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libro primo. | 37 |
ta: perchè questa così fatta attilatura e sprezzatura tendono
troppo allo estremo; il che sempre è vizioso, e contrario a
quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli animi
umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando
si sforza d’andare così stirato in su la sella, e, come noi sogliam
dire, alla veneziana, a comparazion d’un altro, che
paja che non vi pensi, e stia a cavallo così disciolto e sicuro
come se fosse a piedi. Quanto piace più e quanto più è laudato
un gentiluom che porti arme, modesto, che parli poco
e poco si vanti, che un altro, il qual sempre stia in sul laudar
sè stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar
al mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler
parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi
in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa.
XXVIII. Allora il signor Magnifico, Questo ancor, disse, si verifica nella musica, nella quale è vizio grandissimo, far due consonanze perfette l’una dopo l’altra; tal che il medesimo sentimento dell’audito nostro l’aborrisce, e spesso ama una seconda o settima, che in sè è dissonanza aspera ed intolerabile: e ciò procede, che quel continuare nelle perfette genera sazietà, e dimostra una troppo affettata armonia; il che, mescolando le imperfette, si fugge, col far quasi un paragone, donde più le orecchie nostro stanno sospese, e più avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanza della seconda o settima, come di cosa sprezzata. — Eccovi adunque, rispose il Conte, che in questo nòce l’affettazione, come nell’altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio appresso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi, troppo diligenza esser nociva, ed esser stato biasimato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola. — Disse allor messer Cesare: Questo medesimo difetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande. — Rise il Conte, e soggiunse: Voleva dire Apelle, che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d’essere affettato nelle opere sue. Questa virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chia-