Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche/Appendice III

Appendice III. Le misure lineari e di superficie

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APPENDICE III.


Le misure lineari e di superficie.

§ 1. Le nostre misure lineari non hanno una base unica, come, a cagion d’esempio, le romane aveano il Piede, sul quale erano fondate anche le misure superficiali dei terreni, ma sibbene, almeno le due principali, cioè il Piede agrimensorio ed il Braccio da panno e da tela, hanno una origine affatto differente, sicchè si possono illustrare le une indipendentemente dalle altre, al pari che le une prima delle altre. Tuttavia, affine di seguire un ordine almeno cronologico, cominceremo dal Piede agrimensorio. — Pare che re Liutprando, il grande legislatore e pacificatore dello Stato langobardo, abbia anche introdotta una riforma nelle misure agrarie (Giulini, Memor. stor. 2 p. 425), stabilendone per base quel Piede, che variamente fu detto Piede liprando, Piede d’Aliprando, o, come a Cremona, peloprant, peliprant (Capra, Architet. civ. e mil. p. 144). Questa denominazione vigeva anche presso di noi, ed il prof. Tiraboschi, paziente ed acuto indagatore, s’altri mai, [p. 162 modifica]di quanto si riferisce al nostro dialetto antico e moderno, ci comunicava non ha guari la seguente nota: «In carta del 1523, Civ. Bibliot. rotolo 1035, ho letto: veniendo cum gronda dicti tecti pluentis in curtem dicti Christophori per unum peliprandum extra murum. Nel 1535 un Bernardino Giovanelli comperava in Gandino un pelibrando. Questa voce, che sta per iscomparire affatto, è talvolta usata nella Val Gandino per significare un tratto di terreno circostante e spettante ad una casa, od anche un andito strettissimo tra le mura di due case.» Ed infatti, ancora gli agrimensori del principio di questo secolo scrivevano che «la ragione delle gabbate, siepi vive, stillicidii è quella del piede d’Aliprando» e che «le viti, a seconda del modo col quale sono allevate, hanno la ragione del trabucco o del piede Aliprando verso il confinante (Guerrino, Euclide in campagna p. 122, 135).» Una leggenda raccolta intorno al 1060 nella Cronaca Novalicense, parlando di re Liutprando, reca quanto segue: tante longitudinis fertur habuisse pedes ut ad cubitum humanum metirentur. Horum vero pedum mensura per consuetudinem inter Langobardos tenetur in metiendis arvis usque in praesentem diem, ita ut pedes eius in pertica vel fune quatuordecim faciant Tabulam (Chron. Noval. 2, 1 in Rer. Ital. Ser. 2, 2 col. 714; cfr. Du Cange s. v. Pertica e più sotto § 4). Questo Piede era usato per la misura dei terreni anche in Toscana, dove G. Villani (Istor. fior. 2, 9) asseriva essere di poco più piccolo del Braccio fiorentino, e l’asserto del Cronista della Novalesa, oltrechè da questo, si trova anche pienamente convalidato dai documenti. In una cartaFonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 milanese del 890 [p. 163 modifica] abbiamo: ipsa pecia terre (habet) — pedes, legiptimos, qui dicitur de Liutprando, numero quatuordecim (Giulini, 2 p. 417); in una carta comasca del 983 leggiamo: et est areas ex ipsa terrola, ubi molendinum esse debet, per mensura iusta pedes legiptimos qui dicitur de Liutprando sex (Hist. P. M. 13 col. 1432 b): in una vendita di fondì in Cologna milanese del 995, dopo essersi data la misura di un pezzo di terra in Pertice jugiales tres, di un altro in Tabule quindecim, per un terzo vi ha: et est suprascripta pecia de terra prativa cum area et predicto molino per longitudinem Perticis viginti — habente pro unaquis Pertica pedes qui dicitur de Liutprando duodecim (Giulini, 2 p. 425; H. P. M. 13 col. 1583): in altra carta di vendita del 1006 abbiamo ancora: et est campo ipso infra suprascriptas coerencias per mensura iusta perticas legiptimas septem. est autem campo ipso in monte et sera in omne loco Pedes qui dicitur de Liutprando a pertica mensuratos numeros sex, et per longitudinem est campo ipso meridie et montes Perticas ad duodecim Pedes qui dicitur de Liutprando mensuratos numero quatuordecim (Giulini, 3 p. 46 seg.): infine nella Cronaca Farfense verso i primi anni del secolo undecimo leggiamo: item quidam Petrus Comes filius Guinisii Comitis dedit et tradidit in Monasterio s. Mariae in Minione, quod est Cella huius Monasterii, unam ecclesiam s. Archangeli, prope Corgnitum cum mille et quingentis perticis de terra ad perticam pedum XII Liutprandi Regis (Rer. Ital. Script. 2, 2 col. 511). Ed anche nelle misure lineari si adoperava il piede di Liutprando. In una carta di Monza del 956 abbiamo: accessio que est per traverso pedes qui dicitur de Liutprando sex (H. P. M. 13 col. 1051); e [p. 164 modifica]con tutta probabilità deve intendersi il Piede di Liutprando in tutti quei documenti nei quali è nominato il Pes legiptimus (Hist. Patr. Mon. 13 col. 449, 790; cfr. col. 731 e la Nota a col. 449 dove si è interamente frainteso il brano degli Statuti di Milano). La sopravvivenza del nome di Piede di Liutprando o d’Aliprando attribuito al Piede con cui si misuravano i terreni non è che una riprova di quanto risulta anche dai nostri documenti. Negli Statuti di Milano troviamo stabilito il valore di questo Piede nella seguente ordinanza: Mensura Pedis Liprandi sit, et esse intelligatur de Unciis novem ad Brachium lignaminis (Stat. Med. 2 c. 350, Bergomi 1694): il Mabillon scrive nostra etiam hac tempestate hujus pedis (Liutprandi) mensuram ad agros dimentiendos usui esse in tota Insubria, licet in Tuscia sit abrogata, eamque corrupto vocabulo Aliprandi pedem apud Mediolanenses appellari (Iter ital. litter. p. 175), e lo stesso si trova nei metrologi del secolo passato, pei quali il Piede Aliprando non è che il Piede agrimensorio di Milano (Cristiani, Misur. ant. e mod. p. 20, 23);

§ 2. Dodici di questi Piedi formavano la Pertica o canna colla quale si misuravano i terreni. Lo stesso significato avea la Pertica romana, la quale però era detta anche Decempeda perchè conteneva soli dieci Piedi (Hultsch, Metrol. p. 63 seg.), ed Isidoro così spiega quel nome: Pertica autem a portando dictum quasi portica . omnes enim praecedentes mensurae in corpore sunt, ut palmus pes passus et reliqua: sola pertica portatur (Etymol. in Ser. Metr. 2 p. 107, 12 seg.). Quindi nei documenti dei varii contadi troviamo la seguenti formole: in una vendi[p. 165 modifica]ta di fondi vicino al Po fatta nel 768 abbiamo: omnia ad pertica legiptima iugalis de duodecenos pedes (H. P. M. 13 col. 69); nel 771 in una permuta di fondi sul Vicentino e sul Bresciano: ad mensuram legitimam de duodecimos pedes (ibid. col. 82, 83); nel 772 in Persiceto: ad pertica legitima de pedes duodecim plenarios (ibid. 88); nel 806 e nel 822 sul Bresciano: perticas legitimas de duodecimos pedes (ibid. col. 154, 180); in una vendita in Noniano pavese fatta nel 835: per mensura iusta e pertica legitima de duodicenos pedes (ibid. col. 215); in altra vendita di fondi posti in Probiano sul Veronese nel 843: ad pertica legitima de pedes XII ad estensis brachiis mensurata (ibid. col. 263; v. anche. col. 1297): in un nostro documento del 867: per mensura ad racione facta de pertica legiptima de pes duodecim (Lupi, 1, 831 seg.); in altra vendita di fondi sul Modenese fatta nel 961: ad pertica legitima de pedes duodecim (H. P. M. 13 col. 1113); in una carta milanese del 795: habente pro unaquis pertica pedes qui dicitur de Liutprando duodecim (Giulini 2 p. 425); in altra pur milanese del 1006: perticas ad duodecim pedes qui dicitur de Liutprando mensuratas (Giulini 3 p. 46 seg.). Questa pertica era detta Jucata dai Milanesi nei prossimi passati secoli (Mabillon, It. ital. p. 175; si veda in Du Cange s. v. Juctus Juchus, Jochus d’onde il milanese Jucata) ed il suo nome, con questo speciale significato di una misura divisa in dodici parti, andò perduto fra noi, e ciò era naturale. Infatti la fune (v. sopra § 1 nel passo della Cronaca Noval.) era mezzo troppo incerto per ottenere esattezza di misure: la pertica da 12 piedi era [p. 166 modifica] asta troppo lunga e troppo incommoda per la sua poca maneggevolezza: negli usi pratici quindi della agrimensura si impiegò la metà della pertica o Gettata (Guerrino, Euclide in campagna p. 102), e fu detta dai Milanesi Trabucco (Mabillon, a. l. c.), dai nostri Capitium o Capicium, ora il Cavezzo. Quale rapporto possa esistere fra il nome assegnato a questa misura e il romano e medievale Capitium, parte di un vestimento (Forcellini s. v.; Du Cange s. v.), veramente non sapremmo, nè qui è luogo da tali ricerche: ci basti accennare che la nostra legislazione Statutaria non si occupa che di questo e della sua verificazione. Nello Statuto più vecchio (13 § 35) abbiamo: item statuimus ut Rectores cogant mensuratores terrarum civitatis et Virtutis Pergami iurare quod mensurabunt terram iuste et bone fide — et Capitios Mensuratorum terrarum Civ. et Virtutis Pergami amuelare facient et omnes alias mensuras et stateras ad unum eundem modum et ad eandem mensuram ad suprascriptum terminum cum Capitio et statera et penso et mensura Civitatis. La città avea dunque il campione del suo Cavezzo, sul quale doveasi verificare (amuelare) quello degli agrimensori. Nello Statuto del 1331 (8 § 66) vi ha: quod Vicarius cogat omnes mensuratores terrarum Civitatis et Districtus Pergami iurare quod mensurabunt terras quas debuerint mensurare iuste et bona fide pro utraque parte et ad iustos Capitios Comunis Pergami, e questa disposizione si trova ripetuta in tutti i posteriori Statuti (p. e. Stat. an. 1353, 8 § 24). È probabile che fino a quest’epoca la verifica del Cavezzo si effettuasse mediante l’incavo chiuso alle estremità da due aggetti di ferro, che tuttora si ve[p. 167 modifica] de di fianco alla porta settentrionale di S. Maria Maggiore; ma quando furono creati appositi incaricati (officiales), e fu stabilita una tariffa per ogni singola misura (Stat. an. 1353, 8 § 146; Calvi, Effem. 1 p. 39, 183, 224), presso di essi sarà stato deposto il campione del Cavezzo, che fu quello che servì di base alla Commissione del 1801 pei suoi ragguagli col nuovo sistema metrico. — Il Piede di Cavezzo si divide in 12 once, l’oncia in 12 punti, il Punto in 12 Atomi, ma è probabile che queste ultime suddivisioni in pratica non si sieno mai usate, o ben raramente. I nostri documenti non ci danno oltre l’oncia nè per le misure lineari, nè, come vedremo (v. sotto § 12), per le misure di superficie. Nello Statuto più vecchio dove, sono stabilite le dimensioni dello Stajo della calce, è ordinato che l’altezza non debeat esse a fundo de intus ultra IIII untias ad untiam capitii Comunis Pergami (Stat. an. 1204-48, 13 § 33), e perciò noi ci fermeremo a questa suddivisione nel prospetto che qui diamo per le misure lineari dei terreni:

