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sotto ombre anche più dense, gli passavano, come pellegrini curvi, melanconie di altri tempi; mentre il suo sguardo, fiso sui fiaccheri allineati poco lungi dal grande caffè del teatro, vedeva nei loro occhi di fiamma illuminarsi e sparire qualche paesaggio primaverile della sua giovinezza. Stando in piedi appoggiato al muro, malgrado il freddo che ne radiava, si assopì; nessuno passava più, solo le guardie ripetevano il proprio giro come lugubri fantasmi attraverso un sogno. Sull’ultimo fiacchero rimasto all’angolo della via, il cocchiere a cassetta aveva reclinato la testa nel sonno. Mosca dormiva enorme nelle tenebre, senza un respiro, in una tranquillità di pietra. Poi l’ombra, già più tenue in alto, si diradò ancora facendosi quasi trasparente dinanzi all’azzurro immutabile del cielo; sui tetti, giù per le gronde, per le facciate delle case, dai ciottoli delle strade, rimbalzarono labili chiarori. Quindi l’ombra si assottigliò ancora, si macchiò di pallori lontani, lacerata da improvvise vivezze, finchè il bianco vi si fuse, vi dilagò, la sommerse.

Loris incantato vi si abbandonava.

La vita era ricominciata. La popolazione operaia del mattino invadeva già le strade a passi frettolosi, fra uno strepito di carrette, un cozzare di voci, un urto, un’onda di gruppi, che sboccavano e dileguavano a tutti gli angoli. Loris più stanco si lasciava ballottare mentalmente da quella folla, già allegra della fatica che l’attendeva, e