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bassavano sempre come dentro un pozzo. Passò del tempo. I loro sensi sovreccitati acquistavano una finezza incredibile. Adesso udivano battere i loro due orologi così distintamente da temere per un istante, che si potesse intenderli anche nel corridoio. In quel lungo attendere non v’era più modo di pensare a qualche cosa, magari ad un espediente supremo, nel caso di essere scoperti; poi quello stare ritti, stecchiti, rattenendo il respiro, dava loro un’improvvisa dolorosa stanchezza.

Finalmente un rombo lontano li avvertì, che lo spettacolo finiva in un grande applauso, e simultaneamente nel corridoio ascoltarono un martellare di scrocchi, uno sbattere di porte, fra uno scalpiccìo, un fruscìo, e voci lievi, tutto un murmure di ruscello, che comincia a discendere. Qualche passo si affrettava già, l’onda degli spettatori si sospingeva, si arrestava nei gruppi agli usci dei palchetti, strisciando alle pareti, sul tappeto, colla sonorità di accenti fuggitivi, vaporando un sottile profumo dalle gonne raccolte, spumeggianti nelle mani. Qualcuno cantarellava fra i denti un brano di frase musicale; gli uomini passavano a torme rumorosamente; qualche fanciullo correva chiamando e ridendo con voce sottile, che passava le pareti; le signore battevano i piccoli tacchi fra il susurro delle sottane, delle quali talvolta l’amido mandava un suono di cartone.

S’intendevano già chiudere palchi e contropalchi a chiave.