Pertica (Jucata) 1
Capitium 2 1
Pes 12 6 1
Uncia 144 72 12

§ 3. Il nostro Piede agrimensorio, come vedremo, è così vicino al Piede liprando di Milano, che, quanto staremo per dire di questo, varrà anche ad illustrazione del nostro. Il più antico ragguaglio del Piede liprando lo troviamo negli Statuti di Milano dove è detto (2 cap. 350): Mensura Pedis Liprandi sit, et esse intelligatur, de Unciis novem ad brachium [p. 168 modifica]lignaminis, e bisogna credere che questo. rapporto fosse tenuto per esatto ed effettivo, perchè questo Braccio si chiamava anche Brachium terrae. Infatti negli stessi Statuti (2 cap. 285) troviamo quanto segue: alveus fluminis Olonae aptetur a loco de Certiate, usque ad locum de Castignate, taliter, quod dictus alveus sit largus, seu in amplitudine ad minus, per Brachia duodecim, ad Brachium terrae et lignaminis. Il rapporto chiaramente definito permetteva adunque di usare indistintamente l’una e l’altra misura per indicare le distanze e le lunghezze sui terreni: infatti 12 Braccia doveano dare esattamente 16 Piedi liprandi. Il Braccio di Milano, di cui si conservava un campione costrutto nel secolo passato da abilissimo artefice, fu posto a confronto dalla. Commissione del 1801 col campione della Tesa di Parigi posseduto pure dalla Specola di Milano, e dopo 200 osservazioni fatte da diverse persone ne risultò che il Piede di Parigi corrispondeva ad Once 6 Punti 6 Atomi 7 1/2 di quel Braccio (Istruzione sui Pesi e Misure (Oriani) p. 43) onde il valore di questo nelle nuove misure risultò di millimetri 594,9364 (Ibid. p. 47). Tale essendo la lunghezza del Braccio, è chiaro che il Piede liprando avrebbe dovuto essere di millimetri 446,402. Se questo valore è effettivamente superiore a quello attribuito al Piede agrimensorio da tutti i metrologi del secolo passato e del presente, non è a meravigliarsene. È uno dei caratteri di quest’epoca una tale divergenza di due misure, quantunque la consuetudine e la legislazione persistessero a tenere l’una misura coll’altra in istretto rapporto. Non ultima delle cause di questo fatto [p. 169 modifica] deve stare nella imperfezione delle arti per la quale i campioni erano costrutti o verificati con veruna di quelle diligenti cure, che si richiedono in così dilicato negozio. Il Piede del Cavezzo correva la stessa sorte della maggior misura alla quale era unito: ma una volta che dal Cavezzo, come vedremo con tutta verisimiglianza, fu tratto il nostro Braccio da fabbrica, e che formò in certo modo una speciale unità nel sistema delle nostre misure, il rapporto fu alterato, sicchè 5 Braccia verrebbero a formare un Cavezzo un po’ maggiore dell’effettivo. Così abbiamo veduto che a Bologna si riteneva che il Boccale contenesse 40 once di acqua, e quindi che il quarto di Corba, ossia la Quartarola da 15 Boccali, ne contenesse 50 libbre: ma in effeto si trovò che questa ultima misura conteneva di acqua per il peso di 54 libbre (v. sopra nota 170). A Modena, secondo quegli Statuti, il Braccio avrebbe dovuto essere la quinta parte della Pertica agrimensoria da sei piedi, e a tutta ragione nella riduzione a nuove misure il suo valore avrebbe dovuto essere di millimetri 627,6579, mentre invece si trovò che realmente era superiore, cioè di millimetri 633,1533 (Malavasi, Metrol. ital. p. 269). Quantunque il tempo abbia potuto far risentire la sua influenza sull’una e sull’altra misura, tuttavia non è improbabile, come vedremo, che anche il Braccio dalla sua origine abbia sofferto qualche aumento, in modo che l’alterazione del suo rapporto col Piede liprando divenne più sensibile. Il Mabillon, dopo aver detto come nell’Insubria si usasse quel Piede nelle misure dei terreni, aggiunge: denique Pes Liutprandi ad nostrum morem [p. 170 modifica]compositum, Parisiensem pedem regium continet, et insuper ipsius pedis trientem (It. ital. p. 175). Egli verrebbe così ad attribuirgli la lunghezza di Linee parigine 192 o millimetri 433,1192, e quindi molto al di sotto del valore prescritto negli Statuti di quella città. Il Fedrighini (Piede Statutario di Brescia p. 28) si occupò egli pure di questo Piede, e ragguagliandolo sulle misure della sua città, gli attribuì once 11 3/16 del Braccio o Piede agrimensorio di Brescia. Questo Braccio dalla Commissione del 1801 fu tenuto di millimetri 470,99135 (Istruzione ecc. p. 112; Tavole di Ragg. della Rep. Ital. p. 336), ma nel secolo passato gli si attribuiva un maggior valore, poichè il Cristiani mediante l’uso diligente del compasso di proporzione, dice d’averlo trovato di Pollici parigini 17 43/75 Linee parigine 210,88 (Mis. ant. e mod. p. 21) o di millimetri 475,71, sicchè su questa base il Piede liprando, secondo i calcoli del Fedrighini, dovrebbe essere di millimetri 436,6858. Il Cristiani ci offre un doppio ragguaglio del Piede liprando: il primo fondato sulla misura bresciana (o. c. p. 21 Nota 53), il secondo sulla parigina (p. 20)Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256. Secondo lui il Piede liprando corrisponde ad Once 10 23/24 del Piede Bresciano, od a Linee parigine 192,6, e trascurata la esigua differenza nella riduzione delle frazioni di millimetro, darebbe una lunghezza di millimetri 434,473 nel secondo caso e di millimetri 434,415 nel primo. Il Cristiani però nel suo ragguaglio del Piede liprando in linee parigine non si affidò ad esperienze proprie, ma bensì a quelle dei migliori autori, che pongono fra quel Piede ed il parigino il rapporto di 321 a 240, che conduce ad identici ri[p. 171 modifica]sultati (o. c. p. 20). Il Giulini ragguaglia il Piede di Liutprando ad once 8 3/4 del braccio milanese (Memor. stor. 1 p. 207), col che viene ad attribuirgli la lunghezza di Linee parigine 192,3 o millimetri 433,8075. Le differenze che si trovano fra questi diversi valori sono quasi incalcolabili e dimostrano con quanta sicurezza noi dobbiamo accettare il risultato della Commissione del 1801, la quale stabilì il valore del Piede agrimensorio di Milano in millimetri 433,18499 (Istruz. cit. p. 112; Tavole di Ragg. della Rep. Ital. p. 337); valore che concorda perfettamente con quello dato dal Guerrino (Euclide in campagna, p. 100, 102) in Once 8 Punti 9 1/3 del Braccio milanese, o millimetri 435,1850. Ora, il Piede agrimensorio nostro si avvicina talmente al milanese, che possiamo esser certi, che, sebbene nei nostri documenti, per quello che riguarda le misure superficiali dei terreni, non ci siamo mai abbattuti nel nome di Piede di Liutprando, tuttavia ambedue devono avere avuta un’unica ed identica origine. Il Cristiani dà al nostro Piede agrimensorio la lunghezza di Linee parigine 193,3 (o. c. p. 22) o millimetri 436,052, e che di poco siasi discostato dal vero, lo dimostra il Ragguaglio della Commissione del 1801 che gli attribuisce millimetri 437,76718 (Istruz. cit. p. 112; Tavole di Ragguaglio ecc. p. 336).

