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avrebbe potuto mantenersi impassibile in quella situazione; la paura, questa irresistibile coscienza della propria debolezza, lo curvò dinanzi al mistero del pericolo.
Per sottrarsi a tale oppressione riaccese la lanterna, e riesaminò minutamente tutte le disposizioni della mina nella intelaiatura del divano. Era perfetta. Uscì dal palco, seguì passo passo, lungo il muro, il filo nascosto sotto il tappeto, sino alla finestra. Il mastice staccava di tono colla tinta del muro; bagnò la punta del fazzoletto colla saliva e, strofinando, diluì quella stonatura in una macchia più larga.
Ma il freddo lo sorprendeva; l’aria intorno era gelida. Tornò nel palco per dormire. Infatti, stringendo fortemente le palpebre, riuscì ad intorpidirsi, ma il pensiero gli oscillava come un’altra ombra, assumendo forme e proporzioni mostruose. La vicinanza di Olga, muta ed immobile, che forse lo disprezzava, gli dava un malessere intollerabile. In due bisognava almeno parlare; ma l’orgoglio lo ratteneva. Dovette cedere.
Sulle prime non trovava l’argomento; Olga economizzava le parole, e la sua voce aveva un suono tardo, di eco.
Quindi un rumore sul palcoscenico li distrasse, udirono parlare. Istintivamente si stesero sul divano, più basso del parapetto, perchè l’ombra li nascondesse perfettamente. Nel palcoscenico sorvenivano mutamenti. Distinsero fra uno strepito