Il nemico (Oriani)/Parte prima/V
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V.
Erano a Mosca.
Dopo un altro colloquio col principe Loris si era deciso prontamente: gli bisognava far saltare il teatro della vecchia capitale, al principio del- l’anno, perchè lo Czar vi si recherebbe per inaugurare nel grande museo politecnico l’esposizione dei costumi e degli oggetti necessari alla vita russa d’inverno. L’impresa arrischiatissima diventava impossibile dopo le prime nevi. Ma Loris non se ne aperse ad alcuno. Col principe si erano accordati in ciò solo, che questi fornirebbe i trenta chilogrammi di melinite necessari allo scoppio: sul come prepararlo Loris aveva conservato, anche con lui, il più altero silenzio. Ma non poteva condurre da solo l’impresa. Il suo pensiero cadde quindi su Olga Petrowna, alla quale si era già accorto di avere inspirato un sentimento abbastanza prossimo all’amore: infatti la giovane medichessa, incontrandolo un’altra volta per strada, si era fatta talmente rossa che qualunque altro, anche meno penetrante di Loris, si sarebbe accorto della sua passione.
Questi fu pronto a sfruttarla.
Accompagnò Olga a casa, e la prostrò con un secondo colloquio. Ella, che si aspettava a qualche galanteria, benchè le maniere di Loris non le permettessero punto simile speranza, soccombette alle prime severe parole. Con una brutalità non senza grandezza egli le espose sommariamente il proprio disegno. Olga allibì, ma Loris non le lasciò nemmeno il tempo di aver paura. Parlava freddo e splendido: mai nessun libro, fra i più rivoluzionari, aveva avuto per lei maggior fascino di poesia e di volontà; si sarebbe detto che egli sentisse davvero, nell’effimera piccolezza del proprio individuo, tutti i dolori sociali, di cui parlava.
Olga non aveva tentato nemmeno di resistere.
Loris impressionato di quella muta dedizione le aveva chiesto:
— Accettate?
— Che importa la mia volontà? Essa deve essere spezzata come tutte le altre.
Quindi avevano convenuto che Olga andrebbe a Mosca con lui nella settimana. Ella gli diede l’indirizzo di Lemm, rifugiatosi allora presso Mosca, nel villaggio di Touchino, da una sua zia, piccola mercantessa di tela. Il contratto con Sofia Semenowna non era stato difficile: per quanto la vecchia avara intendesse a sfruttare l’opera della figlia, l’offerta di trenta rubli al mese e l’anticipo di tre mesate la sbalordirono così da impedirle qualunque stiracchiamento; dal proprio canto Olga doveva ricevere altri quaranta rubli mensili e il miglior trattamento nella casa della supposta moglie di Loris. La signora era nel villaggio di Oudin nel governo di Kazan, ma probabilmente dovrebbe cercare nell’inverno clima più mite all’estero; Loris aveva detto a Sofia Semenowna, che in questo caso aumenterebbe ad Olga lo stipendio di altri dieci rubli mensili. Sofia Semenowna aveva risposto, domandando subito altri dieci rubli per sè; Olga presente al mercato arrossiva, ma Loris senza darle tempo d’intervenire aveva tagliato corto rispondendo, che ne avrebbero discusso solamente allora.
In tutta la scena Loris, che aveva detto di chiamarsi Boris Petrovich Strogonoff, si era mostrato talmente gran signore in tutti i particolari della propria vita coniugale, che la vecchia non aveva concepito alcun sospetto.
Olga lo ammirava.
— Vestitevi da signora, le disse Loris.
Olga ne aveva convenuto con segreta voluttà, sentendosi ridiventare donna sotto la sua influenza.
— Eccovi cento rubli.
Olga esitava: ma Loris guardandola severamente soggiunse:
— Ancora una ridicolaggine del vecchio nichilismo, le donne che vogliono parere uomini, e perdono così tutto il valore della propria individualità. Con questi cento rubli vi farete un abito da viaggio, e comprerete due valigie eleganti. V’intendete d’eleganza?
La mano di Olga tremava tenendo il pacchetto dei cento rubli.
— Se potrete ridiventare donna l’imparerete.
Loris a Mosca si era messo subito in cerca d’un appartamento nella piazza del grande teatro. Gli occorrevano due case su vie diverse, comunicanti fra loro pel cortile, una sulla piazza, l’altra in una strada parallela, perchè lo scoppio della mina, sprofondando il teatro, non scrollasse anche quella, dalla quale per mezzo di un filo elettrico intendeva far partire la scintilla. Possibilmente le case avrebbero dovuto appartenere a due proprietari; nella prima si sarebbe installato con Olga, facendola passare per sua moglie; nella seconda starebbe Lemm. Tagliando un muro divisorio, e coprendolo con un armadio a specchio, aprirebbero un passaggio fra i due appartamenti.
La prima giornata fu spesa in ricerche inutili. Quella piazza, fra le più eleganti di Mosca, non aveva appartamenti disabitati. Erano quasi tutti occupati dal ricco ceto mercantile, che vi sfoggiava un lusso sempre più occidentale. Loris non potè visitarne che pochissimi. Una sola casa nella strada di ***, divisa dalla piazza da un grosso corpo di fabbriche moderne, aveva il primo piano vuoto e per un vasto cortile comunicava con un’altra prospiciente sul di dietro del teatro; ma era tutta occupata e da vendersi. Loris apprendendolo dal dwornik s’informò del padrone, un orefice, che della casa chiedeva cinquantamila rubli. Loris entrò in contratto; ciò gli permise di esaminarla minutamente a tutti i piani, domandando se non fosse possibile comprare anche l’altra, che le si univa posteriormente, per ottenere così un magnifico blocco. Gli fu risposto di no; la casa apparteneva ad una famiglia patrizia troppo ricca per disfarsi di un proprio stabile. Un appartamento laterale interno, occupato dalla famiglia di un giudice, comunicava coll’appartamento migliore dell’altra casa, formando il lato meridionale del cortile comune, ma viziandone l’architettura con un loggiato a colonnine di ghisa e a vetri, tutto pieno di vasi come di piccola serra. Loris nell’esaminare la casa ne criticava vivamente l’ordine interno, accennando a modificazioni per disporvi un vero appartamento signorile: il proprietario, tanto offeso dalla giustezza di quelle critiche quanto lusingato dalla speranza di vendere caramente la casa ad un gran signore, che ne pareva incapricciato, si offerse di trattare cogli inquilini per ottenere subito, mediante un grosso compenso pecuniario, lo sgombro di un qualche appartamento. Allora Loris aumentò le difficoltà: la sua signora avrebbe voluto stabilirsi almeno entro un appartamento, da lei stessa arredato; impossibile ottenere questo in una simile casa. La signora, appassionata pel teatro e cagionevole di salute, aveva anticipatamente imposto al marito quella piazza; era un capriccio indiscutibile di dama; quanto al prezzo Loris affettava la più grande indifferenza.
Il proprietario era sulle spine; disse a Loris di ritornare l’indomani e di concedergli carta bianca per ottenere subito l’appartamento occupato dalla vedova del giudice, sul lato sinistro del cortile, e che dava sulla piazza con una finestra, mentre all’interno combaciava colla piccola serra dell’altra casa. La vedova, rimasta piena di debiti, acconsentirebbe facilmente dietro un regalo; agli altri quartieri era impossibile pensare. Loris parve lasciarsi persuadere.
Prima di andarsene si fece mostrare dal padrone quell’unica finestra, dalla quale avrebbe goduto la vista della piazza; era all’angolo orientale. La finestra s’apriva sopra un balcone piccolo, di grevissimo disegno, Loris notò che la doccia, scendente dal cornicione del tetto, lambiva il balcone.
Un lampo gli si accese negli occhi.
— M’accorgo che è impossibile appagare la mia signora. La stagione teatrale comincia fra un mese; se questa vedova acconsente, farò disporre un arredo provvisorio da un tappezziere: per il momento bisognerà accontentarsene. Oggi è lunedì, sabato tutto dovrebbe essere terminato.
Combinarono che prima di mezzogiorno Loris andrebbe a prendere la risposta.
Allora corse subito in cerca di Sergio Nicolaievich Lemm, al vicino villaggio di Touchino sulla strada di Pietroburgo. Loris aveva noleggiato una telega a due cavalli, che andavano come ii vento; non mancava molto a sera quando giunse al villaggio. Fortunatamente riconobbe Lemm, solo, che passeggiava colla testa bassa, a mezza versta dalle prime isbe.
— Sergio Nicolaievich, gli disse rapidamente, sono sicuro che mi riconoscete. Bisogna che veniate subito con me a Mosca; ve ne spiegherò la ragione per strada.
Gli abiti del piccolo ebreo erano anche più laceri. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma l’altro si contentò di accennargli che si trattava di un’urgenza rivoluzionaria. Lemm corse al villaggio per avvisare la zia della propria partenza, e ne ritornò con un piccolo fagotto di panni, mentre Loris sulla strada faceva passeggiare i cavalli.
La sera stessa Lemm non era più riconoscibile. Loris lo aveva mandato in un grande magazzino di abiti, perchè vi si mutasse in un signore quasi elegante, dopo averlo costretto a tondersi i capelli e a radersi la barba. L’indomani Loris seppe dall’orefice che per cinquecento rubli la vedova, già decisa ad abbandonare Mosca per ritirarsi a vivere in campagna presso alcuni parenti del marito, era pronta a cedere l’appartamento, magari colla maggior parte dei mobili: questi non erano gran cosa di bello, ma aggiungendone qualche altro e con pochi restauri potrebbero servire provvisoriamente; l’appartamento era munito di tappeti. Loris andò. Un’ora dopo per mille e settecento rubli aveva comprato quell’appartamento; la vedova non ne asportava che gli abiti e la biancheria. L’appartamento, suprema follia del marito morto e per la quale egli aveva contratto gli ultimi debiti, era più che decente: si componeva di sei stanze e una cucina. Nello stesso giorno Lemm, per incarico di Loris, prendeva in affitto l’appartamento vuoto dell’altra casa in via ***, già occupato da un colonnello del 10.º reggimento granatieri traslocato a Pietroburgo; l’appartamento, più vasto e ammobigliato con gusto migliore, comprendeva anche una scuderia e una rimessa in un secondo piccolo cortile della casa.
Loris si faceva chiamare Boris Nicolaievich Perel; Lemm, conosciuto a Mosca da troppi studenti, conservava il proprio nome, spiegando la nuova fortuna col pretesto che la zia gli avesse anticipato in due mila rubli quasi tutta la propria eredità. Egli intendeva farsi dentista, spendendola in quell’impianto, per ottenere più presto una clientela fra i signori.
Lemm potè installarsi il giorno stesso, Loris non ottenne il proprio appartamento che alla fine della settimana. Olga Petrowna arrivò nel pomeriggio dello stesso giorno; alla stazione non v’era che Loris.
— Vi piaccio? gli chiese guardandosi il vestito e tremando in cuore di questo giuoco di parole.
— Questo fiore è troppo vistoso; nessuna signora lo avrebbe messo sopra un cappellino da viaggio.
Quindi le ordinò di scendere all’albergo del Cigno, ove l’indomani verrebbe a prenderla.
Ma risoluto il problema degli appartamenti, ne rimaneva un altro non meno difficile: di quali domestici servirsi? Lemm, abitando un appartamento ammobigliato, avrebbe potuto usare quelli medesimi della padrona; ma come fidarsi di loro? A prenderne altri, nichilisti, la paura di così terribile attentato, del quale solo l’intenzione basterebbe a meritare la morte, poteva vincere l’energia del loro carattere. Lemm stesso non vi era entrato che augurandosi rabbiosamente di morirvi; quindi divenuto improvvisamente guardingo, mentre Loris fedele alla propria massima sosteneva che in un caso simile il colmo della prudenza stava appunto nell’oblìo di ogni precauzione, insisteva per la propria maggior pratica delle abitudini poliziesche sulla necessità di avere almeno due domestici sicuri. A lui occorreva un uomo, a Loris una donna, per non lasciare Olga servirsi da sola, perchè questo sarebbe tosto notato da tutti gli inquilini.
Laonde suggerì a Loris di far passare Olga solamente per la dama di compagnia della moglie lontana.
— Perchè? chiese Olga.
— Non avete l’aria abbastanza signorile.
Loris ebbe un’altra idea: servirsi della figlia o della moglie del dwornik per distogliere i loro sospetti e rendersele amiche con poche larghezze, e sopratutto poterle licenziare di notte. Era sempre lo stesso sistema, cercare la sicurezza nel centro del pericolo. Dal canto proprio Lemm dovrebbe procurarsi un qualunque scimunito; ma siccome Loris intendeva munirsi di una droiska con due eccellenti trottatori pel caso di una fuga, lo si occuperebbe così col servizio dei cavalli, imponendogli di dormire nella scuderia. Quindi convennero di aprire un passaggio fra i due appartamenti: fuori avrebbero finto di non conoscersi.
Tuttavia Lemm non sapeva ancora nulla di preciso sull’attentato. Il piccolo ebreo, dopo il rifiuto di entrare nello tchin e l’abbandono dell’università, ove non aveva potuto compiere gli studi di medicina per mancanza di denaro, era caduto nella più atroce miseria. La vecchia zia, che fingeva di mercanteggiare nelle tele tessute dai contadini nei lunghi inverni, e faceva invece la piccola usuraia, lo aveva accolto malamente; anzichè dargli il danaro necessario ad iscriversi per gli ultimi due anni di clinica, gli aveva rinfacciato il posto ottenutogli per mezzo di un alto funzionario, del quale Lemm si era fatto un nemico irreconciliabile col gettargli sul viso il diploma di scrivano in polizia. Ma realmente quel funzionario lo aveva ricevuto come un mendicante. La vecchia, incapace di comprendere simile orgoglio nella condizione del proprio nipote, ripeteva:
— Lo hai voluto? pensaci tu ora.