§ 4. Il Giulini ha acutamenteFonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 intravveduta la origine del Piede di Liutprando. Egli scrive (1 p. 207): Siccome ciascuno di questi Piedi equivale ad Once otto e tre quarti del Braccio milanese, così la pertica equivale ad otto braccia ed once nove. Avvertasi però che il mentovato piede non è il comune, perchè il piede comune è qualche cosa [p. 172 modifica] meno di once sei, e il piede delle pertiche è precisamente un piede e mezzo dei comuni. (2 p. 425 seg.) I piedi di cui vengono composte le pertiche, sono adunque i piedi di Liutprando, e infatti sono diversi dai piedi comuni, due dei quali formano quasi un braccio ordinario milanese, onde ciascun piede equivale circa ad once sei di quella misura divisa in dodici once. All’incontro i piedi delle pertiche, ossia i piedi di Liutprando, sono lo stesso che il Sesquipes dei Latini, vale a dire un piede e mezzo de’ comuni. Questa testimonianza è importantissima per più rispetti. E primamente ci fa conoscere la esistenza in Milano dell’antico Piede romano durato fino al secolo scorso col valore, come si ricava dalle comparazioni del Giulini, di millimetri 290,123, quindi inferiore al valore normale del Piede romano che era di millimetri 295,74 (Hultsch, Metrol. p. 75 seg.). In secondo luogo vediamo che il Piede di Liutprando non è che il Cubitus del Piede romano; infatti esso formava un piede e mezzo de’ comuni di Milano, la origine dei quali non può essere in alcun modo posta in dubbio; da ultimo vediamo che il Braccio di Milano è composto di due Piedi romani, il cui valore fu di alcun poco alterato. Questo è tanto vero, che la tradizione e dell’origine del Piede liprando e di quella del Braccio si mantenne fino alla più tarda età, perchè, quando gli Statuti volevano, che quel Piede fosse composto di nove once del Braccio, implicitamente ammettevano, che quest’ultimo fosse composto di due Piedi comuni, e che il liprando non fosse che il cubito di uno di questi Piedi comuni. Ed invero, che questi così detti legittimi Piedi agrari formatisi nelle età di mezzo, non fossero che il cubitus di un Piede lo[p. 173 modifica]cale sopravvissuto agli spaventosi sconvolgimenti che colpirono la nostra penisola, o di un Piede introdottosi colla forestiera conquista, oltre i numerosissimi esempi pervenuti fino a noi, lo prova la significante espressione, non solo della già citata Cronaca della Novalesa, ma anche di quella di Farfa, ove leggiamo: res ad Modia XXII per unumquodque Modium habentia in longitudine Cannas XX et in latitudine in omni loco cannas X ad cannam pedum X legitimi cubitalis (Chron. Farf. in Rer. Ital. Ser. 2, 2 col. 513), il quale pes legitimus cubitalis in altri luoghi di questa Cronaca è detto anche pes publicus (ibid. col. 401). Se tale è adunque la base delle misure agrarie stabilite da re Liutprando, resterà sempre insolubile la questione, di determinare, cioè, quale fosse il valore del Piede romano a’ suoi dì. Questo, durante l’impero, soffrì un rimpicciolimento, poichè Raper, che ne ha dato il più ragionevole ed il più accettabile valore, scrive: Appare dalle misure di questi edifici che il piede romano prima del regno di Tito non fu inferiore a 970 parti su mille del piede di Londra, e nel regno di Severo e di Diocleziano rimase al di sotto di 965 parti (Philosophical transactions 1760 p. 820 in Hultsch, Metrol. p. 75 Nota 12). Siccome, stando a questi risultati, il valore più grosso del piede romano non sarebbe stato inferiore a millimetri 295,74, così, tenendo per base il rapporto dato dallo stesso Raper tra il Piede di Parigi e quello di Londra come 10654:10000 (ibid. p: 778. Hultsch, a. l. c.), che è pur il rapporto ammesso da Paucion (Metrol. p. 65) e che di poco si scosta da quello stabilito dall’Accademia di Parigi (Cristiani, Misure ecc. p. 19), si deve ammettete che il Piede [p. 174 modifica] romano sotto Diocleziano non sarà stato superiore a millimetri 294,21, il Cubitus (da cui derivò il Piede stabilito da re Liutprando) a millimetri 441,32. Ma fino a qual punto abbia continuato questo progressivo rimpicciolimento dell’antico Piede, noi non sappiamo: a Carrara lo troviamo di millimetri 293,34 (Malavasi, Metrol. ital. p. 77; Saigey, Metrol. p. 178), a Milano in base al valore del Piede liprando sarebbe decaduto a millimetri 290,12, nella nostra città, sulla stessa base, a millimetri 291,84. Di qui si scorge agevolmente come il valore del Braccio milanese dalla sua origine abbia subito qualche alterazione, e come quindi, dando esso un Piede romano di millimetri 297,47, non possa in niuna guisa rispondere a quel rapporto che, in forza di una secolare consuetudine, era stato stabilito dagli Statuti di Milano fra esso ed il Piede aliprando. — Ma se noi non possiamo determinare l’esatto valore fin nelle più minute frazioni del Piede che fu dal re Langobardo posto per base alle misure dei terreni, non mancano però altri argomenti che rinfranchino la opinione emessa dal Giulini. Il Cronista della Novalesa, come vedemmo (v. sopra § 1), naturalmente seguendo la strana leggenda, non seppe meglio indicare la lunghezza del Piede affibbiato a Liutprando, che paragonandolo ad un cubilus: tante longitudinis fertur habuisse pedes ut ad cubitum humanum metirentur; più ancora la lezione stessa della Cronaca dimostra dove siasi conservato meglio questo piede creato da’ Langobardi. Nella lezione pubblicata da Du Cange con alcune scorrezioni (s. v. Pertica) vi ha: ita ut pedes ejus in pertica fune duodecim fiat tabula; il testo muratoriano, da noi già [p. 175 modifica] recato (§ 1) ha: ita ut pedes ejus in pertica vel fune quatuordecim faciant Tabulam. Quest’ultima, oltre a tutto il resto, è anche la più storica, perchè ci dimostra che l’alterazione del Piede liprando nella parte occidentale dell’Italia Superiore era già avvenuta. Il Cronista uguaglia quel Piede al cubito umano: ora, il Piede liprando di Torino, anteriore s’intende alla riforma del 1816, corrispondeva a millimetri 513,766 (Malavasi, Metr. ital. p. 255), che è talmente superiore al cubito romano (ed anche al greco), che non si può comprendere come abbia potuto entrare nella riforma di Liutprando. Ma se noi ammettiamo che quattordici, invece di dodici, de’ Piedi da lui creati entrassero a formare quella pertica lineare, la quale dovea essere a maggior conoscenza del cronista, vediamo uscirne un meraviglioso ravvicinamento. Prendendo quattordici cubiti romani da millimetri 441,32, come al massimo erano all’epoca della decadenza dell’impero sotto Diocleziano, veniamo ad avere per la lunghezza della pertica metri 6,18: se prendiamo dodici piedi liprandi di Torino, che formavano la pertica o doppio trabucco, veniamo ad avere metri 6,17; il piede liprando nelle provincie occidentali dalla sua origine era stato aumentato di un sesto, ed ecco perchè il Cronista, giustamente ponendo a confronto col Cubitus il vero Piede creato da Liutprando, notò che di questi ve ne volevano 14 per compiere la fune o pertica, colla quale a’ suoi dì si misuravano i terreni. In altri termini, il Cronista non vuol già dire di quanti Piedi era composta la fune o pertica agrimensoria, cosa troppo nota perch’egli avesse a ripeterla, ma sibbene quanti di questi enor[p. 176 modifica]mi piedi, che, secondo lui, riproducevano quello di re Liutprando, entrassero a formare quella pertica, che si usava a misurare le terre a’ piedi delle Alpi. Una tale coincidenza, che non può essere fortuita perchè suffragata da quella antica testimonianza, conferma pienamente ciò che abbiamo ammesso, cioè che Milano, ed insieme ad essa la nostra città, abbiano conservato nelle loro misure superficiali dei terreni la più schietta impronta della riforma di Liutprando. Un’altra riprova dell’esatto modo, col quale il Giulini ha concepito la origine del Piede di Liutprando, si ricava dai documenti medievali che ci indicano con quale mezzo si calcolasse il valore della pertica. In un atto di vendita del 843 leggiamo: ad pertica legitima de pedes XII ad extensis brachiis mensurata (Hist. P. M. 13 col. 263, 1297; v. anche Ughelli, Ital. sacr. 3 p. 289; 5 p. 659; 7 p. 1442; 9 p. 121). Ora, se, come non vi ha dubbio, il Piede di Liutprando era fondato sull’antico cubito romano, è evidente che nella pertica di dodici di questi Piedi doveano entrare appunto diciotto Piedi romani. Ed invero, tanto i greci la loro orgyia, quanto i Romani, con uno speciale significato (v. sotto § 10Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256), la loro ulna da 6 piedi ragguagliarono allo spazio che intercede fra le estremità delle braccia distese da ambe le parti del corpo umano (Hultsch, Metrol. p. 30, 63 seg.). Negli Excerpta ex Isidoro, in cui fra le notizie dell’antica metrologia, troviamo trammiste anche notizie, che non possono riferirsi che all’epoca in cui furono compilati, abbiamo: alii autem voluerunt, ut pertica XL et VIII palmorum esset quae pertica ad manus XII pedes habet, quod per extensionem [p. 177 modifica] brachiorum verius esse demonstratur (Metr. Script. 2, p. 136, 17 seg). Qui abbiamo ancora indicato il valore dell’antico Piede romano, ma non v’ha chi non vegga quanto questo mezzo di determinare la lunghezza di quella pertica potesse ugualmente adattarsi anche a stabilire la pertica di Liutprando. Dal momento che si era ritenuta uguale a 6 Piedi la estensione delle braccia, è chiaro che nel primo caso bastava prendere due volte quella estensione, nel secondo tre volte per avere il valore della pertica rispettiva, sicchè, quando vediamo, durante il predominio del sistema di Liutprando, fondato il valore della pertica sulle braccia distese, parci si debba ritenere senz’altro, che la canna ad esse ragguagliata rappresentasse precisamente un terzo della pertica stessa. Se il Piede di Liutprando avesse avuto il valore a un bel circa di quei Piedi, che anche oggidì conservano lo stesso nome in altri contadi, la misura fondata sulla extensio brachiorum riuscirebbe per lo meno inintelligibile. — Appoggiati a queste considerazioni, nella Tavola IV.ª A. B. daremo il ragguaglio delle misure lineari dei terreni in base al valore trovato pel nostro Piede agrimensorio dalla Commissione del 1801 in millimetri 437,76712, valore, che dandoci pel Piede romano, pervenuto indirettamente fino a noi, millimetri 291,845, lo possiamo ritenere come quasi inalterato dalla sua origine, che risale all’epoca langobarda.

