tivi, già annunziati per
la settimana ventura; restarvi non visti una notte ed un giorno, sino
alla seconda rappresentazione, uscendone poi senza essere osservati.
Ventiquattr’ore sarebbero più che sufficienti a disporre la mina: questa
doveva comporsi di trenta chilogrammi di melinite, divisi in trenta tubi
metallici, nascosti ad ogni probabile investigazione sotto l’imbottitura
di un divano: i tubi, non più grossi di tre centimetri, rimarrebbero
celati dietro la fascetta del sedile. Pochi fili di ferro, tesi a
piccolissimi ganci invitati nelle fascette, basterebbero a sostenerli.
Nessun inserviente incaricato della pulizia dei palchi avrebbe mai
l’idea, scoppettando un divano, di cacciarvi la testa sotto per cercarvi
una mina nella intelaiatura. Ma per incendiare i trenta chilogrammi di
melinite, bisognava trasmettervi la scintilla elettrica con un filo: qui
cominciava la follia. Non v’era altro modo che forare con un trapano
sottile il muro esterno del teatro nel vano di una finestra, ove lo
spessore fosse minimo, presso una delle doccie discendenti dal
cornicione; trapassare anche la doccia, congiungere il filo ai tubi,
facendolo passare invisibile sotto il tappeto del palchetto e della
corsia sino a quella finestra, e riempire la doccia dei
centotrentacinque metri, tanta era la distanza, di filo necessario per
giungere alla loro casa. Poi aspettare la notte della prima nevicata; ma
se la neve cadesse di giorno alzandosi troppo dal suolo l’impresa andava
a vuoto; con un colpo