Il nemico (Oriani)/Parte prima/VI
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VI.
Da quel giorno tutto parve favorirli, ma le loro relazioni divennero più fredde. Olga e Lemm si evitavano, Loris invece pareva più calmo, come se la fortuna del primo tentativo avesse esaltato in lui la superstizione fatalista, comune a tutti gli uomini d’azione. Si sentiva sicuro che la prima neve cadrebbe di notte. Infatti, tre giorni dopo, l’azzurro del cielo s’imbiancò, e il freddo diminuì sensibilmente; erano i primi sintomi. A tarda sera la neve, aggirata da un vento impetuoso, cominciò a cadere sui tetti e sulle strade come una polvere.
Loris era pronto. Quando uscì di casa, suonarono le dieci e mezzo. La piazza sotto la bufera era vuota, pochi fiaccheri stazionavano presso il Piccolo Teatro, all’angolo del Kitaisky. Lemm lo attendeva; con un colpo di martello acuminato e infisso sopra un bastone doveva rompere la doccia della loro casa a fior di terra, poi ritornando e fingendo di scivolare avrebbe estratto rapidamente il capo del filo per stenderlo lungo il muro. A Loris invece l’impresa era più rischiosa per la maggiore lunghezza necessaria del tempo e la sorveglianza dei gendarmi intorno al teatro. Un colpo di martello in una delle sue doccie avrebbe certamente attirato la loro attenzione, mentre per cavarne tutto quel filo sarebbero stati indispensabili almeno dieci minuti. Loris si era quindi coperto di un lungo impermeabile bianco da cocchiere; contava scivolare inavvertito lungo il muro, e sdraiarsi fra la neve accanto alla doccia per forarla col trapano.
Tutta la difficoltà sarebbe nel non essere visto fra il turbine della neve, al momento di lasciarvisi cadere. Il candore dell’impermeabile e le raffiche del vento, costringendo i passanti a camminare colla testa bassa, dovevano aiutarlo. Per ultimo espediente aveva ordinato a Lemm di non abbandonare mai un angolo della piazza, dal quale potesse sorvegliare la doccia, e nel caso che una coppia di gendarmi vi si appressasse, di allontanarsi rapidamente facendo esplodere sulla neve alcune castagnole da lui stesso preparate. Sarebbe bastato accendere, colla brace dello sigaro, la loro brevissima miccia sotto la pelliccia. I gendarmi sarebbero accorsi alle detonazioni.
Lemm vide Loris dirigersi dalla parte opposta della doccia, girando intorno al teatro; in quel momento una pattuglia di gendarmi passava dinanzi ai grandi magazzeni dell’Okhotnj riat, un’altra era ferma al portone dell’Assemblea della Nobiltà. Il teatro fra il pulviscolo della neve si distingueva appena, i fanali lucevano fiocamente come attraverso una nebbia tempestosa. Il freddo cresceva. Tutta la piazza era già bianca, e si manteneva bianca malgrado il passaggio della gente e delle carrozze.
Lemm chiuso nella pelliccia, col berrettone calcato sugli orecchi, tutto bianco di neve, si diresse verso la casa di Loris. Di là potrebbe vederlo ritornare, perchè la distanza era più breve. Infatti gli parve travedere come un’altra bianchezza fra la neve, lungo il muro del teatro, qualche cosa di così vago che sulle prime ne rimase incerto. Non passava alcuno; allora fece qualche passo innanzi. Il raggio di un fanale, cadendo sull’impermeabile di Loris, ne trasse un bagliore così vivo, che Lemm non potè più dubitare. Era l’ultimo fanale prima d’arrivare alla doccia. Lemm respirò, e non vide più Loris. Tese l’orecchio per udire lo stridore del trapano, ma non ostante la sovreccitazione dei sensi non percepì alcun suono; l’aria e la terra erano diventate sorde colla neve.
Toccava a lui. Risolutamente si diresse verso la doccia all’angolo della casa di Loris, facendo mulinare la mazza come per giuoco, allentò il passo; aveva visto appressarsi una carrozza. Quello sarebbe il migliore momento per dare il colpo. Si mise alla cantonata, e quando i cavalli passarono rumoreggiando, perchè le loro unghie ferrate trovavano ancora il selciato sotto lo strato sottile della neve, fingendo di sdrucciolare diede una percossa violenta nel fianco della doccia, che risuonò cupamente. Gli parve di essere nel mezzo di una immensa esplosione; gli orecchi gli zufolavano, gli girava la testa così che per sottrarsi al pericolo di essere visto da qualcuno, che avesse udito quel colpo, si lasciò cadere presso la doccia. Nessuna pattuglia passava, nessuno aveva udito. Allora rinfrancandosi cacciò tre dita nella spaccatura della doccia, trovò il filo, tirò e, rialzandosi lestamente, lo distese per un paio di metri lungo il muro.
La sua opera era compita, era salvo.
Scrollò la neve dagli abiti, e si allontanò per postarsi all’angolo d’osservazione. Avrebbe voluto passare vicino a Loris sussurrandogli che tutto era fatto, ma, siccome questi non glielo aveva ordinato, non l’osò. Quindi scelse un mezzo termine, passando a non molta distanza. Però non vide e non intese nulla; Loris doveva essere sepolto nella neve.
