, nello scorgere avviato all’eterno riposo uomo di tal fatta!
Oggi abbiamo impiegata bene la nostra giornata, vedendo una parte del Campidoglio, che io avevo trascurato finora; poscia c’imbarcammo sul Tevere, e vi bevemmo ottimo vino di Spagna, sopra un legno approdato di recente. Vuolsi che Romolo e Remo siano stati rinvenuti in questi dintorni, cosicchè possiamo dire, esserci ricreati in tre diverse maniere in questa giornata bellissima e mitissima; colla contemplazione dei capolavori artistici, con i ricordi delle antichità, e con il prezioso vino di Spagna.
Il 20 Gennaio.
Spesse volte cose le quali vi promettono viva soddisfazione, fintanto si considerano superficialmente, vi procurano poi amaro disinganno allorquando si viene a rilevare, che senza cognizioni apposite, non si è in grado di apprezzarle.
Ho studiato abbastanza l’anatomia, ed ho acquistata, fino ad un certo punto, e non senza fatica, la cognizione, del corpo umano; se non chè, in questa città, la contemplazione continua delle statue, fa sorgere desiderio, e scorgere la necessità, di essere versati sempre più in quella scienza. Per la nostra anatomia medico-chirurgica basta conoscere le parti, ed a questo scopo qualunque muscolo meschino può servire. Qui per contro, in Roma, le parti, le membra, non si possono dire tali, se non porgono ad un tempo forma bella, e nobile.
Nel grande spedale di Santo Spirito si è disseccato, ad uso degli artisti, un corpo umano con tanta perfezione, che costringe all’ammirazione. Si potrebbe ritenere un semidio spogliato dalla pelle, un Marsia.
Parimenti seguendo i precetti degli antichi non si studia già lo scheletro quale aggregato di ossa, riunite assieme artificialmente; ma bensì rivestite tuttora dei muscoli, i quali rivelano i movimenti, la vita.
E quando poi vi dirò, che alla sera stiamo studiando la prospettiva, scorgerete che non viviamo in ozio. In ogni cosa però si spera sempre potere fare più, di quanto si riesca a compiere.
Il 22 Gennaio.
Del senso artistico tedesco, della vita artistica in Germania, si potrebbe dire che fa romore, ma che non risuona. Allorquando io rifletto quante cose stupende stanno alla mia portata, e quante poche io valgo ad apprezzare, dovrei disperarmi, se non mi confortasse la speranza di potere al mio ritorno apprezzare i pregi di quei capo lavori, attorno ai quali io vado ora girando.
Convien pur anco dire che poco pensiero si è preso finora in Roma, di agevolare i mezzi, a chi intende fare studii seri. Gli è forza aggirarsi su rovine moltiplici, infinite, per potersi formare un idea generale, complessiva. Per dir vero sono pochi i forastieri, i quali si propongano di vedere le cose a dovere, di ricavarne profitto. Il più gran numero segue suoi capricci, si abbandona alla sua fantasia, come ben possono farne testimonianza tutti coloro, i quali si trovano in relazione con i forastieri. Ogni cicerone ha le sue idee; vuole raccomandare un negoziante, favorire un artista, e come potrebbe la cosa essere diversamente? Come potrebbe l’inesperto scegliere quanto vi ha di meglio, fra tutte le cose che gli si offrono?
Si sarebbe potuto arrecare un grande vantaggio agli studiosi, qualora si fosse creato un museo, e se il governo, di cui è pure richiesto il permesso, quando si voglia esportare all’estero una qualche antichità, lo avesse vincolato quanto meno all’obbligo di doverne presentare una riproduzione in gesso. Se non che, quando anche un Papa avesse avuto questo pensiero, avrebbe incontrata opposizione in ogni parte, ed in pochi anni sarebbe nata una confusione intorno al merito delle cose esportate, per le quali si sanno ottenere in segreto i permessi, uno ad uno, ricorrendo a mezzi di ogni specie.
Il 22 Gennaio.
Già da qualche tempo, ma specialmente in occasione della recita dell’Aristodemo, si è risvegliato il patriottismo dei nostri artisti tedeschi.
Non cessarono dal parlare con favore della mia Ifigenia; mi richiesero di ripeterne loro alcuni passi, e finii per doverne dare loro lettura di tutta, una seconda volta; ed in questa occasione mi accorsi che vari brani facevano migliore figura alla recita, di quanto comparissero sulla carta. Convien pur dirlo; la poesia, non è fatta per gli occhi.