Lemm aveva avuto con lei una di queste spiegazioni, quando incontrò Loris.
Al contatto di lui le sue idee rivoluzionarie rifiammeggiarono; poi lo sbalordimento del lusso impostogli, il mistero di quell’attentato, la semplicità grandiosa delle maniere di Loris, lo esaltarono. Quando questi gli disse di spacciarsi dentista, perchè la ciarlataneria della professione intonasse meglio colla nuova ricchezza, Lemm esclamò:
— Ma pensate dunque a tutto?
— A molte cose certo: per esempio, non avete denaro. Eccovi due mila rubli, nella vostra nuova posizione dovete possederne; non li prodigate però. Domani tornerete da vostra zia per dirle che li avete vinti al giuoco, ma che vi pare più conveniente di confessare in pubblico di averli ricevuti da lei, poichè intendete stabilirvi a Mosca come dentista. Ritornate nella mattina; è necessario entro domani aprire la comunicazione fra i due appartamenti.
Quella notte la passò solo nel nuovo quartiere.
Si sentiva entrato in campagna contro tutto l’impero russo. Un immenso orgoglio gli gonfiava il cuore nella solitudine di quella casa, ove nessuno ancora lo conosceva e nessuno lo conoscerebbe nemmeno dopo l’attentato. Oramai il dado era tratto: se anche Lemm ed Olga dovessero abbandonarlo, agirebbe da solo; ma li aveva scelti troppo bene per temere d’esser tradito. Erano due spiriti fanatici. Lemm, polacco ed ebreo, covava nella coscienza tutti i rancori di una razza senza patria e senza libertà; il suo odio, avvelenato dalla educazione, era arrivato da tempo al parossismo settario colla partecipazione indiretta alla lotta dei vecchi nichilisti contro lo czar. I suoi eroi erano i rivoluzionari morti sul patibolo, i suoi veri compatriotti si trovavano in Siberia fra i deportati politici, in quell’immenso esercito di prigionieri accantonato nei villaggi ad enormi distanze, sepolti vivi nelle miniere, dispersi pei deserti nevosi, ma che riunendosi per un magico appello sarebbero bastati a rovesciare l’impero. Olga era un’anima assetata di amore, una popolana tratta da una eguale superbia plebea all’università, e che i dolori di una vita anormale avevano cacciato nell’orbita tragica della rivoluzione. La sua ragione, già squilibrata dalle tempeste della esistenza domestica, era stata travolta alle più terribili negazioni della critica demolitrice delle scuole ribelli, mentre i sentimenti le erano rimasti puri nel fondo del cuore. Credeva di odiare i ricchi, e invece non amava che i poveri; invocava l’esterminio dei potenti, che facevano soffrire, e appena li vedesse schiacciati sotto una rivolta dei deboli, chiederebbe forse la loro grazia. Loris si sapeva troppo adorato da lei per dubitare di poterla sempre dominare.
Finalmente si sentiva preso nell’opera propria. La stanchezza della lunga preparazione era scomparsa: solamente ora gli pareva di comprendere la nullaggine degli studi, nei quali aveva passato tanti anni che ne provava ancora la nausea nell’anima. A che studiare? La vita è opera; prima e dopo l’opera, il pensiero non è che sogno. Un uomo poteva contrapporsi anche solo ad un impero, deviandone la storia: ma nè Mosca, nè il resto della Russia sapevano ancora ciò che egli preparava loro.
Questa esplosione della fantasia gl’impedì per lunghe ore di addormentarsi. A un certo punto dovette scendere di letto per mettersi alla finestra, che dava sulla piazza, guardando la massa bruna del teatro, più vasta in quella tenebra della notte. La fissava come in duello, al momento di abbassare la pistola contro l’avversario. Ma l’immensa massa del teatro dormiva tranquilla nel buio, mentre invece dell’onnipotente indifferenza del giudice, che condanna, egli provava l’incertezza febbrile dell’assassino, che si stanca nell’agguato.
— Sarei anch’io un attore, che quel teatro esalterebbe come tutti gli altri? si disse d’un tratto con quella fredda ironia, che talvolta lo rendeva così terribile.
Si erano finalmente acquartierati.
Olga era stata ricevuta come la dama di compagnia della signora, che non tarderebbe molto ad arrivare. La moglie e la figlia del portinaio, due figure insignificanti, avevano accettato con entusiasmo l’offerta di entrare al loro servizio con uno stipendio provvisorio di dieci rubli al mese, finchè la signora giungesse colle proprie cameriere: ma Olga aveva lasciato intendere che la signora, malaticcia e soggetta ad improvvise e violenti simpatie, era a discrezione della prima persona, che le piacesse. La figlia del portinaio, ragazza di diciott’anni, Matrona Carpowna, non doveva venire che a rassettare l’appartamento e a pettinare Olga; quanto al pranzo, lo avrebbe fornito il trattore più vicino. Olga, di abitudini molto semplici, non aveva quasi d’uopo di cameriera. Per amicarsi la ragazza, dietro consiglio di Loris, cominciò dal farsi accompagnare in un magazzeno da sarta, e le regalò un vestito.
Lemm aveva preso un vecchio soldato, rimasto senza nè mestiere, nè padrone per la triste abitudine dell’ubbriachezza. Lo aveva trovato una mattina passeggiando nel Giardino del Romitaggio: il soldato gli aveva chiesto un mozzicone di sigaro, facendo il saluto militare; l’altro finì col condurselo a casa. Il vecchio, che avendo servito nella cavalleria adorava i cavalli, quando seppe dal padrone il proposito di comprare una pariglia di trottatori, stentò a contenersi: in quella prima effervescenza promise di non ubbriacarsi quasi più.
— Ecco, batuscha, non si può smettere, ma quando si ha un cavallo, non si ha più bisogno di andare alla bettola per cacciare i cattivi pensieri: si resta nella stalla a parlare con lui. I cavalli sono molto intelligenti.
— Bene, bene, Alessio Alexeieff: quando vorrai ubbriacarti, me lo domanderai, disse Lemm sorridendo. Se non avrò bisogno di te per molte ore, te lo permetterò.
Il vecchio s’accarezzò colla grossa mano sudicia la barba incolta, guardando il padrone con simpatia mista di diffidenza.
Questi comprese.
— Ti darò io stesso una bottiglia di vodka, quando potrò permetterli di ubbriacarti, ma ti chiuderò nella stalla. Sei contento?
— Ah! ah.
E per il momento non seppe esprimere meglio la propria approvazione.
L’aprire un passaggio fra i due appartamenti non fu difficile, giacchè il loro muro divisorio costruito in mattoni era solo di due teste: bastò con un pretesto farvi collocare dai servi un armadio in ambo i lati. Naturalmente Loris e Lemm scelsero l’armadio più largo: poi scostati gli armadi nella notte, con uno scalpello tagliarono diligentemente l’intonaco e scopersero il muro. Le prime pietre presentarono qualche difficoltà, dovendo essi servirsi di quelle sole armi per non destare rumore; ma levate le prime, tutte le altre rimasero come slegate: la calce stessa era di pessima qualità. Lemm e Loris lavoravano d’accordo; quando il buco fu così grande che poterono vedersi in faccia, ebbero un sorriso di gioia quasi infantile. Scalpellavano ritti sopra una sedia; Olga aveva steso un lenzuolo sul tappeto, perchè la polvere dei calcinacci non vi penetrasse destando sospetti nei domestici, e guardava i due lavoratori. Bastarono poche ore a compiere un taglio abbastanza largo che vi si potesse passare. Per nascondere i mattoni e i calcinacci, Lemm aveva trovato una magnifica idea; nella cucina del proprio appartamento v’era un pozzo, che non serviva ad altri. Lemm cavò la corda dalla carrucola per evitare anche il pericolo del suo cigolìo, e con un secchio, reggendolo a tutta forza di braccia, calarono lentamente rottami e spazzature nel pozzo. La maggior fatica fu nello scoppettare i tappeti per togliere ogni traccia: poi con una sottile sega da orefice, quasi sorda, tagliarono tre assi dal fondo degli armadi, e li ricollocarono di contro al vano. La breccia era aperta; bastava tener inchiavati gli armadi perchè nessuno la scoprisse.
L’indomani Lemm, dopo aver fatto un segno ad Olga dalla propria finestra, per assicurarsi che Matrona Carpowna non fosse nell’appartamento, v’entrò trionfalmente. Era ilare. Allora Loris gli espose il proprio disegno: il modo immaginato per far saltare il teatro era di una semplicità assurda a forza di essere temeraria. Entrambi lo ascoltavano immobili, senza fiatare; nessuna obbiezione era possibile: o ricusare, o entrarvi quasi colla sicurezza di non riuscirvi. Ma in questo caso n’andava di mezzo la vita.
— Non c’è che dire, rispose finalmente Lemm: tutto è calcolato, ma avremo quasi il cento per cento contro. E voi, Olga?
Ella mormorò tremando:
— Tutta quella povera gente....
— Chi? le si volse Loris con impeto: la corte, l’aristocrazia? Non sono dunque i nostri nemici?
Ma Lemm le venne in soccorso.
— Olga alludeva ai cantanti, a tutta la gente di teatro.
— Vorreste dare una battaglia senza morti accidentali? D’altronde i cantanti sono anch’essi una ragione della miseria popolare: i teatri imperiali costano quanto tutte le università. Tornerò fra due ore a prendere la vostra risposta, così potrete ripartire questa sera stessa, perchè bisogna avere tutte le prudenze, quando non si accettano tutte le temerità.
— Credete dunque che esiti per la paura?
— Esitereste per riguardi alla corte?
— Ma il vostro disegno è impossibile.
— Appunto per questo riuscirà: non si prendono precauzioni contro l’inverosimile. La vostra cooperazione vi sarà però molto minore di quella di Olga.
Essa cercò con uno sguardo sottomesso quello di Loris.
— Nemmeno voi credete alla sua possibilità?
Essa scosse il capo melanconicamente.
— Quindi davanti alla certezza del pericolo vi ritirate.
La voce di Loris tremava. Olga indovinò il dolore di quell’immensa vendetta, cui tutta la rivoluzione tendeva da cinquant’anni, e di una ambizione anche più immensa. Il suo cuore battè: Loris le parve sovrumano di passione.
— No, mormorò con un sorriso di rassegnazione, mostrandogli non solo di averlo compreso, ma di sorpassarlo coll’accettare tutta quella catastrofe forse inutile: sarà la morte di Sofia Perowskaia.
Lemm umiliato titubava ancora.
— È impossibile.... ripetè dibattendosi contro l’evidenza, che gli soffocava la ragione.
Loris gli voltò le spalle per uscire.
— Aspettate, per Dio! perchè volete andarvene per tornare? La risposta ve la do qui: Olga accetta, dunque accetto anch’io, ma saremo scoperti prima, e diventeremo ridicoli. Ecco quello che temo.
Loris si raddrizzò superbamente.
— Nessuno in Russia può sentirsi così forte da ridere di quest’impresa, anche se dovesse fallire, perchè nessuno avrebbe osato nemmeno di concepirla. Sofia Perowskaia, si volse ad Olga, ricusò di salvarsi per morire romanticamente sul patibolo con Jeliaboff, ma quando si è scoperti bisogna suicidarsi piuttosto che lasciarsi arrestare: così il nemico vince, ma non trionfa.
Il disegno di Loris era questo.
La neve caduta in quei primi d’ottobre non era stata che una anticipazione dell’inverno, dopo la quale l’autunno aveva come rifiorito con quella soavità russa, ilare ed insieme malinconica, di cui nessun altro clima potrebbe dare un’idea. Loris aveva subito pensato ad approfittarne, giacchè solo colla prima nuova neve il suo disegno era possibile. Dopo le infelici esperienze di tutte le mine nichiliste, Loris per far saltare il teatro aveva trovato un’altra idea di una semplicità quasi pazza. Bisognava prendere un palchetto alla prima rappresentazione dei due grandi concerti consecutivi, già annunziati per la settimana ventura; restarvi non visti una notte ed un giorno, sino alla seconda rappresentazione, uscendone poi senza essere osservati. Ventiquattr’ore sarebbero più che sufficienti a disporre la mina: questa doveva comporsi di trenta chilogrammi di melinite, divisi in trenta tubi metallici, nascosti ad ogni probabile investigazione sotto l’imbottitura di un divano: i tubi, non più grossi di tre centimetri, rimarrebbero celati dietro la fascetta del sedile. Pochi fili di ferro, tesi a piccolissimi ganci invitati nelle fascette, basterebbero a sostenerli. Nessun inserviente incaricato della pulizia dei palchi avrebbe mai l’idea, scoppettando un divano, di cacciarvi la testa sotto per cercarvi una mina nella intelaiatura. Ma per incendiare i trenta chilogrammi di melinite, bisognava trasmettervi la scintilla elettrica con un filo: qui cominciava la follia. Non v’era altro modo che forare con un trapano sottile il muro esterno del teatro nel vano di una finestra, ove lo spessore fosse minimo, presso una delle doccie discendenti dal cornicione; trapassare anche la doccia, congiungere il filo ai tubi, facendolo passare invisibile sotto il tappeto del palchetto e della corsia sino a quella finestra, e riempire la doccia dei centotrentacinque metri, tanta era la distanza, di filo necessario per giungere alla loro casa. Poi aspettare la notte della prima nevicata; ma se la neve cadesse di giorno alzandosi troppo dal suolo l’impresa andava a vuoto; con un colpo di martello acuminato, passando lungo il muro del teatro, ove la doccia scendeva semiscoperta sino a terra, bucarla; chinarsi rapidamente fingendo magari di scivolare, con un piccolo gancio estrarre il filo, e stenderlo sulla neve sino alla doccia della loro finestra. Un secondo filo scenderebbe da questa doccia forata dall’interno all’altezza del balcone; bisognerebbe bucarla ancora dietro terra, cavarne il filo e congiungerlo coll’altro. Questa era la parte più delicata e terribile dell’operazione. Il filo conduttore, sottile, malleabile e bianco come la neve, sarebbe presto ricoperto da questa così che nessuno lo scoprirebbe più nell’inverno giacchè a Mosca la neve non si spazza mai nelle strade, sulle quali forma un altissimo strato di grossa sabbia candida, presto insudiciata di ogni colore.