§ 5. Intimamente congiunto, secondo noi, colla Pertica agrimensoria, o meglio, colla sua metà, il Capitium, è il Brachium così detto da legname e da fabbrica. Probabilmente esso è coevo alla determinazione del Capitium Comunis Pergami come metà della [p. 178 modifica] antica Pertica lineare, e in pari tempo come unità di misura dei terreni: e ciò può essere avvenuto nel secolo undecimo, quando stabilmente si determinò il valore anche delle misure di capacità, malgrado che il nome di Brachium, come misura da fabbrica, non ci compaia nei nostri documenti che verso la prima metà del secolo decimoterzo. A quel modo che a Modena, prendendo la quinta parte della Pertica agrimensoria si formò il Braccio di quella città (Malavasi, Metrol. Ital. p. 269), così devesi aver fatto anche da noi, e questo non diciamo già per semplice analogia, ma perchè crediamo che, e la tradizione, e i nostri documenti non permettano altra interpretazione più ovvia di questo fatto. In una carta inedita del 1220 troviamo: unam domum — altam de supra terra octo brachia (Pergam. in Bibl. n. 435), e che qui si debba intendere il così detto Braccio da fabbrica, apparirà chiaro quando vedremo il Braccio da panno chiamarsi a quest’epoca con altro nome (v. sotto § 7). La corrispondenza fra il Cavezzo ed il Braccio da fabbrica la troviamo indirettamente indicata nei seguenti documenti. In una sentenza data nel 1237 a favore di quei di Levate, che volevano fortificare le loro abitazioni, si fa obbligo ad essi di cingere anche le abitazioni di proprietà dei Canonici di S. Alessandro con una fossa che sia lunga tre braccia e mezzo ed anche più, ed alta mezzo Cavezzo (Ronchetti, Mem. stor. 4 p. 64). Parrebbe che a tutta ragione qui avremmo potuto attenderci di vedere indicata la larghezza di quella fossa in Piedi, dal momento che anche l’altezza fu prescritta mediante il Cavezzo. Ma è evidente che questa misura colle sue suddivisioni [p. 179 modifica] in Piedi ed Once si impiegava soltanto negli usi agrimensorii, perchè troviamo nello Statuto del 1353: quod canale amplietur per medium brachium (16 § 59); quod fiat unum cornixium per capicia tria ad traversum stratam de supra. Alterum cornicium situm super dictam stratam de subtus Crosetam per septem Capizia quod curnixium sit amplum per unum brachium (§ 62); unum pontem cum volta amplum per brachia duo. — fiat unus murus colaterallis dicto ponti altus per brachia tria et spanam unam et qui murus supra terram sit grossus brachium unum et altus per brachia tria (§ 63); que fossata sint ampla in summitate brachia duo cum dimidio, et in medio brachia duo et in fundo brachium unum et sint alta brachia tria. Et debeant facere pontes lapideos altos a fundo dictorum fossatorum per brachia duo cum dimidio sub pena librarum trium imper. pro quolibet capitio (§ 73). Ma quella, che rafferma la nostra congettura, è la seguente disposizione dello stesso Statuto (3 § 16), che si trova ripetuta in tutti i susseguenti: Quod passus lignorum sit et esse debeat quinque brachia in altum et trium et medium in latitudine. — Et quod nullus venditor vel revenditor lignorum debeat habere vel tenere nisi passum et mensuram iustam. Et quodlibet ipsorum capiciorum sit iustum ferratum et bullatum et de uno mensuretur in longitudine et de alio in altitudine. Qui risulta chiaro come nel Cavezzo fossero contenute cinque braccia da legname, e nello stesso tempo si rende aperto come questa misura si chiamasse anche Passus. Colla divisione della Pertica agrimensoria stabilita da Liutprando, in 10, anzichè in 12 piedi, questa veniva a corrispondere, se non pel valore, per la sua partizione alla decempeda o pertica [p. 180 modifica] romana. Ora, gli antichi metrologi aveano lasciato scritto: Pertica passus duo id est decem pedes (Isidor. Etym. 15, 15. 6); duo vero passus decempedam perticam faciunt (Excerpt. ex Isid. in Metr. Scr. 2 p. 136, 17), per il che si comprende agevolmente come, per distinguere almeno di nome il Cavezzo con cui si misurava il legname, e che portava differenti divisioni, da quello con cui si misuravano i terreni, si usasse il nome di Passus. Ne viene quindi che, come ci fa notare il prof. Tiraboschi, quando nello Statuto di Vertova troviamo ligna a passo, si debbano intendere legne da misurarsi col passo, ed in generale, come pare a noi, legne che si ponevano in commercio a misura e non a peso; il qual costume di calcolare la entità delle cataste, acconciamente disposte per la misura e dette Schene, come nel nostro Statuto del 1353 (3 § 16), durò sul Milanese per lo meno fino al principio del presente secolo (Guerrino, Euclide in Camp. p. 336). A quella guisa però, che vedemmo il Braccio di Milano, sebbene formato da due Piedi, avere coll’andare dei secoli aumentato il suo valore, e come il Braccio di Modena, sebbene dovesse essere la quinta parte della pertica agrimensoria, tuttavia fu trovato oggidì di alcun poco superiore al suo valore legale (v. sopra § 3), così dev’essere successo pel nostro Braccio da fabbrica: una volta che venne a formare quasi una unità indipendente negli usi giornalieri (poichè è impossibile supporre che, meno rare eccezioni, coloro a’ quali abbisognava quotidianamente questa misura, siensi adattati a portare attorno la lunga canna da cinque di queste braccia) persistette nella consuetudine e nella legislazione [p. 181 modifica] bensì a considerarlo come la quinta parte del Cavezzo, sebbene effettivamente non lo fosse più. Collo andare del tempo la lieve differenza, che esisteva fra questo Braccio e la quinta parte del Cavezzo, deve esser stata riconosciuta, perchè nello Statuto del 1491 troviamo ordinato (7 cap. 189): item quod capitio mensurae terrae non possit nec debeat uti ad mensurandum aliquid aliud, praeterquam ad mensurandum terram. La Commissione del 1801 ragguagliò questo Braccio a millimetri 534,414 (Istruzione ecc. p. 109; Tavole di Ragg. ecc. p. 10), valore che corrisponde quasi esattamente a quello del piccolo incavo terminato alle estremità da due aggetti di ferro, e che si vede in fianco alla porta settentrionale di S. Maria sotto all’esemplare del Cavezzo agrimensorio. La quinta parte di quest’ultima misura darebbe invece millimetri 525,320; la differenza per rispetto al Braccio da fabbrica è di poco più di sei millimetri, ma diventa molto più sensibile pel valore del Cavezzo, e più poi per le misure superficiali del terreno. Nei ragguagli della Tavola IV.ª C noi teniamo per base il valore trovato dalla Commissione del 1801, perchè il campione di questo Braccio scolpito nella Chiesa di S. Maria ci persuade che la lieve divergenza deve risalire a parecchi secoli addietro. Il Piede romano poi, in base al nostro braccio darebbe millimetri 295,23; risulta troppo precisa e che non possiamo accettare, attesi i varii esempi che possediamo sul decaduto valore di questa misura durante lo stesso impero.