Queste voci favorevoli non tardarono guari a giungere all’orecchio di Riefenstein, non che di Angelica, ed ho dovuto leggere un altra volta colà la mia tragedia. Pregai mi si concedesse alquanto di respiro, ma intanto esposi subito l’argomento della favola, ed il modo con il quale io l’aveva sviluppato, ed alla lettura poi, ottenne quella maggior favore di quanto mi sarei imaginato; ed anche il signor Zucchi, dal quale, per dir vero, poco io mi aspettavo, si pronunciò francamente in modo molto lusinghiero: Dichiarò espressamente che la mia tragedia per la forma si accosta all’indole più abituale delle tragedie greche, italiane, e francesi, le quali sono quelle che vanno più a genio di tutti coloro, i quali non sono ancora assuefatti a tutte le stranezze del teatro inglese.
Il 25 Gennaio 1787.
Mi sarà sempre più malagevole il potervi dare conto quindinanzi del mio soggiorno a Roma; questa città mi fa la figura del mare, che si trova sempre più profondo, a misura più si scende in esso.
Non si può esaminare lo stato attuale, senz’avere presente quello passato, ed il paragonare l’uno all’altro, richiede tempo ed agio.
La posizione stessa della città vi porta a considerare il modo, nel quale è questa sorta. Si scorge tosto che qui non si è stabilito un popolo nomade numerato, guidato da un capo; che non vi si fissò con animo deliberato il centro di un regno; non vi fù qui un principe possente, il quale abbia fatto scelta della località la più adatta, a sede di una colonia. No, pastori vagabondi cominciarono a costrurre qui alcune capanne, e due giovani arditi, gittarono in cima di un colle le fondazioni del palazzo dei dominatori del mondo, ed ai piedi di quel colle sorsero liberamente abitazioni, fra le paludi ed i canneti.
Le sette colline di Roma poi, non si possono dire alture, rimpetto alla contrada che si stende a tergo di quelle; sono tali rimpetto al Tevere, ed all’antico letto di questo, che diventò poi il Campo Marzio. Se nella primavera mi verrà dato potere fare alcune escursioni, vi darò conto più particolareggiato di quest’infelice località; ma fin d’ora prendo viva parte ai lamenti ed al dolore delle donne d’Alba, le quali vedevano distrurre la loro città, e che guidate da un avveduto condottiero dovevano abbandonare quella posizione felicissima, per venirsi immergere nelle nebbie del Tevere, e dalla misera collina di Cornelio volgere con desiderio lo sguardo al loro paradiso perduto. Conosco poco ancora i dintorni, ma sono persuaso non esservi altra città antica, la quale sorga in località altrettanto infelice quanto Roma, ed i Romani dopo averla tutta occupata, dovettero portare lontane da quella le loro ville, le loro case di campagna, edificandole sull’area delle città che avevano dessi stessi distrutte, per potere ivi godere la vita.
Il 25 Gennaio.
Se si considerano le cose attentamente, si scorge come qui molti e molti vivano vita tranquilla, e come ognuno vi possa trovare occupazione a modo suo. Abbiamo viste presso un sacerdote, il quale senza avere propriamente un genio per le arti, si è dedicato tutto al culto di quelle, copie stupendamente eseguite in miniatura, di quadri pregevoli. Il suo capo lavoro si è una copia della cena di Lionardo da Vinci, la quale si trova a Milano, e che rappresenta Cristo nel momento in cui, trattenendosi piacevolmente a tavola col giovane prediletto, dice «eppure vi è fra voi chi mi dovrà tradire.»
Si spera potere eseguire un’incisione tolta da questa copia, ovvero da altra che si stà eseguendo, e sarà il più bel regalo che si potrà fare al pubblico intelligente.
Ho fatta visita alcuni giorni sono al padre Jacquier Francescano, alla Trinità dei Monti. Egli è Francese per nascita, autore rinomato di opere di matematica, molto inoltrato negli anni, ma tuttora piacevole, e spiritoso. Egli conobbe gli uomini più illustri de’ suoi tempi, e passò alcuni mesi pure presso Voltaire, il quale lo aveva preso molto a ben volere.