Ma le guardie vegliavano sempre nella piazza del teatro, anche di notte. Loris aveva già studiati i loro giri e scelta la doccia: calcolava di non poter avere più di dieci minuti per forarla e stendere il filo; tutto al più si potrebbe con qualche strattagemma attirare le guardie un po’ più lungi, e raddoppiare il tempo utile. Egli, Olga e Lemm, basterebbero ad introdurre nel teatro i trenta chilogrammi, i centotrentacinque metri di filo, e il trapano necessario a forare il muro. Olga si avvolgerebbe il filo intorno al corpo sotto le sottane, e nasconderebbe il trapano smontato nel manicotto: essi, uscendo e rientrando negli intermezzi, porterebbero sette o otto tubi per volta nelle tasche interne sotto le pelliccie. Quindi Lemm se ne andrebbe: al momento dell’uscita, quando si abbassano le fiammelle del gas, Loris ed Olga sarebbero già nascosti nel contropalco o in una latrina, dove meglio si potrebbe; e non uscirebbero dal teatro che alla rappresentazione seguente. Un mutamento nel programma teatrale sarebbe bastato a tenerli prigionieri chi sa quanto. Loris evitava di pensarci. In questo caso, se la neve cadesse di notte, Lemm doveva tentare di stendere da solo il filo.
Fra due giorni il principe avrebbe portato i trenta chilogrammi di melinite, fra cinque il teatro si aprirebbe per due concerti colla Sembrich e colla Nilson, i due soprani più celebri del mondo dopo Adelina Patti, e che incomincerebbero così la solita grande stagione teatrale. I concerti venivano dati a benefizio del grande Ospizio dei trovatelli, fondato da Caterina II nel 1762. Il primo era fissato per il prossimo mercoledì, dell’altro rimaneva ancora incerto il giorno.
— Dopo l’esperimento del dottor americano Tanner, Loris disse scherzando a Lemm, i digiunatori sono pullulati da per tutto; un digiuno di quindici giorni ci farà davvero capire quella fame, che uccide tanti nel popolo.
Olga e Lemm non discutevano più. Loris lo incaricò di comprare i centotrentacinque metri di filo in uno dei maggiori negozi di strumenti fisici, presso la barriera Pokrovskaia; poi si pentì. Lemm, offeso che gli si volesse così risparmiare un pericolo, insistè; ma Loris troncò ogni discussione dichiarando di fidarsi più di sè stesso; direbbe al negoziante di voler fare alcune esperienze sulla trasmissione della forza col filo elettrico secondo le ultime scoperte del grande elettricista italiano, Galileo Ferraris.
Infatti dopo due ore ritornò con un rotolo di filo bianco, fatto di tre capi attorti, difesi da un tegumento isolatore; il filo, abbastanza malleabile, era dello spessore di tre millimetri. Aveva comprato un trapano solidissimo di fattura inglese; ma vi mancavano le subbie, perchè quelle solite di fabbrica sarebbero state troppo corte. Ne aveva quindi commesse quattro, della lunghezza di quaranta centimetri, ad un armaiolo molto abile nelle tempre; tale informazione la doveva allo stesso negoziante, dal quale aveva comprato il trapano.
Durante i preparativi Olga e Lemm, ridotti a subalterni senza importanza, rimanevano inerti: la loro reciproca antipatia pareva cessata, senza che le loro maniere ne fossero diventate più amabili. Lemm, villano per natura e per educazione, disprezzava le donne; Olga, in quel primo ritorno alla propria vera natura, si sentiva sempre più impacciata da nuovi pudori fra quei due uomini, che sembravano non accorgersi del suo sesso. Loris le badava appena; Lemm, permettendo quasi sempre al proprio soldato d’ubbriacarsi alla bettola, passava la maggior parte del tempo con lei, quasi senza parlare, finchè Matrona non lo costringesse a scappare per l’armadio. Il suo umore sembrava peggiorare tutti i giorni: era scontento di sè, di Olga, di tutti; ammirava meno Loris, dacchè questi non gli appariva più nella calma della prima superiorità, si affaticava quindi contro di lui in sofisticherie sulla tecnica di quella mina. Qualche cosa la farebbe senza dubbio scoprire prima: allora bisognerebbe suicidarsi.
L’indomani stesso Loris ricevette una lettera del principe, che gli annunziava il proprio arrivo per la sera seguente. Il principe giunse sull’imbrunire alla barriera Miouskaia, in una droiska elegante, tirata da tre eccellenti trottatori: guidava un grosso cocchiere in livrea da campagna. Il principe, vestito da caccia, aveva due fucili chiusi negli astucci, un cane seter ai piedi, nerofuocato, e una piccola valigia di cuoio, robustissima, accanto sul cuscino. Il cocchiere gridò il nome del padrone alla guardia daziaria, che salutò rispettosamente: un sergente di polizia si avanzò nullameno, ma il principe, mostrando le armi e la valigia, gli disse semplicemente:
— Cartuccie da caccia.
Il sergente salutò come la guardia: il principe gettò loro un biglietto da cinque rubli.
Ma, scorgendo Loris poco dopo entro un fiacchero, ordinò al proprio cocchiere di fermare, e scese rapidamente. Loris lo imitò.
— Sapevate dunque che sarei arrivato stasera, gli disse il principe ad alta voce stringendogli affettuosamente la mano: vi ho portato tutto, la doppietta Hamerless e le grosse cartuccie metalliche, che mi avete ordinato.
Qualcuno si era arrestato a contemplare la scena; il principe, osservando colla coda dell’occhio lo stesso sergente, seguitò il discorso a più alta voce, poi ordinò al cocchiere di scendere all’Hôtel de Europe, e salì nel fiacre di Loris. Si erano messi la doppietta in mezzo, Loris teneva la valigia fra e gambe. Oramai annottava; il principe scese, dicendo a Loris, che fra un’ora lo avrebbe raggiunto a casa. Tutti ve lo aspettavano.
Il principe parve di una freddezza glaciale: quando Loris gli ebbe esposto tutto il proprio disegno nei più minuti particolari, rispose lentamente:
— Questo attentato è così improbabile che non può temere nulla se non dal caso.
— Lo aiuteremo, ribattè Loris.
Allora il principe mostrò loro i falsi passaporti, che si era procurato, comprandoli secondo il solito dalla polizia, perchè potessero servirsene nella necessità di una fuga. Loris li dichiarò inutili.
— Comunque riesca la cosa, entreremo subito in campagna: un regicida non può fuggire.
— Voi, disse il principe a Lemm, perchè non avete mutato nome? Forse per non destare sospetti anticipati, essendo troppo conosciuto a Mosca, ma questa ragione, eccellente ora, dopo sarà pessima. Voi sarete l’autore dell’attentato.
— Lo muterò dopo, se ne avrò il tempo.
— E voi, principe, domandò Loris, verrete a Mosca?
— Io stesso uscirò dal teatro per venirvi ad avvisare del momento più opportuno, a meno che, aggiunse con accento strano, non preferiate dar fuoco alla mina quando io pure sarò dentro.
Loris sorrise.
— Restate a cena qui; siamo invitati da Lemm; vi mostreremo il passaggio fra i due appartamenti.
Il principe accettò, ma siccome Olga non aveva ancora aperto bocca, le si volse:
— Voi siete medichessa.
Olga, che sentì l’ironia quasi impercettibile di questa osservazione, rispose piccata:
— Sofia Perowskaia era invece principessa.
Loris guardò Olga con simpatia, ma il principe, forse pentito di aver ceduto alla propria antipatia per tale categoria di donne nichiliste, parò tosto con un complimento:
— Se Sofia Perowskaia non fosse stata che principessa, non avrebbe ispirato a donne come voi la rivalità dell’eroismo.
Quando passarono nell’appartamento di Lemm, il principe non mostrò alcuna meraviglia della breccia mascherata dall’armadio; osservò solo che il prolungamento della distanza dal teatro, per evitare che la casa crollasse loro addosso, non gli pareva sufficiente. Era impossibile poter calcolare i contraccolpi dello scoppio: molti palazzi vicini screpolerebbero; qualcuno, malandato o mal costrutto, potrebbe addirittura inabissare. E guardò Loris.
— Voi concepite la guerra così: badate a non perirvi nella prima battaglia. È questa la stanza?
— No.
Lo condussero in fondo all’appartamento, in un gabinetto, che dava sul cortile della scuderia. Lì avrebbero collocato la pila, essendo la camera più lontana dal teatro. Vi rimasero tutti e tre in silenzio: Olga teneva una candela in mano. Lo stanzino doveva aver servito alla toeletta di una signora, perchè vi restava ancora un vago odore di muschio: nella volta erano dipinti degli amorini.
Improvvisamente si sentirono lontanissimi l’uno dall’altro in quel gabinetto, dal quale per opera loro sarebbe partita la morte di migliaia di persone. Olga guardava un fiore del tappeto, Lemm imbarazzato dalla propria qualità di padrone di casa, ospitando un principe, si era perduto nel sentimento di una solitudine sconfinata ed assurda; Loris e il principe tacevano. Una sensazione insopportabile di risveglio dal sogno tragico, nel quale vivevano da due settimane, li opprimeva. Perchè quell’attentato contro tanta gente? Perchè uccidere in una sola volta due o tre mila inconsapevoli? La vita reale non era così; era piccola, composta d’inezie, cominciava e finiva inavvertitamente. Essi pretendevano invece dominarne tutto il complesso vendicando ingiustizie di mille anni, quando coloro, che le avevano sofferte, erano già morti. Chi erano essi per arrogarsi tale diritto? In quell’appartamento abitava, poco prima, una famiglia felice, ignara di tutto il resto come l’altra gente. Perchè in quel gabinetto, destinato ai misteri eleganti di una signora, volevano mettere una pila per rovesciare un teatro sul capo degli spettatori inconsci? Lemm non lo comprendeva più: si ricordava confusamente, come di un particolare grottesco, che in quell’appartamento egli doveva essere, per quanti lo conoscevano, un dentista.
L’impressione ne fu tale, che si mosse; gli altri lo seguirono. Nella camera da pranzo sulla tavola v’erano molte bottiglie, il samovar, dei biscotti e un periok: Lemm lo aveva fatto comperare da un pasticciere. Non avevano altra cena. L’imbarazzo lo sorprese: tirò un cassetto della credenziera cercando i tovaglioli e le posate; non avrebbe voluto sfigurare in faccia al principe, del quale le maniere aristocratiche gli imponevano.
Anche questa volta Loris lo soccorse, spiegando al principe il perchè di quella cena; bisognava fingere di non mangiare in casa per allontanare i domestici.
La cena diventava sempre più triste. Il principe tentò con un ultimo sforzo di ritornare sui particolari dell’attentato: i nichilisti stessi ne sarebbero meravigliati.
— Ci rinnegheranno, osservò Lemm.
— Il nostro colpo sulla corte e sull’aristocrazia apre la guerra civile, proseguì Loris: se non oseranno accettarla subito per non sembrare assassini, dovranno subirla poi per non diventare nemici della rivoluzione. Avete letto stamane l’articolo di Katkof nella Gazzetta di Mosca?
— No.
— Katkof dichiara che gli Ouriadniki o i Kouriadniki, i mangiatori di galline, come i contadini hanno battezzato questa nuova gendarmeria, peggiorano le condizioni della sicurezza pubblica nelle campagne; i signori presi fra due fuochi, fra i banditi e i gendarmi, non vi possono più abitare. Vedete che le mie previsioni cominciano ad avverarsi; l’esodo della nobiltà dalle campagne aumenta tutti i giorni: una recrudescenza lo compirà. Bisogna impedire a Katkof di ottenere l’abolizione di questa gendarmeria campestre, che per rapacità di saccheggio si associerà ai contadini nella lotta contro i signori. Katkof sente già il pericolo, egli è l’unico uomo politico dell’impero.
— Lo stimate tanto? domandò il principe.
— Katkof ha improvvisato in Russia l’autorità del giornale, cui nessuno avrebbe nemmeno saputo pensare. Colla Gazzetta di Mosca domina l’impero; ha impedito con Pobédonostesf ad Alessandro III di concedere la costituzione ideata da Alessandro II, comanda ai ministeri, destituisce i ministri. Di tutti gli slavofili egli è il solo che sappia nettamente cosa vuole, e che cosa non sappiano volere gli avversari.
Ma Olga, che quella lotta fra Loris e il principe non interessava abbastanza, consultò l’orologio; Matrona non doveva tardar molto a salire per chiedere gli ordini dell’indomani. Se avesse suonato indarno all’uscio potrebbe concepire sospetti. Loris lo comunicò al principe; era tempo d’andarsene.
I saluti si scambiarono nell’appartamento di Loris.
Allora un’emozione s’impadronì nuovamente di loro; forse non si vedrebbero più, giacchè il più piccolo incidente poteva determinare la sorpresa dei tre cospiratori decisi a morire piuttosto che arrendersi. Il principe si sentì ancora più vecchio fra quel gruppo giovanile già sacro alla morte. La sua passione rivoluzionaria, accesa da un odio di marito ingannato, diventava volgare davanti al fanatico sacrifizio di loro, che s’immolavano all’avvenire del popolo.