Per non restare in vedetta sotto quella bufera, attirando senza dubbio l’attenzione di qualcuno, decise di fare il giro del teatro; così passerebbe una seconda volta vicino alla doccia. Un orgasmo crescente gli rendeva impossibile l’attendere. Che cosa era accaduto a Loris? Una pattuglia sembrò fermarsi per squadrarlo, Lemm si scostò lentamente dal muro del teatro senza osare di voltarsi indietro, solo all’angolo torse il capo, non vide alcuno. Pazzamente, si mise quasi a correre; voleva passare presso Loris gridandogli di far presto; poi s’arrestò. Loris vedendo un’ombra dirigersi verso di lui, potrebbe crederlo un nemico. La paura lo riprese. Invece andò a mettersi sotto il fanale alla cantonata della casa; così Loris indovinerebbe la sua presenza e, appena finita l’opera, gli verrebbe incontro.
Infatti, poco dopo, travide una massa bianca avanzarsi dalla piazza alla sua volta. Avrebbe voluto quasi gridare, ma istintivamente pensò che doveva andargli incontro coll’altro capo del filo, per fare la sutura in mezzo della piazza anzi che sotto quel lampione. Girò intorno uno sguardo, gli sembrò di essere solo. Si chinò, raccolse fra un pugno di neve il filo, e si mosse affrettatamente.
Loris avanzava adagio. Lemm indovinò che teneva fra le mani il rotolo, e camminava sul filo per meglio seppellirlo fra la neve; quindi si mise a fare altrettanto. Era il momento del massimo pericolo; un passante qualunque, traversando la loro linea, poteva urtare col tacco della scarpa nel filo, e fermarsi.
Loris gli disse, gettandogli sulle braccia l’avanzo del rotolo:
— Prendi la pinzetta dalla mia tasca sinistra, ho le mani intirizzite; annoda tu.
E si allontanò.
Lemm, che si era già cavato i guanti, fece rapidamente la sutura, nascondendosi il resto del filo nella tasca. Raggiunse Loris.
— Ora la Russia è nostra.
E la voce di Loris tremava dal freddo.
Bisognava restare almeno due ore sulla piazza aspettando che la neve crescesse così alta sul filo da celarlo assolutamente. Olga aveva l’ordine di spiare dalla finestra se qualche pattuglia si dirigesse verso la casa e, nel caso di una disgrazia, fuggire per l’appartamento di Lemm. Essi l’attenderebbero sulla piazza.
Per non destare sospetti si divisero in modo che uno di loro traversasse sempre la piazza, mentre l’altro se ne allontanava.
La neve cresceva bianca e polverosa coprendo tutto, soffocando ogni rumore, ammassandosi sui fanali, sui cornicioni, sulle inferriate, aumentando sempre. La notte ne diventava chiara, senza che il cielo si vedesse attraverso quel pulviscolo candido, che riempiva l’aria e impediva agli occhi di guardare in alto, mentre strideva ad ogni passo sotto le scarpe, stringendo intorno ai radi passanti come dentro un vortice.
Solo le pattuglie passavano lentamente, insensibili e solenni. Qualche volta si arrestavano sotto un fanale, o stazionavano ad un angolo; quindi riprendevano la marcia, vegliando sulla città immensa, che quella nevicata sprofondava nell’inverno. La loro grande campagna iemale cominciava quella notte.
Tre ore dopo Loris dormiva; Olga era ancora alla finestra colla fronte ardente contro i vetri, Lemm seduto davanti alla stufa beveva.
Da quel giorno Lemm non parlò più con Loris che come un soldato al generale; l’impossibile impresa, sognata tanti anni da tutto il partito nichilista, era compita per opera di uno solo, e non era che il preludio di un’altra maggiore. Con fretta febbrile Loris si occupava già dei preliminari di guerra. Aveva fatto stendere a Lemm una lista dei suoi correligionari più atti ad aiutarlo in quel disegno, sapendo che i più terribili nichilisti, come i più voraci usurai erano forniti dalla classe degli ebrei. Egli aveva sempre ammirato l’instancabile tenacia di quel popolo, durato solitario migliaia d’anni per dare all’umanità il concetto di un Dio unico, poi sopravissuto al bando di tutte le genti per aver negato coll’uccisione del Messia la nuova religione. Solo gli ebrei potevano accettare quella guerra al di sopra di ogni ragione di classe e di patria. Lemm, lusingato nel proprio orgoglio di razza, si era offerto per un giro nella Piccola Russia e nella Polonia, ove gli ebrei dominavano tutte le sorgenti della vita. Il commercio del grano era nelle loro mani, giacchè grandi e piccoli proprietari non vi potevano contrarre debiti che su pegno dei propri granai: l’odio degli ebrei verso i russi era anche maggiore di quello dei russi per gli ebrei.
Secondo il calcolo di Lemm, con centomila rubli di grano si poteva sollevare tutto un governo, se la fame di una più triste annata vi sferzasse la floscia pigrizia dei mugiks. Il primo esercito sarebbe di cosacchi, abituati a vivere in republica di brigantaggio, e piuttosto tributari che sudditi dell’impero.