Ho conosciuto parimenti vari altri uomini di merito, i quali sono qui numerosi; se non che il sospetto, la diffidenza del governo clericale, li fa vivere estranei gli uni agli altri. Il commercio librario stesso procaccia poche relazioni, ed è raro che i prodotti recenti della letteratura, ottengano favore ed incontro.
Per tal guisa fa d’uopo che i solitari si diano a fare ricerca degli eremiti. Dopo la recita dell’Aristodemo, per la quale convien dire mi sono adoperato molto io pure fui di bel nuovo ricercato; se non chè era chiaro che lo scopo di queste premure era unicamente per dare forza al proprio partito; che mi si voleva adoperare per istromento; e che se io avessi voluto produrmi, comparire, fare alcune dichiarazioni, avrei potuto sostenere per poco una parte abbastanza brillante. Ora però, che hanno dovuto accorgersi che io non intendo piegarmi alle loro viste, mi lasciano tranquillo, ed io posso continuare a battere sicuro la mia strada.
Ed anzi la mia esistenza ha perduta una zavorra la quale grava la loro; non nutro più timore degli spettri, i quali mi hanno dato pensiero le tante volte. E voi pure state di buon animo, che non tarderete guari a vedermi ritornare fra voi.
Il 28 Gennaio 1787.
Non voglio ommettere di rendervi consapevoli, ora che ne ho acquistata idea precisa, di due considerazioni, che qui si ha occasione di fare ad ogni istante.
Nello scorgere la ricchezza immensa di prodotti artistici di questa città, tuttochè ridotti per buona parte a stato di rovina, sorge spontaneo e naturale il desiderio, di conoscere i tempi a cui appartengono. Winckelmann ci avvia bensì a distinguere le varie epoche, a riconoscere gli stili diversi di cui si valsero i vari popoli, i quali col volgere degli anni si vennero poco a poco formando, quindi per ultimo, modificando. Di queste verità sono persuasi tutti gl’intelligenti nell’arte. Ognuno ammette la giustezza, il peso di queste massime.
Se non che, in qual modo si può pervenire ad acquistare queste cognizioni? Studiando molto si riesce bensì a formarsene un idea complessiva, generale; ma si rimane tuttora al buio dei particolari. È d’uopo che l’occhio vi si vadi assuefando con una pratica lunga di molti anni, e conviene imparare, prima di potersi arrischiare a fare domande. E forza non titubare; non perdere tempo, l’attenzione deve essere di continuo desta, ed ognuno il quale abbia senno, non tarda ad avvedersi che anche in questo ramo di scienza, non è possibile portare sicuro giudizio, se non tenendo presente il punto di vista istorico.
La seconda considerazione si riferisce esclusivamente all’arte greca, e studia indagare, con quale metodo pervenissero quegli artisti incomparabili, a ricavare della figura umana la serie di quelle loro creazioni divine, le quali raggiungono la perfezione, ed alle quali non difettano, nè le doti le più caratteristiche, nè tutte le transizioni. Mi sono imaginato togliessero a loro norma le leggi stesse, che governano i fenomeni naturali, delle quali sto indagando le vie. Se non che, vi ha qualcosa d’altro ancora, di cui non sarei in grado dare conto.
Il 2 Febbraio 1787.
Non è possibile formarsi un idea della bellezza di Roma, allorquando splende la luna nel suo pieno, senza averla vista. Tutti i particolari scompaiono in quel grande contrasto di luce, e di ombre, ed unicamente le imagini grande ed in complesso, si presentano all’occhio. Da tre giorni abbiamo goduto appieno delle notti le più limpide, e le più splendide. L’aspetto il più imponente si è quello del Colosseo, il quale di nottetempo è chiuso. Vi abita un eremita in una piccola cappella, ed accattoni cercano ricovero sotto le volte di quello. Questi avevano acceso fuoco sul nudo terreno, e l’aria tranquilla, cacciava a malapena il fumo dall’arena, in guisa che la parte inferiore di essa rimaneva quasi immersa in quello, mentre in alto le mura immense sorgevano più severe, più cupe; stavamo contemplando quello spettacolo dal di fuori, contro la cancellata, mentre in alto splendeva chiara e limpida la luna. Di tratto in tratto il fumo usciva, facendosi strada fra le aperture delle pareti colossali, e la luna lo illuminava, quasi nebbia d’argento. Era vista propriamente stupenda, e conviene vedere illuminati pure a quel modo il Panteon, il Campidoglio, la piazza di S. Pietro, non che le piazze, e le strade di maggiore ampiezza. Per questo modo qui il sole e la luna, hanno al pari dell’ingegno umano ufficio diverso dalle altre località, dacchè loro incombe rischiarare moli colossali, però proporzionate.