— Addio, principe, disse Loris tendendogli la mano, sebbene si disponesse ad accompagnarlo.
— Perchè mi salutate? Non ci rivedremo quella sera?
— Forse!
Ma la sua voce squillò alteramente. Il principe strinse la mano ad Olga.
— Signorina, le disse colla inimitabile cortesia dei vecchi gentiluomini, indicandole Loris e Lemm: voi sola potete avere il supremo coraggio di non commettere imprudenze.
Olga commossa lo ringraziò con un sorriso; Lemm aspettava presso la porta per aprire, e si sentì rimescolare dal saluto affettuoso del principe. Appena usciti gli altri, il passo di Matrona su per le scale lo costrinse a nascondersi in fondo all’appartamento.
Matrona raccontò sorridendo ad Olga di avere incontrato l’ingegnere, tale credeva fosse Loris, con quell’altro signore, che le era parso oltremodo brutto. La ragazza, alta e grossa come un facchino, parlava ad Olga con tenerezza di bimba, perchè quei pochi giorni erano bastati ad innamorarla della medichessa. Avrebbe voluto passare con lei tutto il giorno se la mamma, costretta a surrogare spesso il marito nel suo ufficio di sentinella, avesse potuto concederlo. Olga invece la riteneva il meno possibile nell’appartamento. Quella sera Matrona era anche più espansiva, ma l’altra la licenziò quasi bruscamente. La ragazza se ne andò triste.
Olga era tornata nella propria camera, credendo Lemm già uscito; invece le comparve improvvisamente davanti.
— Che volete?
Il piccolo ebreo la guardava stranamente, quindi mettendosi a sedere con una famigliarità, che non piacque alla fanciulla, rispose:
— Che cosa debbo volere? Venivo a fare conversazione.
La sua faccia parve rabbonirsi, mentre i suoi occhi seguitavano ad esaminare Olga più intensamente. Anch’ella era triste.
— Pensate al nostro pericolo?
L’altra scosse la testa.
— Sono persuaso che saremo scoperti prima, così Loris ci avrà uccisi inutilmente; e seguitò esponendole con acutezza tutte le impossibilità pratiche di quel disegno da romanzo. Olga ascoltava distrattamente.
Nella camera abbastanza grande le cortine bianche del letto disegnavano un’altra tenda, sotto la quale l’ombra sembrava salire come un vapore da una coperta di seta azzurro-cupa, mentre l’armadio dorato ed istoriato delle sacre iconi si ergeva dappresso, nell’angolo, come un altare.
Due lampade di vetro cilestro vi pendevano innanzi immobili e spente. Nessuna eleganza femminile attenuava la severità fredda di quella camera. Olga vestiva ancora l’abito, col quale era giunta da Pietroburgo; solo due pianelline di bulgaro bronzato, che le lasciavano scoperto tutto il collo del piede, sembravano il principio di un’altra toeletta più comoda ed intima. Ma Olga non aveva mai posseduto abiti da casa o da notte. La sua graziosa testa bionda, abbandonata sulla spalliera della poltrona, aveva in quel momento una delicata espressione di sofferenza.
Lemm le si avvicinò: un tremito gli agitava il corpo piccolo e sgraziato.
— Vengo da voi questa notte? le disse con voce strozzata.
Ella balzò in piedi; si guardarono! Olga era livida, il suo viso sfolgorava.
— Che c’è? chiese Lemm meravigliato a quella trasfigurazione; ma il viso di Olga si scompose nuovamente in una fisonomia così dolorosa, che Lemm ne fu commosso senza poterla comprendere. Che cosa vi ho detto mai? So che non vi sono simpatico, ma non credo di avervi offesa chiedendovi ciò, che tutti i nostri amici vi hanno chiesto tante altre volte.
Gli occhi di Olga si appannarono di lagrime.
— Ma che cosa avete?
Il pianto di Olga l’imbarazzava: si sentiva ridicolo davanti a quel dolore, che capiva di averle dato, e del quale gli sfuggiva la ragione. Conoscendo Olga da due anni, aveva osato quella brutale galanteria senza troppo sperarvi, perchè si era già accorto del suo nuovo capriccio per Loris, ma non aspettandosi mai a tale scena. L’amore libero poteva permettersi tutto, e Olga diventava stupida mostrandosi offesa.
Egli tornò villano.
— Mi direte almeno il perchè?
— Chi vi ha dato il diritto di trattarmi così?
— Allora siete come le borghesi, che si sentono mancar di rispetto, se un uomo propone loro ciò che la natura esige dai sessi. Mi pare che, invece di piangere, potevate dirmi francamente che vi sono antipatico. Ecco la legge dell’amore: non vi piaccio, non parliamone più.
Ma Olga non si rasserenava.
— Per Dio! gridò finalmente l’altro: non vi ho già battuta, e uscì tirandosi dietro l’uscio.
Olga si rimise a piangere con grande dolcezza: le pareva di ritrovare in quel dolore tutte le delicatezze e le pudicizie di un primo amore. Si svestì, si coricò, avvolgendosi in questa nuova melanconia, come in un’altra coltre più fina, e cercando di addormentarvisi; ma quando intese Loris rinchiudersi nella propria camera, scese dal letto e corse alla sua porta, stringendosi entro la camicia nell’ombra. Vi stette qualche minuto in orecchi; poi la baciò, e tornò a letto.
L’indomani, dopo mezzogiorno, Loris tornò colle subbie, era serio. Mandò Olga a chiamare Lemm e si mise subito a provare una subbia nel trapano; aveva pure comprato i piccoli ganci a vite, una lanternina cieca, un cacciavite e una scatolina di mastice per dissimulare il foro del muro.
Lemm entrò accigliato.
— So quello che vuoi dirmi, ho visti i manifesti.
Olga si sentì stringere il cuore.
Il primo concerto colla Nilson sarebbe per l’indomani sera: Loris aveva già comprato un palchetto al secondo ordine. Non discussero.
Loris, mostrando a Lemm la lunga sottilissima subbia nel trapano, disse che bisognava provarla tosto forando il muro e la doccia del balcone: non dubitava della tempra dello strumento, ma temeva, deviando, di non incontrare la doccia sulla convessità della quale il più piccolo scarto avrebbe impedito il foro. Aperse quindi la finestra del balcone per riconfrontare, colla maggiore esattezza, le misure dall’interno e dall’esterno, e fissare il punto giusto; ma quando gli parve di averlo trovato, siccome bisognava forare all’altezza del pavimento, s’accorse che era impossibile manovrare il trapano. La rotazione della sua maniglia urtava nel pavimento.
Loris s’inasprì seco stesso; Lemm invece sembrava sorridere tacitamente come di un primo trionfo delle proprie critiche. Loris svitò la subbia, nascose il trapano nell’ampia tasca interna del pastrano, e se ne andò dicendo ad Olga:
— Siete libera d’uscire; non tornerò che a due ore di notte.
— Cominciamo male, mormorò Lemm con maligna intenzione, appena furono soli. Non ci voleva molto a capire, che un trapano così costrutto non poteva girare a fior di terra.
— Perchè dunque non l’avete osservato subito?
— Vi dispiace che io constati un suo errore? Spingereste molto oltre la devozione, che avete per lui!
— Non sono devota di alcuno, ribattè la fanciulla già diventata rossa: ma dal momento che non v’accorgeste subito di quel difetto, è inutile che ve ne vantiate adesso.
E voltandogli bruscamente le spalle, andò a chiudersi nella propria stanza; Lemm frenò a stento un’ingiuria.
Nella giornata non si videro. Olga la passò con Matrona, dalla quale si faceva insegnare un punto di merletto, parlandole sempre di lavori donneschi con siffatta ignoranza, che la ragazza ne strabiliava. Olga non sapeva nemmeno cucire in bianco. Lemm si lasciò condurre dal proprio soldato in una bettola presso il Giardino Zoologico, ove si ubbriacarono. Il vecchio soldato, che aveva la sbornia sentimentale, si commuoveva sino alle lagrime raccontando gli incidenti della sua lunga vita nell’esercito: aveva percorso due volte il portico verde, secondo la pittoresca espressione del popolo, passando sotto le verghe, prima che Alessandro II le abolisse.
Egli si cavava ancora il berretto, nominando lo Czar ucciso. Lemm si compiacque ad irritarlo scherzando su quello czaricidio.
— Voi siete dentista, batuska, esclamò il soldato agli estremi: mi avete pagato da bere, e vi dico la verità; quando si ha bevuto, la bugia guasta il vino. Ecco, io avrei strappato i denti ai nichilisti, che lo hanno ucciso, come facevo da ragazzo colle biscie. Ci si mette un pezzo di berretto in bocca, la biscia stringe e si tira: tutti i denti rimangono piantati nel berretto. Sì, batuska, bisognava farlo ai nichilisti, che hanno ucciso il nostro padre, Alessandro II.
— Lo faranno quest’altra volta a quelli, che ammazzeranno Alessandro III.
Il vecchio non s’accorse che a Lemm aveva tremato la voce.
Loris non tornò neppure a due ore di notte. Olga inquieta avrebbe voluto uscire per cercarlo, senza saper dove; ogni tanto le passavano nell’anima indefinibili terrori. Che fosse arrestato? Perchè no? Allora la polizia verrebbe in casa ad arrestare anche lei, troverebbe tutto, la melinite, il filo elettrico, la lanterna cieca.... tutto. Tutto sarebbe perduto. Ella ne provava uno scoramento senza misura, sentendovisi nullameno liberata come dal peso di un’immensa responsabilità: tutta quella povera gente non sarebbe più uccisa. Ma Loris!
Non voleva nemmeno pensarci. A quest’ora Lemm doveva essere rientrato: pensò di andargli a chiedere notizie di Loris; poi non l’osò. Quel piccolo ebreo le avrebbe fatto qualche cattivo scherzo, ora che le teneva il broncio. Ma questa paura le passò a poco a poco. Era impossibile che Loris fosse arrestato; aveva troppo ingegno, era troppo forte per smarrirsi in qualunque congiuntura. La sua fede in lui risfavillò d’amore. Loris ammanettato dai gendarmi.... Eh! via, se ne accorgerebbe prima, li eviterebbe, sfuggirebbe loro come sempre. Loris era un uomo superiore, fatale. La sua missione, maggiore di lui stesso, che gli impediva forse di amare come gli altri uomini, era la sua salvaguardia.
E la fanciulla si pentiva già d’aver dubitato un momento della sua potenza.
Dormiva profondamente da molte ore, quando un raggio di luce sugli occhi chiusi la fece destare di soprassalto; gettò un grido. Loris la guardava a capo del letto, tenendo un candeliere nella mano; il suo volto era raggiante.
— L’ho forata.
Allora ella comprese. Loris era rosso come non lo aveva mai veduto; alcune goccie di sudore gli scendevano lentamente sulla fronte, sotto la quale gli occhi verdi brillavano come due smeraldi. La fanciulla, che scotendosi dal sonno si era scoperta una spalla, abbassò gli occhi arrossendo, e si tirò il lenzuolo sul collo: pareva più bianca sul cuscino, cogli occhi gonfi, le labbra più tumide. Tutto l’orgasmo di Loris si sciolse. Ella lo guardava di sottecchi non osando pensare a nulla per non accrescere fra loro quella difficoltà misteriosa, ma nullameno sentendo che le coperte le disegnavano il contorno del seno, e ricordandosi, come di cosa già infinitamente lontana, che egli doveva avergliene veduta allora allora la sommità.
La fiamma della candela, che Loris teneva in mano, tremava vivamente.
— Buona notte, Olga.
Loris uscì a passo lento: ella cacciò subito il capo sotto le lenzuola, perchè non la udisse piangere.
L’indomani fu lunghissimo.
Lemm dopo una notte d’insonnia entrò nel loro appartamento di buon mattino, per vedere se Loris ed Olga fossero alzati. Era vuoto, con quell’aria di albergo senza nessun oggetto personale, che vi rivelasse una intimità. Le finestre socchiuse lasciavano filtrare una luce fredda e bianca. A poco a poco gli tornò la paura; sarebbe per quella notte! Tutte le disperate difficoltà di quell’impresa, nella quale la volontà di Loris l’aveva travolta, gli si alzavano dinanzi come fantasmi beffardi. Chi era Loris? Perchè gli aveva egli ceduto? Che cosa voleva Loris infine? Era tornato in Russia, ricco del danaro rubato al giuoco, coll’ambizione demente di dominare tutto, rivoluzione ed impero.
Adesso dormiva. Lemm, fermo dinanzi alla sua porta, si ripeteva incerto:
— Dorme?
Ma gli dispiaceva di crederlo: anche l’altra dormiva, o almeno stava a letto ripensando a lui, che era andato senza dubbio a visitarla nella notte.
La collera lo riprendeva sordamente, lentamente.
Loris invece dormiva davvero, mentre Olga era già alzata. Lemm, udendola girare per la camera, battè al suo uscio; Olga già vestita venne ad aprirgli.
— Sono le otto, disse Lemm, non sapendo trovare altro.
Olga lasciò sfuggire un’occhiata verso la camera di Loris.
— Non ho sentito nulla al suo uscio, proseguì l’altro; dormirà.
— Dite piano dunque.
— Uscirete oggi?
— Sentirò da lui: se voi uscite, tornate presto; vi potrebbero essere ordini.
— Ordini, ordini, mormorò l’altro con crescente malumore.