— Quando mi ordinerete di partire?
— Attendo una risposta del principe. Guardatevi però dal fare il commesso viaggiatore di grano come il dentista. Vi diedi duemila rubli perchè vi fingeste dentista, e non ne avete speso alcuno per darvi questa apparenza.
Lemm impallidì a quel rimprovero, ma la sua natura d’ebreo aveva vinto sul suo temperamento di rivoluzionario, costringendolo a risparmiare ogni spesa inutile, forse nella vaga speranza di restare padrone della somma.
Ma Loris soggiunse poco dopo:
— Passerete dall’officina inglese Neill, via Mokhovaia, e comprerete una pila con un manipolatore Morse; pagate su quei duemila rubli. Avete studiato fisica, dovete intendervene.
Olga aveva assistito al dialogo arrossendo di gioia. Da molti giorni la sua faccia era diventata più malinconica e modesta. Si era messa a scuola di lavori donneschi da Matrona, tenendola lunghe ore presso di sè, specialmente quando Loris era fuori di casa, e provando un indefinibile piacere nella ripresa di questa educazione femminile. Le faccenduole casalinghe, che una volta le parevano una delle forme più abbiette del servaggio muliebre, acquistavano ora ai suoi occhi una mite poesia. I discorsi ingenui di Matrona sul proprio fidanzato, un operaio fonditore, ricco di un rublo al giorno di salario, col quale avrebbe messo su casa nella calma di un’esistenza, ridotta a pochi sentimenti e quasi priva di idee, agivano come una cura climatica sul suo spirito reso nevrotico da troppe orgie intellettuali e morali.
In cinque giorni Olga arrivò a cucirsi una camicia.
Il suo sogno era di fuggire con Loris in mezzo ad una steppa, per vivere sola con lui, sposata da lui, allevando due bambini, un maschio e una femmina. L’esplosione della mina non avverrebbe, essa non sapeva come, ma non avverrebbe; Loris guarirebbe anche lui da quella febbre nichilista per riconciliarsi colla vita, quale Dio l’aveva voluta. L’ateismo materialista di Olga era già scrollato. Qualche cosa di divino si agitava nel mistero oltre l’origine e il fine della nostra esistenza; una legge arcana regolava l’umanità, un’idea imperscrutabile comandava alla natura. Il volgare culto delle iconi, nelle quali il popolo trovava intercessori, non era che un tentativo dell’anima, come la scienza stessa, per arrivare sino a Dio.
Talvolta Olga non si riconosceva. Provava subite tenerezze per la mamma lontana, quasi un bisogno ineffabile di perdonarle quanto le aveva fatto soffrire, mentre una vergogna le veniva da quel libertinaggio passato, nel quale aveva calpestato tutti i riguardi. Era impossibile che Loris, malgrado l’affettazione della propria insensibilità, non sentisse ripugnanza per lei trascorsa attraverso gli amori di tanti studenti. Quindi rimpiangeva la delicata primizie della propria gioventù, quella poesia senza nome, che riluce intorno alla vergine e la fa sembrare come una stella, nella quale nessuno abbia ancora posto il piede. Perchè Loris non amava? Era sublime disperazione di nichilista, o nausea di poeta dinanzi alle bestialità della umana lussuria? Il pentimento, questa gloriosa rivincita dell’individuo sopra sè stesso, consacrata da tutte le religioni, basterebbe a rifarle nell’anima la spiritualità dell’amore?
In quella sua passione di vergine e di cortigiana diventava sempre più timida verso di lui, sino a tremare di parlargli; però con malizia donnesca si era messa a servirlo in ogni più piccola cosa, non permettendo più a Matrona di fargli il letto, nè di lustrargli le sue scarpe. La mattina si metteva per tempo ad origliare presso il suo uscio, e, se era desto, bussava timidamente chiedendo quando dovesse portargli il caffè. Il suo contegno, entrando nella camera, non poteva essere più modesto, nullameno egli vi sentiva la più intensa passione. Sulle prime aveva resistito mostrandosi più burbero; poi aveva ceduto alla mollezza di quei servigi, che non gli lasciavano ordinare più nulla. La sua terribile perspicacia gli aveva appreso subito il segreto di quella trasformazione, mentre la raffinatezza de’ suoi gusti aristocratici, che gli facevano sentire la donna solamente nella signora, se ne irritava.
Lemm invece, malgrado quel rifiuto, la trovava più simpatica nella nuova volgarità, e talora si sorprendeva a sognare anch’egli l’amore di una donna casalinga, che lo riposasse dal travaglio di quell’esistenza rivoluzionaria in preda a tutti i furori del pensiero. Nemmeno la sua natura biliosa, resa più aspra da tutte le sofferenze di una gioventù senza danaro e senza affetti, resisteva alla tensione di quella guerra sognata da Loris, e fatalmente predestinata alla più piccola e truce delle catastrofi. Ma troppo inoltrato per indietreggiare, cercava di obbliarla a ogni momento in qualche fantasia. La sua insufficienza di rivoluzionario gli si era rivelata in quella goffaggine di non sapersi nemmeno fingere dentista coi compagni d’università, che lo avevano riconosciuto, così che doveva ancora rimanere quasi sempre in casa per evitare il loro incontro. Adesso lo spaventava persino il vecchio soldato; un sospetto, che gli venisse un giorno nel pulire le stanze, e tutto poteva essere scoperto. Anche Loris usciva poco di casa, sebbene a Mosca fosse meno conosciuto di Lemm; ma la sua bellezza aristocratica diventava un pericolo, attirando l’attenzione. Quando si trovavano riuniti non sapevano che dirsi, se Loris non parlava della guerra; era quello l’unico discorso, che coll’ansia di nuovi pericoli potesse ancora rianimare la loro piccola società.