Il 13 Febbraio.
Devo farvi parola di un evento lieto, tuttochè di poco momento; se non chè, ogni evento lieto, sia di molto o di scarsa importanza, è pur sempre cosa piacevole. Presso la Trinità dei Monti si sta praticando uno scavo, per allogarvi le fondazioni destinate a soreggere un nuovo obelisco, e colà si trovano ad ogni tratto rovine degli orti di Lucullo, i quali posteriormente vennero in possesso degl’imperatori. Il mio parrucchiere, recatosi un giorno colà, di buon mattino, vi trovò un frammento in terra cotta, di superficie piana, con alcune figure, e dopo averlo ripulito accuratamente, ce lo fece vedere. Non frapposi indugio a farne acquisto. Non è guari più largo della mano, e sembra dovesse formare parte del bordo di un ampio piatto. Vi si scorgono due grifoni presso un ara destinata a sacrificio; sono di lavoro finitissimo, e se fossero invece incisi sopra una pietra dura, potrebbero formare un bellissimo sigillo.
Vado pure raccogliendo varie altre cose, e nessuna havvene qui, la quale si possa dire priva di merito. Tutte hanno importanza più o meno, tutte sono istruttive. Più pregevoli però d’ogni altra cosa, mi saranno le idee che porterò meco di qui, le quali si verranno sempre più ordinando, ed acquistando maggior valore.
Il 15 Febbraio.
Non mi fu possibile evitare di dovere dare lettura ancora della mia Ifigenia, prima di partire per Napoli. La signora Angelica, ed il consigliere aulico Reifenstein, furono gli uditori, e quegli che più mi spinse, si fu il signor Zucchi, per secondare il desiderio di sua consorte; egli intanto stava lavorando attorno ad un grande disegno di architettura, nel quale ramo dell’arte è valentissimo. Fu in Dalmazia con Clérissau, lavorando in società con quegli, disegnando le figure nelle viste di edifici e di rovine pubblicate dal primo, acquistando in allora molta pratica della prospettiva e dell’effetto, che ora negli anni suoi inoltrati, si compiace a riprodurre sulla carta.
L’animo gentile di Angelica prese la più viva parte alla mia produzione; mi promise torne il soggetto di un disegno, che porterò meco quale suo ricordo. Per tal guisa ora appunto che mi sto preparando a lasciare Roma, mi trovo avere iniziate relazioni con queste gentili persone, la qual cosa mi riesce di soddisfazione e di dolore ad un tempo, dal momento che io scorgo, che si vede con dispiacere la mia partenza.
Il 16 Febbraio 1787.
Ho appreso in modo singolare, e piacevole ad un tempo il felice arrivo costà della mia Ifigenia. Mentre mi trovavo per istrada, avviato al teatro dell’opera, mi fù sporta una lettera di pugno conosciutissimo, la quale mi tornò questa volta doppiamente accetta, per essere sigillata con un lioncello, la quale cosa mi provò tosto che il mio pacco era pervenuto felicemente a destinazione. Entrai in teatro, e fra tutte quelle persone a me sconosciute, cercai procurarmi un posticino immediatamente al dissotto del grande lampadario, ed ivi mi trovai cotanto vicino ai miei cari, che avrei ritenuti sentirli respirare, e poterli abbracciare. Vi ringrazio di cuore della premura usata nel accusarmi intanto semplice ricevuta, e così fosse che vi trovaste in grado di aggiungervi altra volta alcune buone parole di soddisfazione. Troverete qui annesso l’elenco degli amici miei, ai quali dovranno essere distribuiti gli esemplari che attendo da Goeschen, imperocchè nel mentre mi è poco meno che indifferente il giudizio che porterà il pubblico delle cose mie, desidero che queste valgano, se non altro, a procacciare qualche soddisfazione alle persone, a cui mi stringono vincoli d’affetto.