Olga rimase sola: non aveva più alcuna idea precisa. Loris le aveva detto che trattandosi di un concerto, potrebbe portare il cappellino e vestire quello stesso abito di casimiro, semplice e abbastanza di buon gusto, col quale era venuta da Pietroburgo: il giorno innanzi ella si era provato il rotolo del filo elettrico sotto le gonnelle, e aveva acconciato la guaina nella fodera del manicotto per nascondervi i pezzi smontati del trapano. Loris non uscì dalla propria camera che a mezzogiorno; aveva l’aspetto animato e gli occhi febbrili. Salutò Olga con maggiore amabilità del solito, e si mise subito, quasi puerilmente, a fare la rivista di tutti gli oggetti necessarî alla mina dentro al cassetto di un canterano. I tubi della melinite, non più lunghi e più grossi di un pacco da cento rubli in argento, gli trassero sulle labbra un sorriso indefinibile.
— Vedete, si volse ad Olga mostrandoglieli: la polvere ha pareggiato nel medio evo il villano al cavaliere; oggi la dinamite pareggia l’individuo alla massa.
Quel giorno andarono a pranzo nel villaggio di Kolomenskon, fuori della barriera di Serpoukof, a sette verste da Mosca; ma non riuscì loro di mangiare. Loris, contro la sua abitudine, bevve abbondantemente ripetendo parecchie volte ad Olga:
— Avete torto di non mangiare: è possibile che il secondo concerto sia rimandato di qualche giorno.
La sera, entrando nel teatro, rimasero vivamente impressionati della scarsezza del pubblico. Nè Olga nè Loris vi erano mai stati. L’immensa sala, bianco e oro, a cinque ordini, col parapetto sporgente dei palchi, così che le signore vi si vedevano intere, parve loro di una magnificenza solenne; v’era qualche cosa d’imperiale nel suo lusso e nella sua vastità, che nè il popolo nè la borghesia avrebbero mai potuto occupare. Il pubblico di quella sera, rado ed aristocratico, che vi girellava colla disinvoltura di una signorile abitudine, fece loro sentire anche più acutamente di esservi stranieri. Olga ne provò un’umiliazione, Loris un’offesa. Nelle serate di gala, quando tutte le loggie, i balconi, i palchi, la platea e il paradiso, rigurgitavano d’invitati scintillanti nelle uniformi gallonate fra la piena degli abiti femminili e lo scintillìo delle gemme e delle armi, lo spettacolo di quella sala doveva essere anche superiore a quello del palcoscenico, qualunque più fastosa opera vi si rappresentasse per quell’assemblea della nobiltà russa, raccolta intorno allo Czar più potente di tutti i re, e più uomo di tutti i pontefici.
Il grande palco imperiale era vuoto, coi candelabri spenti. Nel mezzo, la massiccia corona dorata della poltrona sembrava una piccola cupola; l’altro palco imperiale, di proscenio, Loris dal proprio non poteva vederlo. Olga non si era ancora affacciata al parapetto. Una calma di atonia si era fatta in lei, dopo quel primo sbigottimento, così che Loris dovette dirle di togliersi la pelliccia, e di avanzarsi per non aver l’aria di nascondersi. Allora Olga si sentì sul ventre la pressione del rotolo, che vi teneva nascosto, come se una stretta misteriosa stesse per soffocarla. Loris aveva cacciato nell’angolo più oscuro il manicotto, pieno dei pezzi smontati del trapano, e nell’ombra della portiera si vuotava le tasche: era riuscito a nascondervi dieci tubi di melinite. Lemm doveva arrivare tra poco, quando lo spettacolo sarebbe incominciato, con altri dieci; nell’intermezzo, tornando a casa in due, potrebbero portare il resto.
Loris si mostrava di una grande tranquillità, ma non parlava.
Il teatro si veniva lentamente riempiendo. Molte signore comparivano ai palchi in cappellino e abito da passeggio; parecchi uomini invece portavano la marsina e il piastrone bianco: giù nella orchestra i suonatori accordavano gli istrumenti. D’improvviso le fiammelle del gas raddoppiarono di splendore, e tutto il bianco e l’oro della sala scintillò, mentre le fisonomie e i colori della gente, uscendo come da una penombra, parvero incominciare lo spettacolo.
Lemm entrò; aveva anticipato.
Olga rimase impressionata del suo pallore.
— Se fossi un poliziotto, gli disse Loris, vi avrei già scoperto.
Lemm, che si riabbassava l’alto bavero della pelliccia, dietro al quale aveva cercato di nascondere la faccia, capì di meritare il rimprovero; ma tutto il suo coraggio non aveva potuto impedirgli di tremare passando per l’atrio del teatro. Nel palco si rinfrancò: erano in tre.
I venti tubi della melinite ammucchiati nell’angolo del divano, sul quale Olga sedeva, avrebbero potuto con qualche luccichio bianco attirare l’attenzione di un altro palco; quindi Loris, mettendosi al parapetto, ordinò a Lemm di passarli tutti sotto al divano. Anche il manicotto fu nascosto così. Appena compita questa operazione, rimasero più imbarazzati; non avevano altro da fare. L’orchestra suonava già la sinfonia del Guglielmo Tell, senza che ne avessero ancora afferrata una nota: quella condizione di spettatore, nella sua semplicità, diventava per essi assolutamente impossibile. Lemm rimase in fondo, presso la porta, invisibile nell’ombra: Loris si mise dirimpetto ad Olga volgendo le spalle al palcoscenico, in atto di ascoltare, ma perdendosi collo sguardo dentro al palco vuoto dell’imperatore. Olga cominciava a notare qua e là qualche signora.
— Avete riscontrato la finestra della doccia? chiese Lemm sottovoce.
Loris scosse la testa.
L’altro non osò proseguire. Come farebbero a trovarla nel buio? Questa difficoltà gli si ingigantì nel pensiero. E se non vi riuscissero? Se dopo tutto quel rischio l’attentato diventasse così impossibile? Quale ridicolaggine!
Ma la Nilson cantava la romanza di Elsa nel Lohengrin «Aurette a cui affido» e la sua voce pura come la musica di quelle parole, saliva da tutto il candore di quella sala, come un’altra luce bianca, in mezzo ad un silenzio così intenso, che nessun’altro della natura poteva somigliargli.
Lemm, poco sensibile alle impressioni artistiche, ascoltava; Olga aveva abbassato ancora più la testa, quasi quella confidenza d’amore, esalata nella notte verso le stelle da un cuore di vergine, la curvasse sotto i ricordi di altri amori, ai quali le stelle non avevano potuto sorridere.
Quando il pubblico sul finire della romanza proruppe in un grande applauso, Loris uscì dal palchetto. Olga e Lemm si guardarono istintivamente sotto la stretta di una medesima paura; dacchè erano entrati davvero in azione, tutto il loro coraggio stava in lui. Perchè Loris era uscito? Involontariamente, non sapendo indovinarlo, pensavano a qualche nuovo pericolo, che li sorprendesse, mentre egli non c’era.
La musica proseguiva passando ai loro orecchi come un indistinto rumore di acque o di fronde, in quella luce di meriggio, fra la sensazione di quel bianco, che evocava al loro pensiero un’altra bianchezza di neve; quando un’altra notte dovrebbero, con rischio anche maggiore, stendere per la piazza del teatro in mezzo ai passanti e sotto l’occhio vigile delle guardie il filo di comunicazione fino alla loro casa, e la neve seguiterebbe a cadere fitta e silenziosa. Il teatro bianco dormirebbe allora tranquillo nel buio sotto la neve, che s’indurirebbe sopra i suoi tetti, intorno alle sue mura, sino a quella sera di gala, che tutta la corte e l’aristocrazia moscovita v’entrerebbero fiammeggianti d’oro e di decorazioni. Essi, invisibili nel fondo del loro doppio appartamento, aspetterebbero il segnale del principe per gettare in aria quel teatro bianco nella notte illuminata da tutti i fanali della piazza, e farne una rovina inimmaginabile sopra quella folla di felici. Era un’immaginazione disordinata ed atroce, che dava loro le vertigini, costringendoli tratto tratto ad incantarsi in qualche particolare del teatro, colla fissazione al tempo stesso torbida ed intensa dei maniaci.
Olga notò al primo ordine una signora vestita di un abito giallo, bellissima. Vi sarebbe quella sera?
Olga lo pensava, quasi senza emozione, ammirando quella sua bellezza di donna destinata al piacere di uomini, che ignoravano ancora di quale odio potessero essere capaci gli addolorati da secoli. Nullameno essere così bella era una gloria incontendibile, che doveva bastare all’appagamento della coscienza. Se ella fosse stata così bella, Loris l’avrebbe già amata. Che importava tutto il resto? Che importa morire, quando si è avuto tutto dall’amore! Quella ammirazione le si fece così viva che dovette parlarne a Lemm; questi si allungò nell’ombra del proprio angolo per vedere la signora.
— Credete che farà molte difficoltà prima di concedersi? le rispose con una allusione ironica alla loro scena.
Allora parlarono. L’orchestra suonava un tempo della Sacontala di Goldmark. Lemm non osava affacciarsi al parapetto, anche perchè non doveva essere conosciuta la sua intimità con Loris ed Olga: questa vi si era appoggiata e guardava giù nella platea, quando Loris tornò.
— La finestra va benissimo: usciamo, disse a Lemm.
Si rimise la pelliccia.
— Mi seguirai a distanza.
La prima parte del concerto era finita: la platea applaudì vivamente, mentre la Nilson sfavillante nell’abito bianco, con un ramoscello di brillanti nei capelli, si presentava alla ribalta, e indietreggiava sorridendo fra gli applausi. Tutta la gente si torse sulle poltrone chiaccherando.
Olga si ritrasse nell’ombra quasi respinta da quella intimità di conversazione.
Ma invece di ripensare all’eccidio del teatro si ricordò molte circostanze della propria vita, un pericolo corso da bimba cadendo nella vasca di un giardino, una sfuriata di busse ricevute dalla mamma per aver rotto dispettosamente un abitino che non le piaceva, la prima penosa impressione all’università, l’angoscia suprema dopo la laurea, quando, rientrando in casa, la mamma le aveva rinfacciato le necessità della loro posizione sociale. Bisognava vivere della professione, cercarsi una clientela, subire la concorrenza schiacciante degli altri medici, la sfiducia del popolo, il disprezzo dei signori, l’ironia delle altre donne educate femminilmente, e che nella sicurezza del proprio istinto comprendevano come quello non fosse mestiere da donna, giacchè una donna vi perdeva colla grazia di ogni ignoranza pudica la seduzione irresistibile del proprio sesso. Valeva meglio fare la sarta: era una professione d’eleganza femminile. La donna non può essere infermiera che per amor di Dio o per amore dell’uomo, ma per amore del danaro mai. E Olga, in quel teatro pieno di signorine, si sentiva ridicola; il primo di quei signori, che andavano pei palchi visitando le dame, l’avrebbe imbarazzata malgrado tutta la sua scienza d’università.
Allora la rivolta tornava a bollire nel suo cuore. Tutta quella gente allevata nel piacere erano i nemici dei lavoratori, giacchè non faceva nessuna delle cose più necessarie alla vita; che importava dunque la loro presenza nel mondo? Loris, più bello e più elegante di loro, li odiava. Olga non aveva ancora visto in quella sala chi lo pareggiasse: ma Loris non amava. Il pallore della sua faccia era freddo come quel bianco marmoreo della sala, mentre la sua parola aveva la luce abbacinante di tutti quei lampadari dorati, che incendiavano l’aria. Olga cominciava ad aver caldo, il volto le si colorava.
Un’idea la fece trasalire. Se la polizia insospettita di lei, sola, così seminascosta nell’ombra del palchetto, fosse entrata per arrestarla, ora che Loris era fuori al sicuro? Loris salvo, ella sarebbe morta per lui, terribilmente bella nella gloria di quell’attentato non riuscito, e nel silenzio sui propri complici, su lui, che la vendicherebbe. Si mise in quest’idea, l’ingrandì, la sminuzzò nei più inverosimili particolari, palpitandovi come dentro una scena vera. Nel teatro grande il chiaccherìo della gente s’intendeva appena; il caldo aumentava.
Erano le nove; alle dieci e mezzo tutto sarebbe finito, ella sarebbe sola nel buio con lui.
Loris e Lemm rientrarono recando il resto. Ella tornò subito al parapetto, come per nasconderli col proprio corpo, mentre rapidamente celavano tutto nel medesimo angolo sotto il divano. Poi Loris la chiamò:
— Saluta Lemm.
Questi non si era tratta la pelliccia; tremava visibilmente. Olga indietreggiò sul divano: non potevano parlare, ma Olga, restando nel pericolo maggiore, si mostrò più coraggiosa.
— Arrivederci, disse semplicemente.
— Ricordatevi le mie istruzioni, ripetè Loris, e d’un gesto lo spinse fuori del palchetto.
Allora sedendosi vicino ad Olga le spiegò come intendeva deludere la sorveglianza dell’inserviente, che rimaneva nel corridoio a ritirare le chiavi dei palchetti. Sul finire del concerto, al momento della massima attenzione, si nasconderebbe nel contropalco, tirandosi contro l’uscio: l’inserviente trovando il palchetto vuoto dopo lo spettacolo lo chiuderebbe a chiave. Quando il teatro fosse deserto, lascierebbero il nascondiglio e riaprirebbero la serratura del palchetto: Loris le mostrò, nella tasca della pelliccia, un grimaldello e la lanterna cieca. Bastava spiare il momento più opportuno; Loris lasciava socchiusa la porta appositamente.
Allora per entrambi cominciò la grande attesa: i loro cuori battevano così forte che l’uno sentiva quello dell’altro. Olga si rimise la pelliccia, Loris non se l’era cavata; ascoltavano il concerto senza comprenderlo, per indovinare quanto durerebbe ancora, dimenticando di averne il programma su cartoncino azzurro. Tutto quel bianco, quasi vaporante nella luce del gas, si confondeva ai loro sguardi in una sensazione intensa di calore; mentre sulle fiammelle dei becchi l’aria si muoveva con un moto regolare di respirazione, e gli spettatori si mantenevano immobili in una attenzione d’incantesimo. Loris, colla mano sulla maniglia della porta, sbirciava nel corridoio.