Per mangiare si separavano. Olga e Loris giravano per le trattorie, evitando di ritornarvi troppo; Lemm, sobrio come uno spartano, si contentava spesso di una focaccia comperata da un pasticciere, o di una piccola colazione in qualche caffè secondario. Quando Olga si offerse di fare la cucina in casa, accettarono con riconoscenza. Loris fingerebbe una leggera indisposizione per non uscire di casa. Matrona aiuterebbe Olga, mangerebbero la sera, quando quella si fosse ritirata. Così Lemm potrebbe assistere al pranzo.
Laonde cominciò per loro una nuova vita. Loris studiava la grande opera di Kostomaroff sui Cosacchi, e non usciva più dalla propria camera che per venire a fumare una sigaretta nel salotto, fra Olga e Matrona, quando avevano finito di cucinare; Lemm si era rimesso ai lavori di Wroblenky e di Olzenky sui gas reputati permanenti, nella speranza di poter sostituire un gas liquido alla polvere nei fucili, ottenendo un’economia e una superiorità terribile di arma pei primi moti rivoluzionari. Poi la sera con Loris consultavano lungamente le carte militari dell’impero.
Olga taceva sempre. Una sera, che Loris era uscito, Lemm le chiese:
— Non siete dunque più rivoluzionaria?
— Io sono donna; debbo fare quello che mi si dice.
Lemm non le aveva mai sentito la voce così dolce.
Un altro giorno le disse a bruciapelo:
— Voi amate Loris.
— Non l’amate voi pure?
— Diversamente.
— Io sono donna.
Questa volta Olga aveva arrossito.
Intanto il giorno dell’apertura dell’esposizione si avvicinava.
Tutto era pronto. Avevano passato il filo sotto il tappeto dell’appartamento, sino a quel salotto di Lemm, congiungendolo colla pila chiusa in uno scrittoio ad armadio. Lemm ne teneva sempre la chiave in tasca. Loris, mutando pensiero, aveva comprato egli stesso tre eccellenti trottatori con una droiska, e li teneva in uno stallaggio, dicendo che presto sarebbe partito per la campagna. Li aveva attaccati due volte sole di buon mattino per provare la loro resistenza.
L’ultima domenica, incontrando Lemm presso l’arco trionfale della Tverskaia, eretto ad Alessandro I in memoria della ritirata dei francesi, gli disse:
— Andiamo al Monte dei Passeri.
Era un giorno sereno, il sole piegava al tramonto. Vi giunsero per la barriera Kalongskaia; v’era poca gente a quell’ora e in quella stagione. Le belle ville adagiate sulla sua cima avevano i cancelli e le finestre chiuse, giù alle falde la riviera ghiacciata si stendeva come un immenso nastro d’argento, mentre la neve rimasta a brandelli sugli alberi delle colline circostanti sembrava un tappeto infinitamente bianco sui campi, sulle case, dovunque.
Mosca, enorme, si addensava quasi ai piedi del monte, tuffata, ricoperta da quel bianco verginale cui la luce languida del tramonto appannava la vivezza.
Essi guardavano lo spettacolo, sentendosi invadere dal suo candore.
Mosca pareva più grande e più bella. Le sue cupole a mille colori, ammantate di neve diventavano più leggiere in quella bianchezza, che i sempreverdi dei parchi macchiavano di ombre fosche; le chiese sorgevano fantastiche di bellezza fra gli immensi palazzi e le strade larghe e ghiacciate come la Moskva, per la quale avrebbero potuto passare comodamente tutti i popoli dell’impero. Una cintura di conventi, pieni di boschi e di cimiteri, più vasti di un villaggio e difesi da muri alti come quelli delle fortezze, le stringeva i lombi, mentre il Kremlino, città, fortezza e convento, superbamente eretto, vigilava sovra essa da tutti i domi delle sue cappelle, dalle torri delle sue porte monumentali, dalla sua cinta di muraglioni merlati, dalle terrazze de’ suoi palagi, entro i quali si era svolta tutta la storia della Russia. E sul Kremlino, circonfusa nella luce di quel bianco, la croce saliva nel cielo trionfalmente.
Loris andò a mettersi dinanzi alla porta del ristorante costrutto sul posto, ove la leggenda racconta si fermasse Napoleone I, cinto da tutto lo stato maggiore, a contemplare Mosca la prima volta.