Ho intrapreso anche troppe cose. Allorquando prendo a considerare in complesso i miei quattro ultimi volumi, mi vien quasi da girare il capo; devo prenderli ad esame partitamente, ed allora le cose vanno bene. Non avrei forse fatto meglio attenermi al mio primo pensiero di pubblicare separatamente questi scritti, e d’intraprendere con nuovo coraggio, e con novello ardore a trattare gli argomenti nuovi, che mi si vennero affacciando alla mente. Non avrei fatto meglio scrivere l’Ifigenia a Delfo, anzichè lasciarmi sedurre dalle fantasie del Tasso, e però vi ho posto molto del mio, che avrei potuto tralasciare inutilmente.
Mi sono posto nell’antisala, vicino al caminetto ed il calore di un buon fuoco mi diede il coraggio di cominciare un nuovo foglio, imperocchè la è pure cosa piacevole lo abbandonarsi tutto quanto ai propri pensieri, ed il cercare riprodurre colle parole l’impressione prodotta da tutto quanto vi stà d’attorno. Il tempo è stupendo; le giornate sono bellissime, gli allori, i mirti, come parimenti i mandorli, sono in fiore. Stamane per tempo fui colpito da una vista singolare, viddi da lontano alti fusti di piante, di uno stupendo colore violaceo. Avvicinandomi a quelle, mi accorsi che appartenavano a quella specie che presso di noi si coltiva nelle stufe, ed alla quale diamo nome volgarmente di albero di Giuda, il cercis siliquastrum dei botanici, i cui fiori violacei, a foggia di farfalle, escono direttamente dal fusto. Le piante che mi stavano davanti, erano state tagliate nell’ultimo inverno; ed i fiori di odore vivace, e ben formati, sdrucciolavano a migliaia dalla corteccia. Le margherite spesseggiano sul suolo, al pari delle formiche; l’adone ed il croco vi sono meno frequenti, e per questo motivo appunto, fanno tanto più bella figura.
La vista di queste contrade meridionali, non mi procura soddisfazione soltanto, ma cognizioni ancora, le quali mi gioveranno sempre più efficacemente. La storia naturale si è come l’arte; molto si scrisse riguardo ad entrambe, e chiunque si dedica alla studio di quella, può formare sempre nuove combinazioni.
Quando io penso a Napoli ed alla Sicilia ancora, tosto mi sovviene come la storia non meno che i dipinti rappresentino, come in quelle contrade di paradiso sorgano pure i volcani, i quali da secoli scuotono con violenza il suolo, incutendo terrore agli abitanti.
Però scaccio da me l’idea di quelle viste seducenti, per potere ancora, prima della mia partenza, conoscere sempre più l’antica capitale del mondo.
Da due settimane sono sempre in moto, dal mattino alla sera, cercando, e procurando di vedere, quanto non ho visto ancora. Visito per la seconda, per la terza volta, le cose le più importanti, onde acquistarne idea più giusta, più precisa, imperocchè, quando le cose principali sono allogate convenientemente, disposte in ordine, rimangono area e spazio, per quelle di minore importanza. Il mio gusto si rafforza e si raffina, ed ora comincio potere apprezzare a dovere quanto vi ha di grande, di autentico.
Si finisce per portare invidia agli artisti, i quali nell’imitare, nel riprodurre quei grandi pensieri, maggiormente a quelli si accostano, e meglio li comprendono, di chi soltanto li contempla, e si ferma a meditare, sovra essi. In fin del conto però, ognuno deve fare quanto può, ed io sciolgo al vento tutte quante le vele del mio ingegno, per navigare in questi mari.
Il caminetto questa volta è propriamente ben riscaldato; i carboni sono accesi in bell’ordine, la quale cosa accade di raro presso di noi, imperocchè nessuno ha tanto facilmente tempo ed agio da potere attendere a badare per un paio d’ore al fuoco del camino; e pertanto io voglio approffittare di questo bel clima, per salvare dal mio taccuino alcuni appunti, i quali sono oramai già cancellati per metà.
Il 2 di febbraio abbiamo assistito nella cappella Sistina, alla funzione della benedizione delle candele, se non che vi trovammo poca soddisfazione, e non tardammo gli amici miei, ed io, ad uscire di là, imperocchè pensai, essere appunto il fumo di quelle candele, non chè quello dell’incenso, che da trecento anni in quà ha recato tanto danno a quelle stupende pitture, e che finirà per rovinare affatto quelle meraviglie dell’arte.