— Tenetevi pronta.
Rapidamente aveva estratto dall’uscio del palchetto le due chiavi unite da un anello, e aveva aperto la porta del contropalco. Per fortuna nel lato interno di questa un gancio di ferro piantatovi per sostenere gli abiti, avrebbe permesso di tenerla chiusa durante l’uscita della gente. Loris tornò nel palco, rimettendo le chiavi a posto. Nessuno aveva visto. Scrutò ancora nel corridoio; il pezzo, un gran pieno d’orchestra, stava per finire.
— Siete pronta?
Tese l’orecchio, guardò;
— Via! le gridò sottovoce.
Olga si cacciò nel contropalco; egli la seguì.
Erano al buio; la loro prima sensazione fu di sollievo. Nello stanzino angusto, stendendo un braccio, si toccava il muro. Non si udiva più la musica che tratto tratto, come un susurro. Cominciarono ad attendere, ma i minuti non passavano più; quell’ombra sembrava loro così densa, che ne sentivano l’impressione sugli occhi, mentre per una invincibile illusione i loro piedi si abbassavano sempre come dentro un pozzo. Passò del tempo. I loro sensi sovreccitati acquistavano una finezza incredibile. Adesso udivano battere i loro due orologi così distintamente da temere per un istante, che si potesse intenderli anche nel corridoio. In quel lungo attendere non v’era più modo di pensare a qualche cosa, magari ad un espediente supremo, nel caso di essere scoperti; poi quello stare ritti, stecchiti, rattenendo il respiro, dava loro un’improvvisa dolorosa stanchezza.
Finalmente un rombo lontano li avvertì, che lo spettacolo finiva in un grande applauso, e simultaneamente nel corridoio ascoltarono un martellare di scrocchi, uno sbattere di porte, fra uno scalpiccìo, un fruscìo, e voci lievi, tutto un murmure di ruscello, che comincia a discendere. Qualche passo si affrettava già, l’onda degli spettatori si sospingeva, si arrestava nei gruppi agli usci dei palchetti, strisciando alle pareti, sul tappeto, colla sonorità di accenti fuggitivi, vaporando un sottile profumo dalle gonne raccolte, spumeggianti nelle mani. Qualcuno cantarellava fra i denti un brano di frase musicale; gli uomini passavano a torme rumorosamente; qualche fanciullo correva chiamando e ridendo con voce sottile, che passava le pareti; le signore battevano i piccoli tacchi fra il susurro delle sottane, delle quali talvolta l’amido mandava un suono di cartone.
S’intendevano già chiudere palchi e contropalchi a chiave.
La stessa idea colpì Loris ed Olga; se l’inserviente chiudesse il loro contropalco come gli altri? Il fiotto della gente decresceva, s’interrompeva; due uomini passarono discutendo ad alta voce, poi seguì un crocchio di signore, che urtarono gli abiti di seta alle porte, chiacchierando con un pigolìo di uccelli. La luce filtrante attraverso la fessura dell’uscio improvvisamente scemò; si spegnevano già alcuni becchi di gas. Dal fondo del corridoio s’avanzava l’inserviente a chiudere gli usci, ritirandone le chiavi, e facendole tintinnire in mazzo. Altri becchi si smorzavano; quel filo sottile di luce sotto la porta non era più che una fosforescenza. D’un tratto un passo pesante, alternato ritmicamente colla percossa di una canna, si avvicinò, sorpassò l’inserviente, che seguitava a inchiavare le porte dietro di esso colla medesima lentezza; quindi parve arrestarsi presso al loro contropalco.
Loris e Olga si strinsero uno contro l’altro.
Quell’uomo borbottava fermo nel corridoio dinanzi a loro; improvvisamente il colpo di una massa traballante rintronò nel loro uscio.
— Ahi lasciò sfuggirsi Olga in un grido di terrore. Loris, sentendosi la sua testa sulla propria spalla, le cinse il volto con un braccio e le schiacciò con una mano la bocca.
— Niente, niente, mormorò l’individuo, che era ubbriaco, e strisciando sulla schiena si raddrizzò.
Olga aveva la mano di Loris stretta violentemente sulle labbra; quella mano tremava. Adesso s’appressava l’inserviente; aveva chiuso a chiave l’altro contropalco presso il loro. Una vertigine passò agli occhi di Olga sbarrati nell’ombra. Era il momento supremo. Con uno sforzo mosse le labbra e diede un bacio sulle dita di Loris, che lo sentì.
Poi quella mano si distese.
L’inserviente era passato oltre, chiudendo solo il palchetto; erano salvi.
Loris mise un grande respiro, sotto la porta anche quella fosforescenza si era spenta. Tutto il teatro doveva essere caduto nell’ombra. Loris abbandonò il gancio, sul quale le sue dita si erano indolenzite, tirando, quasi per mezz’ora. Olga, che si aspettava un rimprovero per l’urlo gettato, rabbrividì invece sentendo Loris schiudere l’uscio sotto un impulso irresistibile di curiosità, ed uscire nel corridoio.
Cominciava il duello.
Aspettarono un’altra ora, seduti sul tappeto del corridoio per sottrarsi alla arrembatura dell’attendere ritti; intorno il buio era assoluto. Ogni tanto Loris, colto d’impazienza, girava il tubo della lanterna cieca, gettando nel corridoio un filo sottilissimo di luce, come un ragnatelo fosforescente. Quando si credettero finalmente sicuri, Loris tentò la serratura del palchetto; i primi stridori del grimaldello si ripercossero sotto la vôlta del loro cranio come colpi di mazza. Ma la serratura cedette quasi subito.
Erano nel palco. Affacciandosi tastoni al parapetto, perchè istintivamente Loris aveva rinchiusa la lanterna su quelle tenebre, che cominciavano già a raffreddarsi, ebbero l’impressione di un abisso aperto sotto i loro piedi. Ma una fretta febbrile non lasciò loro tempo a troppo lunghe emozioni. Anzitutto Loris voleva acconciare i tubi della melinite sotto l’intelaiatura del divano; si trasse quindi la pelliccia, dicendo ad Olga di fare altrettanto, e le distese entrambe aperte fra divano e divano così da formarne un tendone, che non lasciasse sfuggire alcun raggio di luce. La precauzione era inutile, se qualche servitore del teatro avesse pernottato nella sala, giacchè le pelliccie si scostavano tratto tratto lasciando filtrare il lume, e lo stridore del cacciavite, invitando i piccoli ganci nelle fascette del divano, traversava il silenzio di quel buio con una nota acuta di grillo. Olga, appoggiata al parapetto, teneva ferme colle braccia le pelliccie.
L’operazione durò due ore senza che nessuna difficoltà venisse a prolungarla; Loris sudava meno per la fatica che per l’emozione. Quando ebbe piantati tutti i ganci, chiese ad Olga il filo; questa, nel porgerglielo sotto alle pelliccie, rimase paurosamente impressionata della sua faccia. Loris rosso, grondante di sudore, colla lanterna, che gli riverberava sul volto, le parve terribilmente sinistro.
Egli tessè rapidamente sui ganci un reticolato, disponendovi i trenta tubi su tre file; l’operazione più delicata era di congiungere il filo alle capsule. Loris si contentò di attivare la comunicazione elettrica soltanto colla prima fila; questa, incendiandosi, avrebbe infallibilmente determinato lo scoppio delle altre due.
Tutta questa operazione si era compiuta quasi in silenzio.
Allora cominciò il secondo problema di condurre il filo dal piede interno del divano, sotto il tappeto del palco e del corridoio, sino alla finestra, presso la quale Loris aveva riconosciuto poco prima, aprendola e chiudendola rapidamente mentre la sala era deserta, il passaggio della doccia. Ma Loris era stanco. A poco a poco tornava loro la confidenza. L’oscurità aveva una calma profonda, nella quale sentivano di essere soli. Loris consultò l’orologio, era il tocco; bisognava affrettarsi. Olga gli fece osservare che sarebbe meglio forare prima la doccia e gettarvi dentro tutto il filo, poi col suo capo superiore passare lungo i muri, dove il tappeto era fissato a ramponcini quasi invisibili; nulla di più facile che insinuarvelo sotto. La sola difficoltà sarebbe di traversare il corridoio dirimpetto al palco. Ma siccome il filo metallico presentava una certa rigidezza, con molta pazienza vi si riuscirebbe, spingendolo dritto come dentro una guaina.
Loris ne convenne. Per andare in quella sala si sorpresero da capo a camminare in punta di piedi, tenendo la lanterna quasi interamente chiusa sotto le pelliccie. La finestra dava infatti sulla piazza, così che ogni lume al di dentro poteva diventarvi pericoloso. Quindi Loris preferì aprirne adagio i battenti, per ricevere il lume della notte abbastanza serena; nessuno noterebbe di laggiù quella finestra spalancata o, notandola, ne sospetterebbe.
La finestra, che dalla piazza pareva piccola, era invece assai grande. Loris vi rimase, coi gomiti appoggiati al largo davanzale, guardando; giù nella piazza qualche attardato passava ancora rasente i muri, e i fanali disegnavano larghe isole luminose dai bordi fluttuanti nell’ombra, che pareva muoversi anch’essa. Mosca dormiva tranquillamente. Quella sensazione di abisso, che aveva provato sporgendosi nella sala dal parapetto del palco, gli ritornava ora dalla notte profonda. Non una stella brillava nel cielo.
— Andiamo, andiamo, si rivolse nervosamente ad Olga, che attendeva immobile dietro di lui.
Lo sguancio profondo della finestra lasciava poco spessore fra l’interno del suo muro e la doccia, ma bisognava calcolare giustamente l’angolo, e tenere ben dritto il trapano per incontrarla. Quando Loris ebbe prese colla massima esattezza tutte le misure, sporgendosi nell’ombra della notte dalla finestra, Olga gli formò nuovamente sul capo una vôlta nera colle due pelliccie, tenendone con ambo le mani le falde incollate alle pareti. Era una positura insostenibile.
— Accavallatemi, le disse Loris, che si era già sdraiato sul tappeto.
Nullameno, Olga s’indolenzì egualmente presto le reni. Era la parte più difficile del lavoro; non incontrando la doccia col primo foro, bisognerebbe tentarne un secondo, ma allora l’intonacatura del muro interno ne conserverebbe indubbiamente qualche traccia. Olga si sentiva ridicola, tenendo così Loris sdraiato fra le proprie gambe; lo intendeva soffiare ogni tanto nel foro per cacciarne la polvere, mentre la manivella poco oliata metteva sottili stridori come di sega. Egli ansava faticosamente. Ogni qualvolta la mano inesperta lo tradiva, dandogli l’improvvisa spasmodica paura di una deviazione, tutto il suo corpo sussultava. Olga ne rimaneva tremante come se quello spasimo le si fosse comunicato, e le mani le si allentavano sul muro, lasciando scivolare le falde delle pelliccie. Ah! un filo di luce, che fosse passato per la finestra, bastava ad avvertire le guardie della piazza.
Eppure, malgrado questo terrore, dal corpo di Loris le veniva un’altra sensazione voluttuosa, un desiderio inebbriante di essere stesa con lui sotto le pelliccie, abbracciati in una stretta di amore.
Loris si arrestò, raddrizzandosi così bruscamente, che Olga ne traballò.
— Non ne posso più, disse soffiando.
Olga non lo vedeva.
Ma appena seduto volle ricominciare. Il lavoro procedeva lentamente. La respirazione di Loris diventava asmatica, le sue ginocchia scivolavano sul tappeto nello sforzo di premere col petto sulla testa del trapano. Se Loris non avesse incontrata la doccia, tutto era perduto. Allora Olga dimenticò tutto il proprio orrore di quell’attentato per non sentire che la disperazione di lui dopo tanti sforzi eroici. Le sue labbra mormoravano istintivamente una preghiera; poi se ne accorse e ne fu sconvolta. Quel ritorno alla fede di fanciulla, per pregare da Dio la protezione a una tale opera, era di una empietà così atroce, che vinse tutta l’incredulità della sua educazione nichilista. Loris proseguiva sempre; evidentemente l’orgasmo gli cresceva le forze.
Finalmente il taglio della subbia stridè sul rame della doccia; Loris diede un colpo, e s’intese la subbia arrestarvisi nell’altra parete. La doccia era forata, ma Loris sfinito, invece di alzarsi, chiuse il vetro della lanterna e, tirandosi addosso la pelliccia, vi si rotolò. Così sudato si era accorto improvvisamente del freddo, poichè i caloriferi erano spenti da un pezzo.
Passò del tempo. L’orologio d’una chiesa suonò le tre del mattino.
— Se i vostri amici di Pietroburgo potessero immaginare una simile nottata! esclamò d’un tratto Loris.
A questa allusione Olga arrossì nell’ombra.
— Vi è piaciuto il teatro?
Ma la conversazione non potè legarsi. Olga rispondeva a monosillabi, intirizzita dal freddo, sentendosi lontana da lui come prima di entrare in teatro, nella solitudine del loro appartamento. Loris tornò ad aprire la finestra.
— Non nevicherà per qualche giorno. Guardate, quando il cielo è di questo colore, la neve è ancora lontana. Ho imparato questo, nella mia vita di pellegrino, da uno Strannik.