— Vedi, esclamò: vi hanno fabbricato un albergo, come a Roma sulla rupe Tarpea. Ecco il trionfo della modernità; i popoli della storia antica vi avrebbero alzato una piramide, quelli del medioevo un tempio, noi vi apriamo una locanda. Non si fanno più conquiste, non vi sono più che viaggiatori, i quali mescolano attraverso tutti i popoli le idee di tutti i popoli. Napoleone non era che il commesso dell’Occidente.
Ma una fiamma gli si accendeva negli occhi. Fece qualche passo innanzi, e senza accorgersene incrociò le braccia napoleonicamente.
— Bisognerà distruggerla, mormorò cupamente: tutto è monumento a Mosca.
— Sei dell’opinione di Cobden; anch’egli pensò così guardando Roma dal Pincio.
Loris si volse con disprezzo.
— Cobden, l’economista dei mercanti inglesi! Egli avrebbe mutato S. Pietro in un opificio per sostituirvi la tirannia del capitale a quella di Dio. Che cosa può capire della modernità un economista? Forse Napoleone indovinò da questo posto qualche cosa; conquistando Mosca, egli ne scacciava l’Asia. Oggi bisogna scacciarne la vecchia Europa per improvvisarvi un nuovo mondo.
La sera, a pranzo, Lemm disse ad Olga qualcuna delle frasi di Loris; ella, che aveva sempre ammirato Napoleone, si mise a parlarne con entusiasmo. Quella era stata una vita! Passare conquistando attraverso tutti i popoli, e morire solo, alto sopra uno scoglio, in mezzo all’Oceano! Loris se ne andò senza rispondere.
L’imperatore era arrivato a Mosca la mattina del 6 gennaio; la sera degli 8 vi sarebbe serata di gala al teatro.
Nè Loris, nè Lemm, nè Olga uscirono più di casa. Loris aveva già avvisato il padrone dello stallaggio di tenergli pronta la droiska, verso le nove, per quella sera.
Quei due ultimi giorni furono eterni. L’imminenza della catastrofe diventava come una fatalità impreveduta. Loris e Olga non si parlavano più. Lemm evitava di venire nel loro appartamento, Matrona, lasciata sola a cucinare, suppose una lite fra i due amanti, perchè anch’essa aveva dovuto accorgersi della passione di Olga. Ma Loris aveva ancora dovuto sopportare il più atroce degli spaventi, quando gli scopatori municipali fecero, qua e là per la piazza, molti buchi nella neve per disporvi le cataste di legna, alle quali i cocchieri si sarebbero riscaldati la notte attendendo la fine dello spettacolo. Egli aveva dimenticato questo costume, che poteva sventare l’attentato, se per caso una catasta si fosse alzata per dove passava il filo. Invece vi rimasero lontane.
Era dunque inevitabile; ma ora il dubbio cominciava anche in lui. Aveva egli ragione? Quanti sarebbero i morti? Quanto soffrirebbero della esplosione le case della piazza?
Lemm era pieno di dubbi, anche sulla solidità della loro.
— Il nostro pericolo è adesso troppo piccolo, gli aveva risposto Loris duramente: si dirà che fummo vili.
Lo spettacolo della piazza, con tutto quel tumulto di gente e di carrozze, lo affascinava. Si mutavano i becchi del gas per aumentare l’illuminazione, la gente diventava sempre più allegra, e le sue voci arrivavano sino a lui, ritto presso i vetri della finestra come una statua. Gendarmi e soldati passavano a branchi tra il fiotto continuo delle carrozze, entro le quali balenavano uniformi militari e decorazioni. Tutto il popolo, addensato nella piazza, vi rimaneva lunghe ore sulla neve, insensibile al freddo, preso nella curiosità di quella festa, dalla quale era escluso, come dinanzi a un tempio misterioso. Era sempre lo stesso popolo, che ogni grandigia dei padroni affascina, e fra il quale le donne paiono sempre le più contente. Nullameno vi si distinguevano talora figure accigliate, si sorprendeva qualche gesto sdegnoso, forse di nichilisti, quelli che Loris disprezzava più del popolo.
Allora egli lasciava la finestra per tornare nell’appartamento di Lemm ad esaminare la pila. Tutto era pronto; bastava toccare il bottone, grosso e bianco, del manipolatore per determinare lo scoppio. Lemm lo sorprese in quella contemplazione, ma si ritirò senza parlare, andando in cerca di Olga. La fanciulla era nella propria camera, seduta sul divano, così disfatta nel volto che egli non osò dirle nulla.
Mancavano tre o quattro ore a notte, quando Loris non potendo più resistere alla propria tensione, uscì di casa per tornare al Monte dei Passeri. A mezza strada lo sorprese il dubbio che Olga e Lemm potessero fuggire, portando via la pila, per sottrarsi finalmente alla responsabilità dell’attentato. Sarebbe stata un’idea pazza; eppure in quel momento non lo irritava. Il Monte dei Passeri era deserto come l’altra volta, la neve bianca si stendeva all’intorno, oltre ogni potenza di sguardo, sopra Mosca ammutolita ed immobile. Egli la contemplò dal medesimo posto, come Napoleone doveva averla guardata ottant’anni prima, ma non sentì più la medesima invidia pel grande conquistatore. Tutto era calmo e freddo lassù. Che cosa importano alla natura le catastrofi della storia? La vanità della vita gli appariva ora, su quel bianco uniforme, da quella neve distesa sulla terra come un lenzuolo, che ne disegnava appena la forma scheletrica.