Ci affrettammo pertanto a cercare l’aria libera, e dopo una lunga passeggiata giungemmo a S. Onofrio, dove sta sepolto in un angolo il Tasso. Nella biblioteca del convento si vede il suo busto. La figura è di cera, ed io sarei portato a credere, sia stata presa dal suo stesso cadavere. Tuttochè eseguita con poca cura, ed anche guasta in alcune parti, rivela meglio di qualunque ritratto, l’impronta di un uomo d’ingegno, d’indole fiera, gentile ad un tempo, e riflessiva.
E basti per questa volta. Ora io voglio ricorrere alla seconda parte del coscienzioso Volckman la quale tratta di Roma, per ricavare di là quanto mi rimanga ancora a vedere. Prima di partire per Napoli conviene che io falci quanto meno la messe; verrà pure il tempo opportuno a riunirla in manipoli.
Il 17 Febbrajo.
Il tempo continua ad essere di una bellezza indicibile anzi incredibile; dacchè siamo in febbrajo ha piovuto tutto al più quattro volte; il cielo è sempre limpido, e verso il mezzodì fa quasi caldo. Ora si cerca con piacere l’aria libera, e dopo essersi trattenuto fin qui colle divinità e cogli eroi, la natura riacquista i suoi diritti, e si gode a girare i dintorni, irradiati da un magnifico sole. Penso qui parecchie volte, come nel settentrione gli artisti tentino aggiungere qualcosa ai tetti di paglia, alle castella rovinate, ricorrendo alle acque, ai cespugli, alle roccie infrante, per ottenere effetto pittorico, e provo stupore, che dopo tanto lunga abitudine, cotali cose ottengano tuttora il loro scopo. Qui da due settimane ho preso coraggio; ho portato meco alcuni piccoli fogli nelle vallette, sulle alture delle ville, e senza porvi importanza di sorta, ho fatta una serie di schizzi, i quali portano propriamente l’impronta meridionale della campagna di Roma, ed ora proverò, confidando nella mia buona stella, ad aggiungervi la luce e le ombre. È strano che si sa, si conosce quanto è bene; e che quando si vuol provare a fare una cosa, l’abilità sfugge di mano, e non si riesce a produrre quanto pure sarebbe bene, ma bensì le cose unicamente, alle quali si ha assuefazione. Per far progressi vi vorrebbe esercizio regolare, seguitato; se non che, dove trovare tempo, e modelli? Intanto però, mi accorgo che col lavoro assiduo di queste due settimane sole ho fatto progressi notevoli.
Gli artisti provano piacere ad insegnarmi, perchè capisco facilmente; ma ciò non basta. Il capire presto, è fuori di dubbio pregio naturale dell’ingegno, ma per fare bene poi, si richiede lunga pratica.
Un dilettante però, per quanto si sente debole, non si deve punto lasciare prendere dalla sfiducia. Quelle poche linee che io caccio giù sulla carta, spesso in fretta, raramente con precisione, mi giovano pur sempre a rappresentarmi meglio le cose materiali, ad acquistarne idea complessiva, nel considerare gli oggetti con maggiore attenzione.
Non conviene il volere assumere carattere di artisti; vuolsi contentare di far le cose a modo suo; imperocchè la natura ha preso pensiero pure dei piccini, e la perfezione non ha per conseguenza che quanto non è perfetto, non possa avere pregio a sua volta: «Un uomo piccolo, è pur sempre un uomo.» Lasciamo che faccia quello che può.
Ho visto due volte il mare; prima l’Adriatico, poi il Mediterraneo, ma alla sfuggita soltanto. A Napoli ne farò ampia conoscenza. Tutto ora mi spinge colà; perchè non vi anderò più presto, a miglior mercato! Quante cose, e tutte nuove non avrei io a parteciparvi di colà.
Il 17 Febbrajo 1787.
alla sera, dopo ultimate le pazzie del Carnovale.