Per vincere il freddo dei piedi, Loris si pose a passeggiare per la sala; la sua ombra spariva e ricompariva, passando dinanzi alla finestra. Non aveva più fretta; nullameno bisognava finire. Toccò ad Olga, come donna, mandare giù per la doccia il filo, senza che s’ingarbugliasse, e ritirarnelo per saggiare come scorresse, prima di stenderlo sotto i ramponcini del tappeto. Il filo sufficientemente elastico non presentava difficoltà, così che Loris si convinse di poterlo al momento opportuno allungare sotto la neve, abbastanza rapidamente, da non destare sospetti. Quindi Olga dovette sdraiarsi sul tappeto, mentre Loris le teneva sopra le pelliccie per nascondere il lume della lanterna alle altre finestre; la difficoltà di traversare il corridoio davanti al palco fu lievissima. Olga non ebbe che da addoppiare il filo, attorcigliandolo perchè stesse più stecchito, e una volta nel palco girare il muro e riattaccarlo al capo, che scendeva nell’angolo, dietro il piede del divano. Loris fece colle pinze la congiuntura.
Non restava più che spolverare il tappeto della sala, presso il buco, e tappare questo col mastice; era d’uopo attendere il giorno.
Ora potevano dormire. Loris si strinse nella pelliccia, sdraiandosi sopra un divano. Era ancora tutto madido di sudore. Rialzò il bavero, si raggomitolò per ritirare i piedi dentro la pelliccia e, dopo essersi rivoltato due o tre volte per cercare la positura più comoda:
— Dormiamo, disse ad Olga.
Ma egli stesso stentò ad addormentarsi. Una gioia gli agitava l’anima, in quella prima calma, dopo l’immane opera compita. Si sentiva sublime ed orribile. La sua ragione, anchilosatasi nel sistema rivoluzionario entro al quale viveva da tanti anni, non vedeva più in quell’eccidio che una combinazione di guerra. Egli, generale incognito, v’era bastato da solo. Annibale sulle Alpi cercando coll’occhio Roma lontana, Moltke rileggendo nel silenzio del proprio gabinetto il disegno della guerra contro il secondo impero napoleonico, dovevano aver provato la sua stessa emozione di quel momento; almeno egli lo pensava. Quindi un fluttuare d’immagini gli intorbidò la mente fra un rombo di scoppio, che lanciava per aria quel teatro, mentre tutta la città urlava di paura, e per la Russia, oltre la Russia, tutti i popoli sollevati dall’enorme notizia domandavano chi fosse stato! Lo Czar era morto, morta l’aristocrazia.... Egli solo, padrone del segreto, si avanzava laggiù dalla steppa, alla testa di una moltitudine di mugiks montati su magri cavalli, non parlando loro se non per uno di quegli ordini brevi, che mutano la fisonomia degli uomini e delle cose.
A poco a poco si addormentò.
Olga rincantucciata nell’angolo dell’altro divano si scaldava le dita al tubo della lanterna, sotto la pelliccia. Anch’ella sussultava tratto tratto, ripresa da tutte le paure del freddo e dell’ombra, entro il rimorso di quell’immenso delitto, cui nessuna pena umana poteva essere proporzionata. Il suo cuore di donna, troppo piccolo per capire quella passione di Loris, si perdeva nell’amore di lui come in un rifugio, mentre egli invece dormiva tranquillamente sdraiato sulla propria mina. Come tutti gli uomini destinati a mutare la faccia della storia, egli portava seco una fatalità; il suo pensiero simile alla steppa sotto il sole non aveva un’ombra; il suo cuore...., Dio solo sapeva dove glie lo aveva messo. Olga sentiva il proprio amore, preso in quella fatalità, divenirvi egualmente fatale. Era bastato che quell’uomo si presentasse per trascinarla seco al di là di ogni fortuna, al di sopra di ogni ragione.
La lanterna le scaldava sempre più vivamente le mani; ella girò il vetro.
Il raggio cadde sulla testa di Loris, accendendogli un’aureola sui capelli. Il suo volto, in quel pallore del sonno, ora che i terribili occhi verdi erano velati dalle lunghe palpebre, sembrava anche più puro. Ella s’inginocchiò, depose la lanterna sulla spalliera del divano, al di sopra del suo capo, e gli prese la mano penzolante dal cuscino. La mano era fredda, ancora sudicia di polvere.
Loris si destò ritraendola istintivamente, ma ella gliela strinse.
Egli la guardava stringendo le palpebre per schermirsi dal raggio troppo vivo della lanterna, mentre il suo pensiero stentava a riordinarsi. Olga si schiacciò più convulsamente il volto sulla sua mano, soffocandovi i singhiozzi.
Loris nel malumore di quel risveglio improvviso s’accorse d’aver freddo; sprigionò la mano per chiudersi nella pelliccia, così che Olga sbattè quasi col volto sul cuscino.
— Oh! ella mormorò con voce fioca.
Loris la sollevò per le mani, se la mise seduta dinanzi, e con accento, che essa non gli aveva ancora sentito:
— Perchè amare, le disse, noi che siamo votati alla morte? Noi dobbiamo soffrire troppo per conservare ancora l’egoismo di non voler soffrir soli. Non piangete, Olga.
— A me sola, ella proruppe con un singhiozzo, deve essere tutto negato?
— Che cosa hanno di più le altre donne, che debbono vendersi per nutrire i figli o i genitori? Le conosco queste improvvise debolezze dell’anima, che si stanca nella solitudine della propria impresa; ma tutti coloro, che amarono abbastanza l’umanità per voler correggere la sua vita, si isolarono immolandosi alla gloria di una redenzione, nella quale erano la prima vittima. Guardate la leggenda di Cristo. Oggi una critica superficiale crede di aver ritrovato i nomi di tutti i suoi fratelli, e non s’accorge che Cristo, vero solamente come mito, non poteva avere nè madre, nè amante, nè figli. Egli s’ingannò, credendo che l’amore basterebbe alla redenzione della umanità, senza essere costretto a trasformarsi in odio durante la rivoluzione. È tempo di riparare questo errore. Coloro, che vogliono la giustizia, non debbono amare.
Ella aveva cessato di piangere, presa nel freddo di quelle parole, nelle quali sentiva vacillare una malinconia inconsolabile. Loris parlava adagio. Il raggio della lucerna, più basso delle loro teste, le lasciava in una penombra, disegnando una larga fascia ardente sul nero delle pelliccie.
— Come tutte le donne, voi chiedete un bambino, egli riprese: ma avreste avuto il coraggio di seguirmi in quest’opera, se foste madre? Vi è già abbastanza gente, che allunga questa catena di dolori senza che coloro, i quali si votano a spezzarla, ne ripetano gli anelli.
— Voi dunque non amerete mai? ella esclamò.
— Se amare significa fermarsi con una donna per creare un bambino, il quale cresca nella miseria attuale, non amerò mai. I miei figli sono nelle isbe, dove i padri e le madri sono costretti a non amarli per non rimproverare a sè stessi di averli generati. No, no: un bambino solo, che sia vostro, e non lotterete più per tutti gli altri; vorrete salvare solamente lui, e ne farete un carnefice per non lasciarlo cadere vittima. Ecco l’amore dei padri; l’amore dell’umanità non è così.
Ma Olga volle rispondere; quell’altezza di nichilismo non era umana, era un delirio di libri.
— Nemmeno voi, proruppe, potete vivere così. Se non vi avessi amato, non vi avrei seguito. Tutti gli altri vi abbandonarono, non perchè non credessero alla vostra idea, neppure io ci credo.... e sono con voi, che non mi amate.
— Ne sareste pentita?
— Non capisco più nulla: esigete la morte di coloro, che fanno soffrire, e non volete lasciare agli infelici quel solo conforto, che nessuna miseria può togliere. L’umanità è troppo grande; non si può amarla che in qualcuno.
I singhiozzi le ritornarono.
— Perchè mi avete presa?
— Credevate che vi avrei presa per amante? Vi associai all’impresa, perchè voi stessa vi offriste e perchè, vedendovi sola nel mondo, vi supposi il coraggio di combatterlo. Se il pericolo, che corriamo, è superiore al vostro coraggio, non avete assolutamente torto di rinfacciarmelo; le battaglie si perdono quasi sempre per non aver saputo valutare esattamente le forze dei propri soldati.
A questa ingiuria tutto il suo essere di donna si ribellò. L’ingiustizia di Loris era così pazza che ella sentiva di potergli resistere, ma cercando una risposta non la trovò, e questa impossibilità le ridiede il sentimento di tutta la propria debolezza femminile dinanzi al suo rifiuto. Allora una feroce speranza di essere scoperti le balenò al pensiero come una vendetta: arrestati tutti e due, impiccati assieme!
Loris fece un movimento come aspettando la risposta; poi si distese sul divano, allungò la mano alla lanterna, la spense.
Olga ripiombò nelle tenebre, immobile, ascoltandosi battere il cuore. Le pareva di essere morta al mondo, e di cominciare la propria veglia al buio, nella tomba, come una vestale sepolta viva.
Loris si era riaddormentato.
Al mattino coperse col mastice il foro della finestra; la tinta non vi si combinava perfettamente, ma sarebbe stato impossibile sospettare della cosa senza prima conoscerla. Poi non ebbe da fare altro. Olga era rimasta sdraiata sul divano, colla faccia rivolta al muro, fingendo di dormire. Alla poca luce, filtrante dalle finestre socchiuse dei corridoi e del palcoscenico, si vedeva l’ombra sprofondarsi nei palchetti, allungandoli come tanti anditi di una inesplicabile raggiera. Loris fantasticò che mettessero capo a tutti i castelli della nobiltà russa, lungi per le immense provincie dell’impero. Nel vasto palco imperiale l’ombra faceva lago; la cupola dorata della grande poltrona vi balenava incertamente come un faro lontanissimo fra tenebre notturne.
Per ingannare il tempo girò tutto il teatro, discese nella platea, entrò nelle sale di ritrovo, salì sul palcoscenico, e si mise dinanzi al tendone calato, guardando nella platea colle braccia incrociate come un oratore, che sta per incominciare un discorso. Avrebbe voluto parlare. Le poltrone vuote si allineavano sotto di lui, coi bracci aperti, attendendo. Palchi e balconi indietreggiavano dai parapetti, sui quali il velluto rosso, a certi punti illuminati, appariva come una macchia di sangue. Una parola sola sarebbe bastata a sbigottire tutto quel silenzio.
Tornò a girellare.
Brani di opera ascoltati altrove gli tornavano così vivamente nella memoria, che si sorprese a canticchiare come un ragazzo. Poi gli venne il capriccio di entrare in qualcuno di quei palchi chiusi, quasi per cercarvi le traccie degli sconosciuti, che vi tornerebbero. Quante belle signore vi sarebbero quella sera? Esse non erano che un vizio di più nella prepotenza dei padroni, una decorazione intermittente fra le decorazioni del teatro. Era tempo, era tempo. L’orgoglio satanico di quell’attentato gli riavvampò nella mente. Che cosa erano al confronto gli eroismi di guerra vantati nei libri? Il coraggio dev’essere intellettuale per essere umano. Nessun uomo si batte meglio di una tigre finchè attacca l’altrui vita o difende la propria; ma uscire dall’umanità per deviarne con un concetto personale la storia, precipitando di un secolo la rivoluzione, ecco il vero coraggio.
Girava sempre.
Salì per tutte le scale dei cinque ordini, tornò alle sale spiando dalle finestre socchiuse nella piazza. Quanta gente! Il rumore delle carrozze gli arrivava lassù, fra quella sensazione di silenzio, come un murmure sotterraneo; poi tornò a guardare nel teatro, non potendo sottrarsi al fascino della sua ombra.
D’un tratto s’accorse di aver fame; gli cominciava un freddo allo stomaco, simile a quello della paura. Sicuro di non poter mangiare, si mise in traccia d’acqua, ma non ne trovò. Solo nella latrina colava in modo, che non si poteva raccogliere. Tornò nel palco. Olga, sempre sdraiata cogli occhi rivolti al muro, non si volse nemmeno udendolo entrare. Egli la chiamò.
— Avete fame? Ho girato tutto il teatro, impossibile bere.
Loris sedette sul divano. L’attesa ricominciò lunga, schiacciante. Nel teatro, appena visibile, le ore non passavano più; il grande orologio dorato, sulla cima del palcoscenico, si era arrestato; nessun moto rompeva la vacua immobilità dell’ambiente. Loris aveva finito per sdraiarsi sul divano come Olga, guardando nel vuoto. Si sarebbero detti due viaggiatori, sconosciuti l’uno all’altro, sopraffatti dalla noia stanca del viaggio, non mirando neppure fuori dello sportello il dileguare del paesaggio. Del resto, traversando la Russia, l’uniformità delle steppe è tale, che a distanza di un giorno il treno pare non abbia avanzato di una versta. E se il concerto fosse rimandato? Olga non ci pensava. Bastava che la Sembrich si ammalasse, perchè il teatro non si riaprisse più che per la serata dello Czar, fra oltre un mese. Loris, sforzandosi d’ingannare il tempo colle più bizzarre successioni di fantasia, si trovava sempre dinanzi a questa possibilità. Sarebbe stato il supplizio prima del delitto. I nuovi digiunatori di Parigi e di Milano avevano valicato sino i cinquanta giorni, bevendo quotidianamente qualche bicchiere d’acqua, e non avendo altra preoccupazione che la vanità dell’esperimento; essi invece dovrebbero morire di fame sul divano così incredibilmente minato, mentre il popolo vi scorgerebbe certamente un’espiazione. Perchè il caso, propizio sino allora, non potrebbe rivolgersi contro di loro, improvvisando una di quelle grandi tragedie, che passano poi dalla vita nell’arte?
La gente, entrando quella sera in teatro, li troverebbe morenti o morti, meglio morti! Loris aveva seco il pugnaletto.