Era già notte, quando ripassò per la piazza. Le cataste bruciavano alzando larghe spire di fiamme rossastre, che coprivano la luce dei fanali imprimendo un moto d’oscillazione a tutte le case. La gente strettavi d’intorno, quasi nell’improvvisa intimità di un immenso focolare, ne traeva ogni tanto tizzoni accesi, e li gettava vociando allegramente a spegnersi nella neve. Le carrozze s’aprivano a stento un solco largo ed effimero fra la folla troppa pigiata e vacillante, quando i dragoni incaricati di tenervi l’ordine la respingevano coi petti dei cavalli. A tutte le finestre delle case brillavano lumi, dai portoni aperti irrompevano ondate di luce, mentre un fracasso di marea crescente saliva, allargandosi per l’aria col fumo vorticoso delle cataste. E il teatro, più bianco fra l’incandescenza di quelle fiamme, splendeva da tutte le pareti, sulle quali vasti bagliori correvano come sopra una superficie di acqua.
Loris chiamò Olga e Lemm, ordinando a quella di mettersi alla finestra per osservare attentamente se qualche figura sospetta entrasse nella casa, e a questo di postarsi alla porta del teatro attendendo il principe.
Egli voleva restar solo.
Lo spettacolo era già incominciato, quando Lemm lavorando accanitamente di gomiti, potè mettersi in prima fila dinanzi al portico massiccio della facciata. Sul frontone i quattro cavalli bianchi del carro d’Apollo, immobili, con una gamba levata, parevano sorpresi dal ghiaccio; la neve aveva formato come un casco sulle loro teste. L’atrio del teatro aveva un fulgore acciecante di fornace, entro la quale seguitavano ad ingolfarsi gli invitati chiusi nelle ricche pelliccie; le gonne rialzate delle signore lasciavano talvolta vedere i loro stivalini da ballo.
Lemm soffocava dietro il cavallo di un dragone, che ratteneva la gente a leggere piattonate sul petto. Aveva, i piedi ghiacciati e la testa in fiamme. La folla intorno a lui gridava, pestandosi nello sforzo impossibile di rompere la linea dei dragoni, per la curiosità di contemplare più da vicino l’altra folla degli invitati, senza che egli quasi l’avvertisse. Quell’odiosa brutalità di servi schiamazzanti alla porta di un teatro, consentito solo ai padroni, non irritava più il suo sdegno di rivoluzionario; la sua anima era già entrata in quella sala cercandovi il principe. Dov’era? In qual palco? Presso l’imperatore? Fra un gruppo di signori? O solitario ad un balcone, colle braccia incrociate, guardava sorridendo sinistramente tutti quei morituri, che ad un suo cenno sarebbero morti? Lemm se lo immaginava così. Come doveva sentirsi grande! Nessun uomo si era forse mai trovato così improvvisamente più alto di una folla, nemmeno sopra un campo di battaglia. Perchè il principe aveva voluto ciò? Che cosa doveva aver sofferto per odiare così il proprio mondo? Lemm non lo sapeva, ma fra quella moltitudine, che lo soffocava scuotendolo con tutti i propri fremiti, fra l’abbarbaglio di quelle fiamme, dinanzi a quella visione immaginaria, era preso dalle vertigini dell’abisso. Avrebbe potuto urlare a tutti il proprio segreto spaventevole senza che nessuno lo credesse; lo avrebbero giudicato un pazzo. Era dunque fatale. Egli vedeva sempre il principe, ritto colla faccia gialla di malato terribilmente immobile, girare uno sguardo su tutti quegli invitati contandoli; quanti erano? Ma, e tutti gli altri stipati nella piazza, che sarebbero periti nell’esplosione? A questi forse il principe non pensava, mentre Lemm se ne sentiva addosso il numero pesante, brulicante. Egli non poteva col pensiero alzarsi sovra di essi, come il principe su tutta la corte e l’aristocrazia stipata nel teatro; erano quel popolo stesso, pel quale scoppierebbe la mina, i medesimi poveri, che quella ecatombe di ricchi doveva vendicare. Questa tragica contraddizione lo prostrava; egli non aveva potuto, come Olga, diventare inconsciamente un satellite di Loris.