Mi duole lasciare Moritz. Egli si trova bene avviato, ma siccome può fare da sè, va cercando nascondigli i quali gli tornino accetti. Gli ho dato per consiglio di scrivere ad Herder; troverete qui annessa la sua lettera, ed io desidero una risposta, la quale contenga qualcosa di pratico, che gli possa tornare proficuo. Egli è propriamente uomo eccellente, ma avrebbe fatto molto di più, se di quando in quando avesse trovato persone capaci, benevoli, le quali avessero voluto dargli direzioni. Attualmente non potrebbe trovare migliore ventura, se non che Herder gli permettesse di scrivergli qualche volta. Egli si stà ora occupando di un lavoro pregevole di antiquaria, il quale merita essere incoraggiato. L’amico Herder non potrebbe impiegare meglio l’opera sua, nè trovare terreno più adatto, a far fruttare suoi insegnamenti.
Il mio ritratto in grande, a cui ha posto mano Tischbein, comincia di già a spiccare fuori della tela. L’artista si è fatto fare da un abile scultore un piccolo modello in creta, al quale ha dato ottimo panneggiamento, con un ampio mantello. Dopo di ciò si è posto a dipingere assiduamente, imperocchè vorrebbe portare il quadro ad un certo punto, prima che io parta per Napoli, e vi vorrà pure un certo tempo, unicamente per ricoprire di colore, una tela di tanta ampiezza.
Il 19 Febbrajo.
Il tempo continua ad essere bello, al di là di qualsiasi espressione; oggi ho passata con mio rincrescimento la giornata fra pazzi. Verso sera cercai rifugio alla villa Medici; sorgeva la luna nuova, ed a fianco della graziosa falce di argento, si scorgeva ad occhio nudo quasi, e distintamente poi con il canocchiale, l’intero disco. Stava sospesa sulla terra un atmosfera vaporosa, della quale non si può avere idea, senza avere contemplati i quadri, ed i disegni di Claudio Lorenese, ed in nessun luogo ho osservato questo fenomeno naturale di tanta bellezza, quanto in questa contrada. Trovai nella terra fiori che non conoscevo, ed alberi pure già in fiori, fra i quali i mandorli, che fanno bellissima vista fra mezzo al verde cupo degli elci. Il cielo poi è di tale limpidezza azurrina, da non potersi descrivere. Quale non sarà a Napoli! Presso di noi assume il più sovente tinta verdognola. Allo spettacolo di questa natura si ridestano le mie fantasie botaniche, e sono sulla via di scoprire nuovi rapporti nella natura, dove nulla vi ha d’inutile in tanta immensità, dove la varietà sorge dalla semplicità.
Il Vesuvio stà eruttando cenere e lapilli, e di notte tempo si scorge illuminata la sua vetta. Voglia la natura nella sua attività prepararmi un torrente di lava, che oramai non ho pazienza più di aspettare il momento in cui mi sia dato di potere contemplare questi grandi fenomeni di natura.
Il 21 Febbrajo 1787.
Mi valgo di alcuni pochi momenti di libertà, mentre si stanno preparando i miei bagagli, per ricordare alcune cose ancora. Domattina partiamo per Napoli, ed io godo in anticipazione di tutto quanto sarò per vedere colà di bello, nutrendo speranze di acquistare in quella contrada di paradiso nuova libertà di spirito, e volontà di dedicarmi più seriamente ancora al mio ritorno in Roma, allo studio dell’arte. Mi riesce facile il disporre il mio bagaglio, e vi attendo di miglior animo che sei mesi sono, quando ero sul punto di staccarmi da tutti quelli i quali mi sono cari, nonchè da tutto ciò che mi sta a cuore. Sono propriamente già trascorsi oramai sei mesi, d’allora in poi e dei quattro che ho passati a Roma, posso dire non avere perduto un solo istante, ed è pure ciò già qualcosa; però ancora non basta.
So che l’Ifigenia è arrivata costà; voglia Iddio che mi sia dato udire ai piedi del Vesuvio, che abbia incontrata buona accoglienza.
Sono lietissimo di fare questo viaggio in compagnia di Tischbein, il quale possiede colpo d’occhio cotanto sicuro per le cose naturali quanto per l’arte; e da buoni Tedeschi, non risparmieremo di studiare, di lavorare. Abbiamo fatto acquisto di carta stupenda, e ci proponiamo disegnare molto, tuttochè sarà probabile che la bellezza, lo splendore degli oggetti, imporranno limiti alla nostra buona volontà.