Olga non parlava, egli s’irritò di quel mutismo. A che servono le donne? Di che vivono, non pensando mai che ad un maschio, anche nelle più tragiche catastrofi? Poi reagì contro sè stesso; si accusò di paura, si proibì di credere a quel pericolo. Ma in quell’ombra della sala il giorno non aveva ora, l’inazione diventava insopportabile. Si rimise ad aspettare qualche cosa, quasi qualcuno. Se il concerto aveva luogo, vi sarebbe forse una prova generale d’orchestra; allora si potrebbe persino tentare di uscire confusi coi suonatori. Gli inservienti non dovevano tardar molto ad entrare. Tese l’orecchio, gli sembrò d’intendere dei passi, una voce dietro il tendone. Nel palcoscenico, ad ogni sera di rappresentazione, vi sono mutamenti da predisporre. Si pentì di non essere passato dietro il tendone esaminando, perchè ora poteva essere imprudente ritentarlo. Consultò l’orologio; erano appena le dieci del mattino. Allora sentì che la giornata sarebbe di una lunghezza senza misura.
L’immobilità di Olga gli fece l’effetto di un rimprovero; ella non aveva dunque alcuna paura?
— Se non dessero il concerto questa sera? le chiese.
Olga volse il capo come aspettando da lui la risposta.
Loris tacque. Il cuore gli batteva, mentre per le vene gli serpeggiava un freddo sottile. Colla facilità delle spiegazioni materialiste, volle dirsi che ciò dipendeva solo dallo stomaco, e che una buona colazione l’avrebbe fatto ritornare tranquillo, ma non lo credette. Nessuna potenza di carattere avrebbe potuto mantenersi impassibile in quella situazione; la paura, questa irresistibile coscienza della propria debolezza, lo curvò dinanzi al mistero del pericolo.
Per sottrarsi a tale oppressione riaccese la lanterna, e riesaminò minutamente tutte le disposizioni della mina nella intelaiatura del divano. Era perfetta. Uscì dal palco, seguì passo passo, lungo il muro, il filo nascosto sotto il tappeto, sino alla finestra. Il mastice staccava di tono colla tinta del muro; bagnò la punta del fazzoletto colla saliva e, strofinando, diluì quella stonatura in una macchia più larga.
Ma il freddo lo sorprendeva; l’aria intorno era gelida. Tornò nel palco per dormire. Infatti, stringendo fortemente le palpebre, riuscì ad intorpidirsi, ma il pensiero gli oscillava come un’altra ombra, assumendo forme e proporzioni mostruose. La vicinanza di Olga, muta ed immobile, che forse lo disprezzava, gli dava un malessere intollerabile. In due bisognava almeno parlare; ma l’orgoglio lo ratteneva. Dovette cedere.
Sulle prime non trovava l’argomento; Olga economizzava le parole, e la sua voce aveva un suono tardo, di eco.
Quindi un rumore sul palcoscenico li distrasse, udirono parlare. Istintivamente si stesero sul divano, più basso del parapetto, perchè l’ombra li nascondesse perfettamente. Nel palcoscenico sorvenivano mutamenti. Distinsero fra uno strepito di mobili tintinnire i pendagli certamente di un candeliere, una scena abbassata con molto cigolìo di carrucole diè un tonfo sordo, battendo sull’assito. Le voci si alzarono dando ordini; poi alcuni di quegli uomini passarono dinanzi al telone, perchè i loro accenti si fecero così distinti che si compresero anche le parole.
Parlavano di una colazione.
Passò un’ora così; tutto ricadde nel silenzio
Si darebbe il concerto?
Loris tornava a dubitare. Per decidersi s’impose una prova, invocando che gli inservienti dei palchi venissero a spazzolarli. Sarebbe stato un grande pericolo, se colui incaricato della loro fila avesse avuto l’idea di guardare anche nel contropalco, dove avrebbero dovuto nascondersi, ma almeno sarebbero usciti dal dubbio. Questo esperimento gli parve una condizione fatta al destino, accettando un aumento di pericolo per sottrarsi all’irritazione della sua incertezza. Ma gli inservienti scopettavano sempre i palchi prima di ogni rappresentazione?
Intanto il teatro era sempre sommerso nella stessa ombra gelida.
A che ora si sarebbero accesi i caloriferi, se vi fosse spettacolo?
Quella sarebbe stata la vera prova; ma in quella stagione autunnale i caloriferi non sarebbero stati accesi che tardi. Allora si mise a giuocarellare con un bottone del divano, divertendosi a tagliarne il filo colle unghie; il filo teneva duro.
Tornò a girare nel corridoio, fermandosi sulla cima della scala e trovando in questa ritmica intensione di pericolo come un sollievo. Poi il bisogno di un rischio più vero lo vinse, e venne alla finestra per schiuderne i vetri, e spiare sulla piazza. Quando lo ebbe fatto, si sentì più calmo.
Il giorno scemava, anche fuori del teatro, in un crepuscolo piovigginoso. Loris tremò che non nevicasse nella notte, perchè Lemm da solo non sarebbe riuscito a stendere il filo. Allora si mise a scrutare il tempo; dirimpetto al teatro le case erano così alte, che intercettavano ogni orizzonte. Non poteva guardare che in su. Si era ingannato; quei toni plumbei del tramonto non annunziavano la neve. A poco a poco si fecero più trasparenti, e il cielo si purificò.
Dietro le sue spalle, nella sala, l’ombra si era addensata.
Se fra due ore i caloriferi non venivano accesi, il concerto era rimandato chi sa a quando.
Allora una serenità tragica gli si fece nella coscienza. Comunque fallisse il suo attentato, altri lo riprenderebbe, perchè dopo tanto sangue di scaramuccie era impossibile non scoppiasse la guerra. Egli perirebbe come un precursore, ma la sua anima col suo nome passerebbe nell’anima del popolo; e nei libri, nelle veglie, per le steppe e per le case, si parlerebbe di lui. Gli amici che non avevano osato seguirlo, rivelando il disegno della sua guerra lo innalzerebbero a condottiero ideale della rivoluzione. Adesso si persuadeva che un simile attentato non poteva riuscire.
Quando guardò l’orologio erano le sette; il concerto era rimandato.
Olga rantolava lievemente.
Cominciò la notte. Nell’aria, sempre più fredda, l’ombra e il silenzio diventavano così profondi, che il pensiero non poteva più interrogarli. D’altronde a che pro? Tutto s’acqueta nel silenzio e nell’ombra; la vita è appena un tremito della superficie, sotto la quale l’ombra e il silenzio custodiscono i segreti dell’infinito. Le generazioni, passate nella storia, adesso erano inutili come i viventi, che vi tramonterebbero; la felicità da lui voluta per le generazioni future sarebbe stata la suprema delle ingiustizie per le generazioni morte.
Il suo disegno si discioglieva nella tenebra come un fumo.
Olga gli dormiva vicino, forse precipitata anch’essa in un letargo fuori di sè medesima. Si ricordò le Tre Morti di Tolstoi, e sentì che la più grande era la più semplice, quella dell’albero; rientrare insensibilmente nella terra, dalla quale si è usciti. La gola gli bruciava. Aveva le labbra secche, la pelle arsiccia malgrado la rapidità improvvisa di piccoli sudori, che gliela bagnavano gelandola. Era la fame colle sue smanie nervose e l’esaltamento della fantasia.
La sua volontà si raddrizzò ancora; bisognava lottare, era assurdo credere a quel cattivo contrattempo. Il concerto si darebbe domani sera.
Quasi quasi destò Olga per riprendere la conversazione riaccettando ora quello, che gli aveva offerto con tanta passione; sarebbe stata una maniera, non peggiore di un’altra, per passare la notte. Ma in quella superba chiaroveggenza, che gli riduceva al minimo il pericolo del concerto rimandato, comprese che, accettando l’amore di Olga, ne rimarrebbe imbarazzato per l’avvenire.
— Che cosa pensano i condannati a morte l’ultima notte, nella solitudine buia della segreta? si chiedeva Loris. Sentono essi il tempo e lo spazio diversamente dagli altri uomini, avendone già dinanzi il limite fisso? La morte, come pena, non è che la pena del pensiero costretto a discendere nella morte. Loris si trovava dinanzi alla morte, senza che il silenzio di quell’ombra gli permettesse una distrazione.
La notte fu lunga. Non potendo dormire, Loris tornò alla finestra. La sua coscienza, attratta dalla vita notturna della città, vi si obliò lentamente. Per lunghe ore i suoi occhi seguirono i passi di tutti i viandanti; i suoi orecchi si tesero dietro il rumore sordo delle carrozze, che si allontanavano per tutte le vie; contò più volte le finestre illuminate, assistè con una specie di trepidazione al loro spegnersi, e, quando tutto fu nell’ombra, il suo pensiero vi oscillò inconsapevole. La stanchezza stessa lo cullava. Giù in fondo al cuore, sotto ombre anche più dense, gli passavano, come pellegrini curvi, melanconie di altri tempi; mentre il suo sguardo, fiso sui fiaccheri allineati poco lungi dal grande caffè del teatro, vedeva nei loro occhi di fiamma illuminarsi e sparire qualche paesaggio primaverile della sua giovinezza. Stando in piedi appoggiato al muro, malgrado il freddo che ne radiava, si assopì; nessuno passava più, solo le guardie ripetevano il proprio giro come lugubri fantasmi attraverso un sogno. Sull’ultimo fiacchero rimasto all’angolo della via, il cocchiere a cassetta aveva reclinato la testa nel sonno. Mosca dormiva enorme nelle tenebre, senza un respiro, in una tranquillità di pietra. Poi l’ombra, già più tenue in alto, si diradò ancora facendosi quasi trasparente dinanzi all’azzurro immutabile del cielo; sui tetti, giù per le gronde, per le facciate delle case, dai ciottoli delle strade, rimbalzarono labili chiarori. Quindi l’ombra si assottigliò ancora, si macchiò di pallori lontani, lacerata da improvvise vivezze, finchè il bianco vi si fuse, vi dilagò, la sommerse.
Loris incantato vi si abbandonava.
La vita era ricominciata. La popolazione operaia del mattino invadeva già le strade a passi frettolosi, fra uno strepito di carrette, un cozzare di voci, un urto, un’onda di gruppi, che sboccavano e dileguavano a tutti gli angoli. Loris più stanco si lasciava ballottare mentalmente da quella folla, già allegra della fatica che l’attendeva, e rinfrescata, dopo una notte forse immonda, dall’aria del mattino. Era come uno di quegli ubbriachi sorpresi dall’alba, vacillanti per le strade, e che non ricordano più nulla.
Se qualcuno l’avesse scoperto in quel momento, non avrebbe opposto resistenza.
I primi raggi del sole batterono sui tetti, scivolando per le cantonate in mezzo alle strade, ad accendervi come dei braceri multicolori. Mosca si levava dal sonno sotto il sole; tutto sorrideva, le sue cupole, i suoi giardini, le sue case, le sue strade formicolanti e sonore, il fumo de’ suoi camini tremolante ai soffi della brezza come un segnale, e dileguante nell’azzurro senza macchia.
Loris trovò Olga seduta nel palco, che lo aspettava.
— Il concerto non si darà più, ella disse.
— Forse!
— Allora? e nella sua voce rauca v’era come uno squillo di trionfo.
Loris indovinò la tragica gioia del suo amore, e rispose con fredda ironia:
— Aspetteremo che cominci la grande stagione invernale.
E si distese sul divano per dormire.
Olga lo covava con uno sguardo ardente. Dal momento che il concerto era stato rimandato, ella lo immaginava soppresso; voleva che fosse così, tutto era perduto. Fra un mese, o non avrebbero più avuto la forza di uscire o, tentandolo, la loro fisonomia scheletrale li avrebbe scoperti. Era la morte sicura, dopo un’agonia lunga quanto una luna di miele. Olga ne delirava di orgoglio, perchè Loris avrebbe dovuto amarla come l’unica donna capace di congiungere la propria passione alla sua idea. Associandosi all’impresa di Loris, ella aveva fatto anticipatamente getto della vita in quell’immenso attentato, del quale sentiva la logica pur ricusandosi alla sua atrocità; quindi ora s’abbandonava con gioia ad una morte innocente, che le farebbe finalmente trovare l’amore.
Era sicura di vincere.
Lasciò Loris sforzarsi invano a dormire, sorvegliandolo con una tenerezza di madre. Era suo, quel divano minato sarebbe il loro letto di nozze.
Tutto il mattino passò così; non si parlavano, ma non uno dei loro moti poteva loro reciprocamente sfuggire. S’intendevano silenziosamente, stringendosi in una lotta, nella quale Olga invocava la morte come un trionfo, e Loris resisteva sempre più debolmente. Nel teatro, sommerso dal medesimo crepuscolo, i loro occhi si abituavano a discernere molti particolari; non sentivano più così vivamente il freddo, la fame stessa diminuiva gli spasimi delle contrazioni allo stomaco. Solo un bruciore di sete, insistente, crescente, toglieva loro d’obliare la catastrofe.
Nè l’uno nè l’altra potevano parlare; quegli che lo facesse prima si sarebbe arreso all’altro.
E in quella sorveglianza appassionata, nella quale il tempo passava rapidamente, Olga si sentiva crescere di amore e di potenza. Le sue fibre di donna palpitavano, il sangue le correva più caldo al cuore, il rossore delle ore più sensuali della sua giovinezza cogli studenti tornava a colorarle le gote. Le pareva già di essere sotto una coltrice, stirandosi voluttuosamente.
Loris scese precipitosamente dal divano, uscì dal palco.
— Tornerai... ella mormorò nel pensiero pigliando quella subita fuga per un’ultima resistenza.
Dopo cinque minuti Loris rientrò:
— Hanno già acceso i caloriferi.
Olga non potè rispondere.
La sera, sulle otto e mezzo quasi, uscirono inavvertiti fra la folla, che entrava. Lemm li aspettava dinanzi alla porta del teatro.
— Ebbene? domandò slanciandosi imprudentemente verso di loro.
Loris respirò fortemente:
— Ho fame.