§ 6. Abbiamo detto che anche la tradizione conferma la divisione decimale della Pertica agrimenso[p. 182 modifica] ria, o quinaria del Cavezzo. Infatti, dacchè da oltre due generazioni questa misura non è più impiegata negli usi agrimensorii, e il vero Cavezzo agrimensorio andò, si può dire, perduto, si continua dal nostro popolo a considerare questo come formato da cinque Braccia di fabbrica, il che viene ad attribuirgli un valore di metri 2.657,07, superiore al vero. Inoltre nel nostro contado abbiamo potuto trovar traccia di un metodo di determinare la base delle misure agrarie, che ammette e la divisione quinaria del Cavezzo, e in pari tempo il cubito umano come sua base principale. Si prende la lunghezza del cubito di un uomo di media statura che tenga la mano distesa, ed alla sommità del medio si aggiungono due dita traversali. Secondo una pratica, che deve risalire a queste epoche remote, cinque di questi cubiti colle due dita danno il Cavezzo o mezza pertica lineare. Se il rustico agrimensore è più o meno alto di statura, riduce ad uno o porta a quattro le dita traversali aggiunte al cubito, e così su questa base costruisce la canna colla quale procede nelle sue operazioni. Abbiamo voluto tener conto di questo particolare, e a conferma delle cose premesse, e perchè si vegga che non è solo alle origini che le nostre misure presero norma dalle parti del corpo umano, ma sibbene che anche in epoche più avanzate fu forse questo uno degli unici mezzi con cui talune di esse pervennero fino a noi. Il metodo che ora abbiamo spiegato è tuttavia troppo indeterminato, perchè il lettore possa attendersi anche solo un ragguaglio approssimativo. — Quanto alle suddivisioni di questo Braccio da legname e da fabbrica i documenti ci [p. 183 modifica] danno fino dal 1237 il mezzo Braccio (Ronchetti, 4 p. 64). Questo computo, com’era naturale, continuò anche nei secoli seguenti: quindi nello Statuto del 1353 (16 §§ 70, 72, 73) abbiamo: facere alzari pontem curnixii per medium brachium. — que fossata sint ampla in summitate brachia duo cum dimidio. — pontes lapideos altos a fundo dictorum fossatorum per brachia duo cum dimidio. — unum brachium cum dimidio. E come il Braccio da panno, coerentemente alla sua origine (v. sotto §§ 8, 10) era diviso in quattro parti, dette più anticamente Somessi, poi Quarte o Quarterii, così questo Braccio da fabbrica era diviso in quattro Spane, e questa partizione durò fino a noi. Quindi ancora nello Statuto del 1353 (3 § 16) troviamo: et quod quelibet schena ipsorum lignorum sit et esse debeat de duobus brachiis et spana; altrove (16 § 63): fiat unus murus — altus per brachia tria et spanam unam. Nello Statuto del 1491 (7 § 1) la Spanna è anche chiamata Quarta in questa disposizione che è importante perchè dimostra la stretta connessione fra il Cavezzo ed il Braccio da fabbrica, e in pari tempo ci attesta l’uso di conteggiare a mezza Spanna o mezza Quarta: nec ponere nec aedificare discos — vel impedientia ipsas stratas — extra domos habitationum suarum vel stationum ultra unam quartam cum dimidia ad mensuram Capitii Comunis Bergami. E sebbene non ne abbiamo più antiche testimonianze, tuttavia non vi può esser dubbio che fino dai più antichi tempi anche questo Braccio non fosse diviso per lo meno in Once, poichè, sebbene usato per muri o legnami, tuttavia in moltissimi casi sarà occorso ricorrere anche a più minute suddivisioni che non fossero la [p. 184 modifica] Spanna o la sua metà. Quindi nello stesso Statuto del 1491 troviamo (7 § 185): quod quilibet fornaxarius debeat facere coppos longitudinis brachii unius ad brachium muri: et latitudinis in summitate angustiori, sive strictiori quarti unius brachii a muro: et grossitudinis mediae unciae in cuspide, et in lateribus duarum partium ex quinque partibus unciae a muro. Et quod ipsa maior latitudo sit unciarum quatuor a muro. (§ 486): item quod lateres sint longitudinis medi brachii, et grossitudinis octavae partis unius brachii, videlicet unciae unius et mediae. Da questi due brani, nei quali troviamo rappresentato il braccio con (tutte le sue suddivisioni, si scorge che la partizione duodecimale dell’oncia in 12 Punti nella pratica non si usava guari, perchè vediamo il computo portato fino alla mezza oncia, ed al di sotto di questa, fino alle quinte parti della stessa. Ecco ora il prospetto delle divisioni del Cavezzo da legname quali risultano dai nostri documenti, trascurando per maggiore semplicità le suddivisioni dell’oncia oltre la sua metà:


Capitium 1
Brachium 5 1
1/2 Brachium 10 2 1
Spana (Quarta) 20 4 2 1
1/2 Spana (1/2 Quarta) 40 8 4 2 1
Uncia 60 12 6 3 1 ½ 1
1/2 Uncia 120 24 12 6 0 ¾ 0 ½


§ 7. Nei più antichi documenti del nostro, come dei contadi vicini, il Braccio da panno e da tela è detto Passus. Negli Statuti di Vercelli del secolo de[p. 185 modifica] cimoterzo, sotto l’anno 1242, troviamo ordinato: quod Potestas eligi faciat duos homines qui debeant super esse inquisitioni — passorum (§ 449 in H. P. Mon. 16, 2 col. 1139); negli Statuti di Brescia della stessa epoca vi ha: item quod omnes drapi lane vendantur et emantur maiori passo consueto (poichè, a quello che si vede, esisteva un altro passus di minor valore), et quod tantum unus passus sit, scilicet unius mensure qui ferratus sit ab utroque capite, et si quis contrafecerit vel apud aliquam personam inventus fuerit passus maioris quantitatis cet. (H. P. Mon. 16, 2 col. 1584, 119; Stat. 1313, 2 § 98 ibid. col. 1675); negli Statuti del 1313 della stessa città si legge: mensurent cum passo posito per medium panni (4 § 80 ibid. col. 1824). Il Passus è adunque il Braccio col quale si misura il panno, e questa induzione risulta non meno evidente dal nostro Statuto più vecchio, ove è detto (13 § 7): item statuimus ut Consules mercatorum debeant habere curam amuelandi passos sine honere Comunis, più ancora da una aggiunta fatta allo stesso Statuto nel 1259 (ibid. 13 § 8), dove nell’interesse dei compratori è prescritto: quod mensura panni fiat super dischis super quibus ponatur ipse pannus distensus. Et in capite cuiuslibet Passi possit poni digitus grossus in transversum. Queste due ordinanze si trovano mantenute nei secoli posteriori (p. e. Stat. an. 1331, 13 § 6; Stat. an. 1422, 1 § 87 ecc.); nella tariffa dei verificatori dei pesi e misure inserita nello Statuto del 1353 sono stabiliti tre denari per quolibet Passo (8 § 146), e il nome di passo è ancora conservato nelle tariffe del 1581 e del 1613 (Calvi, Effem. 1 p. 39, 224 seg.). Però nella prima metà del secolo decimoquarto, di [p. 186 modifica] fianco a questo nome, nella nostra legislazione si incomincia ad usare anche quello di Brachium. Infatti nelle leggi suntuarie dello Statuto del 1331 è ordinato (8 § 6) che alcuno non debba nec portare nec deferre pannum pretii vel valoris ultra solidos quatraginta pro brachio nisi sint milites vel usores militum; nello Statuto del 1353 vi ha (8 § 34): quod nulla pecia panni bergamaschi possit tirari ultra brachia quinquaginta, et si sit dimidia — ultra brachia vigintiquinque; nello Statuto del 1430, dove si parla del prezzo da attribuirsi al lavoro delle tele di lino e di stoppa, si usa sempre (1 fol. 15) de brachiis quindecim, de brachiis sedecim: inoltre, nello Statuto dei Dazii del 1431 (per non discostarci da quest’epoca) abbiamo: panni bergamaschi ultra brachia novem (fol. 26 v.); da ultimo nello Statuto dei mercanti del 1457 (§ 71, mss. nella civ. Bibl.) troviamo: item quod consules dicti paratici mercatorum teneantur et debeant circare et temptare passos et mensuras civitatis et districtus Pergami si sunt falsi et false. — et illum passum seu mensuram frangere debeant, e nella tariffa dei Bollatori stabilita nel 1613 sì fanno sinonimi passo o braccio (Calvi Eff. 1 p. 224 seg.). Queste citazioni permettono adunque di affermare che la stessa cosa sono il passus ed il brachium quando si rapportano alle misure del panno e della tela, e che in questa, non in altra guisa, vanno interpretati i nostri documenti, quando usano indistintamente l’uno e l’altro nome.