Olga invece ritta al balcone, come una sentinella morta, guardava nella piazza senza vedere. La sua anima buona si era annegata nella certezza di quella catastrofe, come un naufrago nell’oceano. Così addossata al balcone, tutta chiusa nella pelliccia, doveva sembrare alla gente una delle tante signore ingenuamente beate allo spettacolo di quella piazza tumultuante. Ma Olga non pensava più, o tratto tratto pensava a Loris chiuso nel fondo di quel gabinetto, seduto allo scrittoio, colla mano ferma sul manipolatore Morse. Egli solo forse conservava anche in quel momento tutta l’impassibilità necessaria a tale inintelligibile olocausto, perchè egli solo aveva avuto l’anima così terribilmente logica da volerlo. Nullameno che cosa provava egli, giù nelle profondità più segrete del cuore? Quale differenza separava il suo odio da quello del principe? Perchè il principe non aveva resistito al piacere satanico di contemplare in teatro tutta la moltitudine dei propri nemici, pregustando la loro morte nell’onnipotenza del proprio segreto, mentre Loris si era nascosto a tutti, faccia a faccia colla pila? In quel momento Lemm s’immaginava Loris come un ragno, immobile dentro la propria serica tana, aspettando la caduta di una fra le tante mosche ronzanti; v’era della viltà nella sicurezza di quell’attesa, e v’era quasi della poesia nella spensieratezza delle mosche. Lemm non poteva sottrarsi a questo paragone, che sentiva ingiusto. Loris non era più un uomo, ma un’idea; quella catastrofe da lui preparata, era una battaglia e non un delitto. L’impiegato di marina, che domani, alla prima guerra, scruterà nel fondo della propria camera oscura, entro lo specchio, il passaggio della corazzata nemica sul punto, ove fu nascosta la torpedine, per farla esplodere toccando un tasto, non è anch’esso un combattente? La guerra moderna ha dunque altre forme di combattimento e categorie di soldati, che non l’antica; Loris era la guerra sociale colla fatalità di tutte le sue intransigenze e l’inesauribile ferocia de’ suoi odî.
Lemm avrebbe voluto conoscere che cosa provasse Loris nell’anima, perchè, in fine, anch’egli era un uomo e doveva aver amato qualcuno. Non si odia così, se prima non si è amato altrettanto. Chi sa nemmeno, se all’ultimo oserebbe premere il bottone. Lemm si attaccava a questa incertezza, come all’ultimo lembo di ragione. Oramai la follia della gente schiamazzante intorno alle cataste, e dinanzi al portico del teatro, lo aveva preso.
Istintivamente si mosse per andarsene, ma l’inutilità del primo sforzo lo richiamò alla realtà della situazione. La folla cominciava lentamente a diradarsi, le carrozze invece parevano aumentare, ed erano tutte d’invitati. Quelle solite ad attendere i cantanti stazionavano a gruppo, dinanzi al teatro della casa Chelapoutine. Lemm aveva le gambe ghiacciate sino al ginocchio.
Il principe non poteva tardar molto ad uscire.
D’un tratto lo vide nel portico, col gibus rigettato dalla fronte e la pelliccia sbottonata, sotto la quale si travedevano le decorazioni. Il principe si slanciò giù dai gradini, fra le guardie, che lo lasciarono passare rispettosamente. Lemm gli si spinse incontro, sgusciando dietro il cavallo del dragone.
— Principe! esclamò.
Il dragone gli era già sopra per colpirlo con una piattonata, quando il principe si volse e respinse il soldato con un gesto.
— Andiamo, andiamo, mormorò il principe con voce strozzata riprendendo la corsa.
Ma l’aria fredda, restituendolo al sentimento della realtà, gli fece abbottonare la pelliccia e rialzarne il bavero; poi si abbassò il gibus sulla fronte, camminando sempre così rapidamente.
— Che cosa è successo? chiese Lemm, che colle gambe intirizzite stentava a seguirlo.
L’altro rispose con un cenno di spavento.
Erano in mezzo alla piazza; le carrozze impedivano loro la corsa, mentre la neve, disciolta dall’attrito di tutti quei piedi, si era fatta pericolosamente lubrica. Due o tre volte, scivolando fra ruota e ruota, furono sul punto di cadere. Nel passare vicino ad una catasta Lemm potè osservarlo bene in faccia; pareva uno spettro. Il principe piegò, quasi furiosamente, verso la casa di Loris.
— A casa mia! gli sussurrò Lemm fermandolo per una manica della pelliccia.
Olga, che li aveva riconosciuti dal balcone, si ritirò come un’ombra.
Quando entrarono nel gabinetto, ella li aveva preceduti, fermandosi presso la porta. Il gabinetto rimaneva quasi buio, giacchè l’unico lume a petrolio, presso la pila sullo scrittoio, era riparato da un cappello verde, che sembrava concentrare tutta la sua luce sul bottone nichelato del manipolatore, scintillante come un cristallo.
Loris si alzò scostando la sedia, ma il loro aspetto alterato lo fermò.
Lemm si teneva dietro il principe, del quale l’anelito faticoso sembrava crescere. Improvvisamente questi vacillò, e si rattenne ad una sedia.
Allora Loris lo squadrò più intensamente.
— L’imperatore?... gli chiese.
Ma l’altro, avanzando un passo, rispose precipitosamente con voce strozzata:
— C’è mia figlia....
Loris, credendo che stesse per slanciarsi sul manipolatore, si torse vivamente, e vi appoggiò la mano.
Il principe indietreggiò spaventato; era livido cogli occhi sbarrati.
— No! gridò ansando: aspettate.
Olga e Lemm si avvicinarono. Loris, presentendo una spiegazione terribile, era diventato più pallido, con quella sinistra fisonomia marmorea, che Olga gli conosceva. Respiravano tutti a stento.
