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libro primo. | 51 |
drizzarli ed ajutargli alla via che lo ingegno loro e la natural
disposizion gl’inclina. Per questo adunque, messer Federico
mio, credo, se l’uomo da sè non ha convenienza con
qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione;
perchè la virtù di quell’ingegno s’ammorza e resta impedita,
per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe
fatto profitto, se non gli fosse stata precisa. Non so adunque
come sia bene, in loco d’arricchir questa lingua e darli spirito,
grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura,
e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato
ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio; e che
nella lingua non si debba ancor credere al Poliziano, a Lorenzo
de’ Medici, a Francesco Diaceto, e ad alcuni altri che
pur sono Toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio
che si fosse il Petrarca e ’l Boccaccio. E veramente, gran
miseria saria metter fine e non passar più avanti di quello
che s’abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi
che tanti e così nobili ingegni possano mai trovar più che
una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria
e naturale. Ma oggidì son certi scrupulosi, i quali, quasi
con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana,
spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor
molti uomini nobili e litterati in tanta timidità, che
non osano aprir la bocca, e confessano di non saper parlar
quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle
fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; però
seguitiamo ormai il ragionamento del Cortegiano.
XXXVIII. Allora messer Federico rispose: Io voglio pur ancor dir questo poco; che è, ch’io già non niego che le opinioni e gli ingegni degli uomini non siano diversi tra sè; nè credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scriver cose placide; nè meno un altro severo e grave, a scriver piacevolezze: perchè in questo parmi ragionevole che ognuno s’accommodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando disse, che i maestri avessero riguardo alla natura dei discepoli, per non far come i mali agricoltori, che talor nel terreno che solamente è fruttifero per le vigne vogliono seminar grano. Ma a me non