§ 8. Come si suddividesse il Passus, possiamo argomentarlo dal confronto fra lo Statuto più vecchio ed i susseguenti. In quello troviamo ordinato (13 § 40): quod quodlibet pectinum de panno lini et de stoppa sit [p. 187 modifica] et esse debeat ad unam mensuram et de una latitudine — que latitudo debet esse de quinque Somessis et medio (v. anche Stat. an. 1331, 8 § 68). Che pel Somesso si intendesse la quarta parte del Braccio, lo indicano apertamente, e il nome che fu ad esso sostituito dagli Statuti posteriori, e altri argomenti che addurremo più sotto (§ 10). Così nello Statuto del 1353 vi ha (8 § 26): et quod non debeant fieri panni in civitate nec in burgis nec in districtu Pergami qui ad minus non sint ampli in latitudine per quinque quartas ud passum Comunis Pergami sub pena soldorum quinque imper. pro quolibet brachio panni, e qui vediamo nella stessa ordinanza usarsi insieme passus e brachium; il che era necessario a farsi, poichè a quest’epoca le denominazioni di Brachium e Quarta usandosi indistintamente tanto per la misura dei tessuti, quanto per quella detta da fabbrica o da legname (v. sopra § 6), la legislazione, a togliere ogni equivoco, preferì l’antico nome: in altri termini, sarebbe come ora si ordinasse, che il panno di nostra fabbrica non dovesse esser largo più di cinque quarte del braccio da panno (chè, altro significato speciale qui non può avere il nome di passus) sotto la pena di un tanto per ogni Braccio. Questa distinzione poi poteva essere tanto più richiesta dalle circostanze, in quanto che, sebbene solo nel 1567 siasi preso un provvedimento, tuttavia sembra che i nostri mercanti non si facessero lontani dall’introdurre l’uso del Braccio milanese nei loro negozii, ed abolito questo, dal ricorrere a quello da fabbrica per lo meno per misurare la seta (Calvi, Effemer. 2 p. 334, 366). Ma ritorniamo alle nostre ricerche. Nello Statuto del 1391 (1 § 81) vi ha: quos [p. 188 modifica] etiam pannos dictorum, colorum tirari non possint in altum ultra quartas quinque; nello Statuto del 1430, parlando dei lavori di tela (1 fol 15 r. e v.) de qualibet tuvalia ladina et de brachio uno et que sit alta quarteriorum quinque; dal che si vede che quarta e quarterius corrispondono alle divisioni del braccio, come ne’ tempi più antichi si usava il somesso ad indicare la stessa divisione pel passo. E se il somesso indica ancora lo spazio formato dal pugno col dito grosso rialzato (Tiraboschi, Vocabolario s. v. Sömes), è evidente che nel passo non potevano entrare, nè più, nè meno di quattro Somessi, al modo stesso che il Braccio, per quella tendenza a sostituire nomi nuovi e volgari agli antichi nomi, si tenne partito in quattro quarte (ulteriori schiarimenti saranno dati più sotto al § 10). Se oltre di queste, la consuetudine si servisse anche di altre suddivisioni, a noi non è dato saperlo dai nostri documenti. Si può ritenere tuttavia che si sarà calcolato anche a mezzo braccio, come, per quello da fabbrica, troviamo un esempio fino dal 1237 (Ronchetti, Mem. stor. 4 p. 64), e che le espressioni medius Passus . medium Brachium saranno state tanto frequenti allora, come lo erano pochi anni fa. Pei bisogni giornalieri del commercio la frazione di mezzo Somesso o mezza Quarta sarà stata più che sufficiente per rispondere alle necessità tutte di coloro, che ne facevano uso; non è tuttavia improbabile, che, fino dai più antichi tempi, questo passus si tenesse, per così esprimerci, teoricamente diviso, al pari delle misure agrarie, in 12 Once, 144 Punti o 1728 Atomi, come venne calcolato fino ad oggidì: non ci ricorda però di aver veduto alcun campione, che portasse [p. 189 modifica] altre partizioni, le quali non fossero la quarta o la mezza quarta. Ed infatti anche nello Statuto dei mercanti del 1457 non troviamo indicazioni, che vadano più in là di queste frazioni, poichè vi leggiamo: nisi dicta pecia panni et dictus cavezolus sint brachia duo et quarta una; quod quelibet pecia fustani sit alta ad minus quartas tres et media (Stat. mercatand. mercat. Perg. §§ 65, 73). — Quanto alle riduzioni di questo Braccio in misura metrica, noi me possediamo due, l’una indiretta, l’altra diretta. La prima è quella del Cristiani (delle Mis. ant. e mod. p. 26), il quale attribuisce al nostro Braccio, da lui detto Alla, la lunghezza di Linee parigine 291, le quali corrisponderebbero a millimetri 656,446. La seconda è quella della Commissione governativa della Repubblica italiana, la quale ne diede un maggior valore, cioè in millimetri 659,319 (Tav. di Ragg. p. 10; Istruzione ecc. p. 109), che corrisponderebbero a Linee parigine 292,27. Quantunque la differenza non giunga a 3 millimetri, tuttavia dobbiamo accettare come valore più approssimativo quello della Commissione del 1801. Il Cristiani faceva i suoi confronti su campioni di Piedi di Parigi e con Compassi di proporzione, che erano in commercio, i quali quindi, per quanto esattamente costrutti, non potevano rispondere alle più strette esigenze della scienza; i campioni invece del Braccio di Milano e della Tesa di Parigi, usati da quella Commissione, sotto un tale rispetto, non potevano soffrire eccezioni di sorta (Istruz. cit. p. 43). Abbiamo poi accettato come valore il più approssimativo, e non altro, anche quello della Commissione, perchè l’Oriani, parlando delle divergenze che si tro[p. 190 modifica] varono sempre fra due o tre campioni ufficiali di una stessa misura, e notando come per gli usi giornalieri del commercio basti servirsi delle tre prime cifre decimali, trascurando le altre come insensibili, cita a questo riguardo appunto il nostro Braccio (Istruz. ecc. p. 92 seg.). Siccome però la diligenza usata in questa operazione fu estrema (Tav. di Ragg. ecc., Pref. p. IV; Istruz. ecc. p. 92), così terremo conto anche delle ultime tre cifre, notando che in qualunque modo noi possiamo contare di avere il valore del nostro Braccio da due fonti affatto diverse con una divergenza, che potremmo tenere quasi per trascurabile, trattandosi di rapportare i nostri computi ad epoche più remote.

§ 9. Ora dobbiamo parlare di un’altra maggiore misura, la quale, come vedremo tosto, si riattacca col nostro Passus o Brachium. I tessitori del panno e della tela aveano una speciale misura detta Paries, ed anche oggidì Parét, (Tiraboschi, Vocabol. s. v. Parét). Forse questa era anche anticamente una misura agraria, che pare non abbia potuto pigliar piede pel prevalente predominio del sistema di Liutprando; ed infatti, in un documento di locazione di fondi su quel di Brescia scritto nel 897, e che sgraziatamente in questo punto è corroso, si legge: Marsalias tres in iugas octo parietes... (H. P. Mon. 13 col. 620 d), dove la parola parietes, susseguita con tutta verisimiglianza da un numero, parrebbe indicare una suddivisione dello jugum od jugerum. Nel nostro Statuto più vecchio troviamo menzione di questa misura in quattro distinti luoghi: primamente dove è stabilito che nessuno: emat nec vendat pannum ad parietem (10 § 17), [p. 191 modifica] e ciò evidentemente perchè non si riducessero a nulla le guarentigie introdotte dalla consuetudine, e sancite dalla legislazione, nella misura del panno mediante il passus (Stat. an, 1204-48, 13 § 8. v. sopra § 7 p. 185): poi dove si ordina ut nequis Textor ordeat nec texeat aliquam telam pergamensem que sit ultra sedecim parietes (13 § 37): indi ove è stabilito ut omnes parietes Civitatis et Virtutis Pergami debeant amuelari hinc ad calendas Aprilis ad parietem antiquam que est super rezzios eccl. s. Marie Maioris si non sunt facte seu amuelate (ibid. § 39): da ultimo dove, prescrivendosi la lunghezza del pettine della tela, si vuole che venga scolpito in muro ecclesie S. Marie Maioris prope parietem Texiorum signatam in ipso muro (ibid. § 40; Stat. an. 1353, 8 § 25). Questa misura scomparve insieme a molte altre da quel muro, sicchè non è lasciato aperto il campo che alla induzione. Il Tiraboschi nel pregiato suo Vocabolario dei Dialetti Bergamaschi (s. v. Parét) dice che questa misura ha la lunghezza di dieci braccia da panno, ma ciò non può essere perchè nello Statuto del 1353 troviamo ordinato (8 § 34): quelibet pecia panni bergamaschi sit de octo parietibus si sit integra et de quatuor si sit dimidia. — Et quod nulla pecia panni bergamaschi de parietibus octo possit tirari ultra brachia quinquaginta, et quod nulla pecia panni bergamaschi de parietibus quattuor possit tirari ultra brachia vigintiquinque. Se la Parete avesse avuto dieci braccia di lunghezza, diventerebbe inintelligibile questo Statuto, perchè la pezza intera del nostro panno, senza bisogno di essere tirata, avrebbe già avuto la lunghezza di ottanta Braccia; è miglior consiglio il ritenere che la Parete corrispondesse alla [p. 192 modifica] lunghezza di 6 Braccia (v. sotto § 10): in tal caso, essendo stato stabilito in millimetri 659,319 il valore del Braccio (v. sopra § 8), la Parete avrà corrisposto a metri 3,955,91. — Rispetto poi alla tela, oltre alla Parete, si era introdotto l’uso di conteggiare a Cavezzi, i quali, attesa la loro lunghezza, non possono essere considerati come una misura effettiva. Nello Statuto del 1430 è stabilita la tariffa dei tessitori di panno di lino e di stoppa in questi termini (1 fol. 27): Primo de quolibet Capitio panni lini et stupetexti, in petheno, quod sit in septem vel septem et media, et quod Capicium sit de brachiis quindecim, soldos septem imp. — Item de quolibet Capitio panni lini tantum texuto in pecteno de septem vel septem et media ut supra, et quod sit de brachiis sedecim, soldos octo imp. — Item de qualibet pecia panni lini texuti in pecteno de octo vel supra, et quod sit de brachiis sedecim pro Capitio, soldos duodecim. Come si vede, qui il Cavezzo era una misura di conto, fondata sul Braccio da panno, la cui lunghezza variava da metri 9,89 a metri 10,55. E a questi speciali modi di misura basti aver accennato.

§ 10. Se noi consideriamo il valore del nostro Braccio, che di tanto si scosta da quello delle misure di lunghezza dell’epoca romana fino ad ora conosciute, dobbiamo credere con molta verisimiglianza che possa essere una importazione della conquista franca. Tenuto calcolo delle alterazioni alle quali queste misure andarono soggette attraverso a tanti secoli, noi non esitiamo un momento a ritenere questo Braccio come il doppio del Piede di Carlo Magno, il cui valore fu stabilito in millimetri 324,8394 (Istruzione ecc. p. 42), ma che certamente non è il pri[p. 193 modifica] mitivo (Saigey, Metrol p. 110 seg.), come a nessun conto sì può tenere per tale neppure quello del nostro Braccio. Ora, due di questi Piedi parigini darebbero millimetri 649,68: la differenza di 10 millimetri si può giustificare in troppe guise e con troppi esempi, perchè possa essere di ostacolo ad accettare questi congettura. Ciò che importa stabilire si è, che è antichissimo il costume di calcolare in certe misure sul doppio Piede. Per lo meno ai tempi di Augusto la Ulna, verisimilmente la lunghezza dell’intero braccio, era tenuta come la terza parte dell’all’altezza del corpo umano (Hultsch, Metrol. p. 63), e siccome questa ordinariamente era ragguagliata a sei Piedi (Hultsch, ibid. Nota 9: sotto l’impero pel reclutamento si teneva la media di Piedi 5 Once 10, e più tardi Piedi 5 Once 7, Marquardt, röm. Staatsverw. 2 p. 524), così la Ulna veniva ad indicare una lunghezza di 2 Piedi. Quindi in Virgilio, Egl. 3 v. 104 seg. abbiamo:

Dic, quibus in terris, et eris mihi magnus Apollo,
Tres pateat coeli spatium non amplius ulnas,

dove il Poeta con questo indovinello voleva indicare la tomba del mantovano Celio, e quindi con tres non amplius ulnas la lunghezza dell’umano corpo. E siccome, già il vedemmo (§ 4), si riteneva ugualmente lungo lo spazio che intercede fra l’una e l’altra mano tenendo distese le braccia, così in Ovidio, Metam. 8 v. 748 seguenti troviamo: [p. 194 modifica]

Saepe sub hac Dryades festas duxere choreas,
Saepe etiam manibus nexis ex ordine trunci
Circuiere modum, mensuraque roboris ulnas
Quinque ter implebat.