— C’è mia figlia, riprese il principe, quasi in queste semplici parole avesse con uno sforzo supremo condensato tutti i propri argomenti.
Loris non rispose.
Allora il principe ebbe un gran gesto, come se solamente in quell’istante si accorgesse di affrontare l’impossibile. La sua faccia divenne terrea, i suoi occhi schizzarono fiamme. Si rialzò; una lotta impossibile stava per incominciare. Loris incrociò con lui uno sguardo gelido, e strinse nel cavo della mano il bottone del manipolatore.
— Ah! gridò ancora il principe: almeno una parola.
— Mia figlia.... capite: è entrata poco fa con suo padre, e le labbra gli tremarono. Ero nel mio palco col ministro della marina; avevo già osservato quel palchetto ancora vuoto. È entrata per la prima, l’ho subito riconosciuta. Aspettate per Dio! urlò credendo di sorprendere un moto nella sua mano: non l’avevo vista da cinque anni, ma tutte le settimane ricevo notizie dalla principessa sua madre, l’unica donna, che mi abbia amato. Non ho che quella bambina; se avessi potuto sposare quella donna, non sarei forse qui. Fu impossibile.... dopo ne ho sposata un’altra, non ho figli. Ho solamente quella bambina, non posso amare che lei, e mi è impossibile avvicinarla. Quello, che essa crede suo padre, è mio mortale nemico.
Pronunciando queste ultime parole la sua voce non aveva più nulla di umano.
— Non potevo, soggiunse, avvisare la principessa di andarsene. Ella non mi aveva scritto che sarebbe venuta alla serata di gala; forse contava sopra una amabile sorpresa.
E tacque guardando ansiosamente Loris.
Questi rimase impassibile; quindi si voltò lentamente verso la pila.
— Che! esclamò il principe, non mi rispondete nemmeno? E girò uno sguardo, come invocando aiuto, su Lemm e su Olga; questa se ne andò, forse non reggendo allo strazio della scena.
— Perchè discutere? rispose Loris con voce gelata. Mi avete detto tutto, io non ho nulla a rispondervi.
Il principe si avanzò fino quasi a toccare lo scrittoio, ma Loris gli fece comprendere con una occhiata, che al suo più piccolo moto avrebbe abbassato il bottone. Il principe arretrò.
— Voi mettete vostra figlia al disopra della Russia.
— Mineremo il teatro di Pietroburgo.
— Non si contromandano le rivoluzioni.
— Ma no, no! stridè con accento di pianto disperato: ucciderò io stesso l’imperatore, sono pronto a rientrare in teatro appositamente.
— Principe, disse Loris, non discutiamo. Vostra moglie vi ha cacciato nella rivoluzione, vostra figlia starebbe per trarvene fuori.... è impossibile, dovete comprenderlo voi stesso. Il vostro sagrificio non è nemmeno straordinario: ricordatevi i nomi dei congiurati, che sagrificarono sè stessi e la propria famiglia alla rivoluzione.
— Non vi è dunque al mondo chi, trovandosi questa sera in teatro, potesse impedirvi di far scoppiare la mina?
Loris non rispose.
Il principe parve cadere, ma Lemm fu pronto a sostenerlo con un braccio. Anch’egli guardava Loris con occhi supplichevoli, non osando parlare.
— Grazie.... mormorò ancora il principe.
Ma Loris alzò il capo risolutamente e, tendendogli la mano sinistra con un sorriso stranamente doloroso, gli disse:
— Sarò vostro figlio.
E nervosamente abbassò il bottone.
Fu un attimo. Nè Lemm, nè il principe avevano avuto il tempo di urlare; si sentirono l’immane esplosione nel cuore, parve loro che la casa inabissasse. Invece nulla si era mosso. Loris li guardò intontito; essi erano sospesi, poi come non credendo a sè stesso, ripercosse due o tre volte furiosamente il bottone.
Olga ricomparve in quel punto sulla porta.
— Ah! ruggì Loris, sei tu che hai tagliato il filo.
Olga cadde ginocchioni, congiungendo le mani, ma Loris, prima ancora che il principe e Lemm potessero fare un movimento, aveva estratta una piccola rivoltella, e aveva fatto fuoco.
Olga stramazzò bocconi.
Il principe si slanciò su Loris.
— Che cosa fate?
Il suo viso e la sua voce erano mutati; Lemm pareva inchiodato sul tappeto. Passò qualche secondo. Loris era rimasto come atterrato, colla rivoltella in pugno; ma il principe avendo già riacquistato tutta la propria presenza di spirito, lo scosse per un braccio.
— Venite, non c’è tempo da perdere; la detonazione potrebbe essere stata intesa. E, senza dargli tempo di resistere, lo spinse fuori del gabinetto.
Poco dopo chiusi nelle ampie pelliccie scendevano le scale, dirigendosi allo stallaggio, ove Loris aveva fatto tenere pronta la propria droiska. Prima di mezzanotte erano già fuori di Mosca.
Olga non era che svenuta; la palla le aveva appena scalfito la fronte, traendone un sottile filo di sangue. Quando ricovrò i sensi, si trovò sdraiata sul letto di Lemm.
— Loris....
Fu la sua prima parola.