Intanto, in ordine a miei lavori poetici sono riuscito a decidermi di portare meco unicamente il Tasso, del quale per dir vero spero molto. Se almeno io sapessi ora quanto pensate dell’Ifigenia, mi potrebbe ciò servire di norma, imperocchè si tratta di lavoro analogo, di argomento forse più limitato ancora, e che converrà svolgere più ampiamente nei particolari; finora però non so se riuscirà; ho dovuto annullare tutto quanto avevo di già scritto, tutto quello era rimasto abbandonato troppo a lungo, e nè le persone, nè l’orditura del dramma, nè il modo di svolgerla, corrispondevano menomamente più alle mie idee attuali.
Nel disporre in ordine le mie carte, mi vennero sotto mano talune fra le vostre care lettere, e nel rileggerle vi trovo il rimprovero di cadere spesse volte in contraddizione nella mia corrispondenza. Non posso verificare se lo appunto abbia fondamento, imperocchè spedisco via tutto quanto scrivo, senza serbarne copia, ma riconosco io stesso, essere la cosa probabile, imperocchè mi trovo sotto l’influenza di svariate impressioni, ed è possibile che io non sia sempre coerente a me stesso.
Narrasi di un navigante, il quale sorpreso di notte tempo in mare da una tempesta, si affatica a drizzar la prora verso la sua casa. Un suo ragazzo, il quale nelle tenebre si teneva serrato contro il genitore, gli domandò: «Padre che cosa mai si è quella luce capricciosa, che vediamo ora più in alto, ora più al basso di noi.» Il padre promise spiegargli la cosa il giorno successivo, ed allora si riconobbe che quella era la luce del faro la quale ora compariva più alta, ora più bassa, allo sguardo confuso, ed abbagliato dall’imperversare della tempesta.
Ed io pure drizzo la prora verso il porto, in un mare agitato, se non chè scorgo abbastanza la luce del faro, e tuttochè mi paia questa mutare di posto, ho fiducia però, di riuscire alla spiaggia.
Quando si parte, il pensiero ricorre involontariamente alle partenze anteriori; si pensa pure all’avvenire, e ciò mi accade questa volta con maggiore intensità di altre, parendomi che ci diamo pure troppa pena per vivere, mentre difatti attualmente, Tischbein ed io volgiamo le spalle a tante rarità, al nostro museo stesso che avevamo iniziato. Stanno in questo tre Giunoni, l’una a fianco dell’altra da paragonare assieme, e partiamo, quasi non ve ne fosse neppure una.
Il 20 Febbraio.
Mercoledì delle Ceneri.
Tutte le pazzie ora sono finite. Gl’innumerevoli moccoletti di ieri sera furono però, per dir vero, spettacolo curioso. È d’uopo aver visto il carnovale a Roma, per essere pienamente liberi dal desiderio di vederlo altra volta. Non è cosa la quale si possa scrivere; narrata a voce potrebbe darsi riuscisse dilettevole. La cosa la quale riesce ingrata in quello, si è che fanno difetto ai più la gioia spontanea; quel tanto di danaro che pure occorrerebbe, per prendersi spasso. I grandi sono economi, si tengono in disparte; il ceto medio è di ristrette fortune; il popolo senza brio, senza vita. Nell’ultimo giorno vi fu un chiasso indescrivile, ma non vera gioia. Il cielo di una purezza e di una splendidezza rara, illuminava, nobile ed innocente, tutte quelle stravaganze.
Dal momento però, che costà non sarà possibile imitarlo, mando per trattenimento dei ragazzi le maschere del carnovale, ed i costumi propri dei Romani disegnati e dipinti, i quali potranno tenere luogo a quei cari piccini di un capitolo, che fa difetto nell’Orbis pictus.
Note
- ↑ Tischbein Giovanni Enrico pittore di storia; fu direttore sul finire del secolo scorso dell’accademia di pittura di Napoli. (Il Traduttore).
- ↑ Originario di Amborgo prese stanza a Roma nel 1762, e vi dimorò fino alla sua morte avvenuta nel 1793, dedicandosi tutto allo studio delle arti, ed alla protezione degli artisti. (Il Traduttore).
- ↑ Pittore rinomato di paesaggi. Fu pittore di corte a Napoli, e morì a Firenze nel 1807. Goethe ne scrisse la vita. (Il Traduttore).
- ↑ Moritz Carlo Filippo, scrittore d’arte e di estetica. Fu professore di archeologia a Berlino. (Il Traduttore).
- ↑ Originario di Danzica, autore di un viaggio in Italia. (Il Traduttore).