E vi ha motivo di credere che questa misura del doppio Piede siasi continuata attraverso ai secoli. Già vedemmo (§ 4) che il Braccio di Milano non è che il doppio del Piede romano, ed il rapporto, in cui fino alla più tarda età fu posto col Piede di Liutprando, indica che forse inconsciamente si ripeteva un fatto tramandato di generazione in generazione. A Lucca il Braccio per la seta era pure un doppio Piede romano (Saigey, Métrol. p. 178): a Carrara si conservò quasi esattamente l’antico Piede romano in millimetri 293,34 (Saigey, a. l. c.; Malavasi, Metrol. ital. p. 77), ma nella vicina Massa il Braccio mercantile è pure il doppio di quel Piede con una insignificante alterazione (mill. 296,4, Malavasi p. 89). Questo sistema di fondare le aune mercantili sovra un locale Piede agrario o da fabbrica trova moltissimi esempi nella nostra Metrologia, e se per la mancanza di documenti non possiamo dire se tutti risalgano ad una delle epoche più remote, non è men vero d’altra parte che si debba in questo fatto vedere un sistema tradizionale, che può risalire ai più antichi tempi. Quindi in tutto il Friuli troviamo il Braccio mercantile di millim. 680,98 non essere che il doppio del Piede agrimensorio o da fabbrica da millim. 340,49: a Polcenigo si alterò un poco il valore di questo Piede, che fu trovato di millim. 343,9: [p. 195 modifica]così a Cadore, Aviano, Azzano, Chions, Pordenone il Braccio mercantile è di millim. 695,5, il Piede agrario di millim. 347,7: in tutto il Piceno si usava un Braccio doppio del Piede agrimensorio; a Barchi l’auna sera di millim. 655,8, il Piede di legname di millim. 327,9: a Pilcante, poco discosto da Ala, l’una era di millim. 702,4, l’altro di millim. 351,2, ed esempio notevolissimo è quello di Casale ove il Braccio mercantile di millim. 668,36 non è appunto che il doppio di un antichissimo Piede così detto manuale, il cui valore fu trovato di millim. 334,19Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 (v. le Tavole di Malavasi, Metrol. ital. p. 71-109). Non è adunque una infondata supposizione la nostra, che il Braccio da tela e da panno abbia tratto origine da due Piedi qui introdotti dalla conquista franca, e questo si rafferma anche colla sua divisione in quattro Somessi. Noi teniamo questo nome come una corruzione di un più antico Semis o Semissis, che indicò così la metà della libbra, e dello jugero, come la metà del Piede nella sua divisione duodecimale. Quindi in Catone (R. R. 48) abbiamo: foramina longa pedes tres semissem quadrantem; in Columella (R. R. 3, 13 e 15): campestris locus alte duos pedes et semissem infodiendus est. — non minus allum quam duos pedes et semissem; in Plinio (Nat. hist. 17, 35 § 4): interesse in plantario sesquipedes inter bina semina in latitudinem, in longitudinem semisses (cioè semipedes). E così anche nella età di mezzo, si continuò ad adoperare Semissis non solo, ma ben anco tremissis nel significato di una metà o di un terzo di Piede. In una carta milanese del 781 abbiamo: in longitudinem perticas octo cum pedibus octo cum [p. 196 modifica] tremesse (H. P. M. 13 col. 109); ma quello che conferma perfettamente le nostre induzioni è una carta comasca del 907 nella quale troviamo: Sed tales debeant esse ipsas falces pratoricias, ut unaqueque sit longa pedes legitimos duos manualis ad mediocrem hominem, quod sunt duos pedes semisses quatuor (H. P. Mon. 13 col. 731 a). Questo documento toglie ogni dubbio, perchè dimostra che a quest’epoca era talmente invalso il computo per Semisses, che su di essi venivano ragguagliali anche i Piedi: ed infatti due Piedi sono lo stesso che quattro Semisses (quod sunt duos Pedes Semisses quatuor). A Creto sul Trentino il Passo agrimensorio è di 10 Somessi (Malavasi p. 82) e al pari di quello di Condino (Malavasi p. 81), da cui dipende quella terra, corrisponde a Metri 1,85695. Ogni Somesso è quindi di millimetri 185,7; il piede, o suo doppio, avrebbe dovuto essere di millim. 371,4, e il Braccio mercantile di millim. 742,78. Essendo questo stato trovato di millimetri 744,75 ne conferma la origine dal doppio Piede, e insieme indica che la insignificante divergenza non dipende che dal fatto, che una volta stabilite le due misure, esse coesistettero l’una di fianco all’altra, ma insieme indipendentemente l’una dall’altra. E se osserviamo che nell’antico Passus itinerario da cinque piedi doveano per l’appunto entrare dieci Semisses o Semipedes, non possiamo a meno di ricavare dal Passo di Creto da 10 Somessi una luminosa conferma delle nostre induzioni. Se adunque troviamo anche il nostro Passo o Braccio diviso in quattro metà, è forza ammettere che fosse formato da due intieri, e siccome questi intieri non hanno alcun rapporto colle antiche misu[p. 197 modifica] re romane, così è necessario riattaccarli con quelle, che qui furono introdotte colla dominazione franca. Con questa spiegazione si conferma anche in qual modo la Parete abbia dovuto contenere 6, anzichè 10 Braccia (v. sopra § 9): essa in origine veniva ad essere esattamente una misura da 12 Piedi franchi, od una doppia Tesa di Carlo Magno, e quindi non è a meravigliare se, come vedremo, essendo le misure agrarie fondate sopra il quadrato di una pertica lunga 12 Piedi, potemmo trovare sporadicamente indicata anche colla Parete la superficie di un terreno inferiore allo jugero, precisamente come alla stessa epoca vediamo la estensione dei terreni indicata a jugeri e pertiche quadrate o Tavole. Le suddivisioni quindi di queste misure, quali sono date dai nostri documenti, si veggono nel seguente prospetto:


Paries 1
Passus (Brachium) 6 1
Pes? (1/2 Brachium) 12 2 1
Semissis (Somessus) 24 4 2 1
1/2 Semissis (1/2 Somessus) 48 8 4 2


Il loro ragguaglio in misure attuali, in base ai valori stabiliti più sopra (§§ 8, 9), sarà dato nella Tavola IVª, D.

§ 11. Come dell’ultima delle nostre misure lineari, dobbiamo parlare del Miglio. Esso nei nostri documenti è detto, ora Milliarium o Milliarius (trium milliariorum, Lupi, 2, 1143; ligna que sit nata a decem milliariis prope civitatem, Stat. an. 1204-48, 13, § 34), ora Milliare (trium milliarium, Lupi 2, 315, 1347), [p. 198 modifica] ma pel suo valore abbiamo due versioni differenti. Il Rota (Stor. ant. di Berg. p. 134 seg. Nota 3) scrive: Quanto al miglio Bergamasco, che importa quattromila piedi d’Aliprando, cioè secento sessantasei cavezzi e quattro piedi, viene ad essere alquanto più corto del miglio comune, poichè un grado importa settacinque miglia antiche, sessanta comuni moderne e sessantatrè e mezzo Bergamasche in circa. Senza alcun dubbio qui il Rota attribuì alla nostra città quel miglio Lombardo, che era in uso presso i Periti del censo milanese nel secolo scorso, e che da due secoli si vedeva graficamente rappresentato anche sulle Carte della Lombardia (Istruzione ecc. p. 46). Infatti quel miglio si teneva formato da 3000 Braccia di Milano, e siccome il piede d’Aliprando era ragguagliato a 9 Once di questo Braccio, così ne viene ancora che il miglio conteneva 4000 Piedi d’Aliprando, che è il valore attribuito dal Rota al nostro Miglio (v. sopra § 3). Se si badi che in questo Miglio non entrava neppure un numero esatto di Cavezzi, e insieme di nessun’altra delle nostre misure, è facile scorgere che questa misura itineraria data dal nostro Autore non deve essere sorta fra noi, ma bensì devesi ritenere come una importazione da altri contadi: ed infatti il rapporto fra il Braccio ed il Piede liprando accenna direttamente alla città di Milano. Il signor ing. Angelo Ponzetti, che diede alla nostra Provincia una pregiata Carta Topografica, gentilmente ci comunicò con sua lettera, che il miglio Bergamasco contiene 2500 Braccia da panno. Infatti la Scala grafica riportata sulla sua Carta è basata sovra un tale valore, come sopra un tale valore è fondata an[p. 199 modifica] che la Scala, la quale accompagna la Carta Topografica della nostra Provincia edita nel 1818 dall’Ingegnere Manzini. Che tale dovesse essere il nostro Miglio, si convalida col fatto, che esso si trova basato sovra una locale misura, quale è il Braccio da panno, mentre quello dato dal Rota si appoggia a rapporti, che non sono possibili col nostro sistema di misure lineari. Inoltre il nome di passus, che, come vedemmo, fu attribuito alla nostra auna mercantile, non può evidentemente connettersi che colla misura itineraria. Non vogliamo punto dire che in origine il passus sarà stato di soli due Piedi: più verisimilmente sarà stato da 10 Somessi o cinque Piedi, quale si mantenne fra le valli dell’Italia Superiore, a cagion d’esempio, a Creto ed a Condino nelle misure dei terreni (Malavasi, p. 81, 82; v. sopra § 10), e in tal caso nel nostro Miglio locale saranno entrati esattamente 1000 Passi o 5000 Piedi, come nel romano: ma una volta che cadde in dissuetudine quel lungo ed incommodo Passo, e che per gli usi commerciali si introdusse la misura di soli 2 Piedi, come quella che meglio si prestava alle giornaliere esigenze, a questa venne mantenuto il nome di passus, ma il Miglio rimase inalterato, poichè, sebbene non venisse più a risultare di 1000 passi geometrici come in origine, o per lo meno di 2000 passi comuni da Piedi 2 1/2 ciascuno, nullameno la base rimase ancora la stessa, essendochè 2500 Braccia mercantili o, che è lo stesso, 2500 di questi Passi più recenti corrispondono ancora in ultima analisi a 5000 Piedi. Si noti da ultimo, che in un diploma del 975 l’imperatore Ottone II concede al nostro vescovo piena [p. 200 modifica]giurisdizione usque ad spacium et extensionem per omnes partes ejusdem civitatis trium milliarium et sicut est confinium illius castelli quod vocatur Azanum et alterius quod vocatur Sariate (Lupi 2, 315, 1143, 1347). Nessun altro Miglio potrebbe segnare più esattamente del nostro da 2500 Braccia i confini di questa giurisdizione, poichè, mentre da una parte con esso vi vengono compresi i castelli di Azzano e di Seriate, dall’altra si toccano anche le sponde del Brembo e del Serio, sì che si scorge, essersi avuta presente anche questa peculiare condizione topografica nell’indicare quello spazio mediante la estensione di tre miglia. Il ragguaglio del Miglio bergamasco, in base al valore del Braccio da panno sarà dato nella Tavola IVª E, F: esso corrisponde a metri 1648,298. Abbiamo nella Tavola conservato il nome di passus alla estensione di 2 Piedi, perchè questo nome è l’unico e insieme più antico documento che ci sia rimasto della nostra misura itineraria.

§ 12. Le misure superficiali dei terreni, dalla riforma di Liutprando in avanti, non sono nei loro tratti più generali che una continuazione del sistema romano, e quanto di esse pervenne fino a noi, non possiamo considerarlo, sebbene a primo aspetto non appaja, che come un frantume di un vasto edificio, che non giunse tutto intero a sfidare la fatale ira dei secoli, o le involontarie ingiurie degli uomini. Nel sistema romano lo Jugerum rappresentava una superficie rettangolare, la quale avea la lunghezza di 240 Piedi, ossia di 24 Perticae o Decempedae, e la larghezza di 120 Piedi, o, che è lo stesso, di 12 Perticae ovvero Decempedae: veniva in tal modo ad [p. 201 modifica] avere la superficie di 28800 Piedi quadrati, corrispondenti a 288 Perticae o Decempedae quadrate. Lo Jugerum si divideva in due Actus, due quadrati da 120 Piedi per lato; lo Scripulum poi non era altro che la Pertica o Decempeda quadrata o la 288ma parte dello Jugerum (Hultsch, Metrol. p. 67 seg.). Quest’era la più usuale divisione dello Jugerum; troviamo tuttavia in un frammento indicata anche la Tabula come quarta parte dello Jugerum, la quale quindi conteneva 72 pertiche quadrate (Metrol. Script. 2 p. 125, 19). Questi nomi in parte durarono anche nella età di mezzo, ma il valore delle misure da essi rappresentato dovea necessariamente rimanerne alterato, poichè, dove giungono i nostri documenti, la Pertica lineare non è più di 10, ma bensì di 12 Piedi, e questi non corrispondono più all’antico Piede romano, ma bensì al Cubitus o Piede e mezzo (v. sopra § 2). La maggiore misura dei terreni fino dal 745 è detta ioge (H. P. M. 13 col. 26 a), od iuges e persino iuies (ibid. col. 40 seg.). Se qui si richiami alla provinciale misura detta jugum (Metrol. Script. 2, p. 51, 154 seg.), o se sia una corruzione di jugerum (poichè difficilmente si può pensare al catastale jugum, v. in Marquardt, r. St. 2 p. 218 seg.), non si può decidere con certezza; sta però per la seconda supposizione il fatto, che in un documento del 753 troviamo usate indistintamente le voci iuges ed iugerum (H. P. M. 13 col. 31 seg.). Così nello stesso anno troviamo nominate le Tabule: non si deve però pensare che qui si tratti della tabula, la quale, come dicemmo, era la quarta parte dello Jugerum, perchè il numero delle Tavole nella massima parte dei casi [p. 202 modifica]è superiore a 3, e fra breve ne vedremo degli esempi. Così il nome di Pertica ha nei nostri documenti un triplice significato. E dapprima indica la canna od asta da 12 piedi colla quale si misuravano i terreni, precisamente come ai tempi romani. In secondo luogo con questo nome si intende il quadrato di questa canna. Così nel frammento de Jugeribus metiundis (Metrol. Script. 2 p. 125) si legge: Kastrensis iugerus quadratasFonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 habet perticas CCLXXXVIII — habet itaque tabula una quadratas perticas LXII, dove pertica ha lo stesso significato che scripulum. Ugualmente in una carta del 1006 troviamo (Giulini, 3 p. 46 seg.): et est campo ipso infra suprascriptas coerencias per mensura iusta pertivas legiptimas septem. Est autem campo ipso in mane et sera in omne loco pedes qui dicitur de Liutprando a pertica misuratos numeros sex, et per longitudinem est campo ipso in meridie et montes perticas ad duodecim pedes qui dicitur de Liutprando mensuratos numeros quattuordecim. Qui si dà ancora il nome di Pertica al quadrato della pertica lineare o doppio Cavezzo, sebbene da oltre due secoli fosse invalso l’uso di chiamare con Pertica iugialis, od anche semplicemente con Pertica la superficie di 24 doppii Cavezzi quadrati o Tavole. In terzo luogo il nome di Pertica indica una misura inferiore allo jugerum e superiore alla tabula. Quindi nel già citato documento del 753 abbiamo le misure date in pertice e tabule, in pertice jugiales, e per conseguenza la espressione jugerum unum et pertice decem (H. P. Mon. 13 col. 31): nel 761 iuges duos et pertica una et tabulas octo — inge una et octo perticas legiptimas et tabulas X (ibid. col. 49); nel 812 ioge una et [p. 203 modifica] perticas novem et tavolas sedecim ad iusta mensura (ibid. col. 163) e così di seguito, come appare in pressochè innumerevoli altri esempi. Nei documenti anteriori al mille troviamo le suddivisioni portate fino alla mezza Tavola, al quarto di Tavola, al Piede, al mezzo Piede ed all’Oncia. Quindi in una nostra carta del 805 vi ha: per Mensuram et ratione facta tabulas octuaginta septem et quarta parte de Tabula (Lupi 1, 637); in altra del 860, tabula media et pedes dui (ibid. 791); in documenti di vicini contadi, tabulas legiptima iugalis treginta quatuor cum pedes octo — tabula legiptima una cum pedes legiptimos de tabula novem — per mensura iusta Uncias legiptimas decem — pedes legitimos de tabula viginti et uno et uncias decem (H. Patr. Mon. 13, col. 795, 1348, 1401, 1718); tabulas legitimas tredecim cum pedes legitimos de tabula uno uncias sex (Giulini 2 p. 421); tabulas legitimas sex et pedes de tabula uno et dimidium. — tabulas legiptimas quadtuor et pedes legiptimos novem (Hist. P. M. 13 col. 1525, 1539).

§ 13. Venendo a stabilire i rapporti fra queste diverse misure di superfice, noi sappiamo con tutta certezza che 24 Tavole entravano nella Pertica, poichè in un documento del 865 (H. P. M. 13 col. 400) sono enumerati quattro pezzi di terra, che hanno rispettivamente la superficie di Tavole 88+73+64+28=253 quod fiunt toti insimul per mensura iusta Pertica decim et tabolas tredecim, che è il risultato preciso della divisione di 253 per 24, nè deve far specie che nello stesso documento in altro luogo la riduzione delle Tavole in Pertiche conduca ad un risultato un po’ differente, perchè l’errore è troppo [p. 204 modifica]manifesto da meritare che ne sia tenuto calcolo. D’altro lato, il rapporto che bentosto porremo in rilievo fra la Pertica e lo Jugero non può che confermare una tale induzione. Infatti in una carta milanese del 872 abbiamo: per mensura iusta iuge legiptima una — per mensura iuxta perticas iugales quattordecim — toti insimul perticas iugales viginti et sex (H. P. M. 13 col. 374). Perchè quattordici Pertiche unite ad un Jugero sommassero a 26 Pertiche, era necessario che nello Jugero entrassero 12 Pertiche. Ora, 12 Pertiche da 24 Tavole ciascuna avrebbero dovuto dare per l’intero Jugero Tavole 288, e questo è confermato pienamente da altro nostro documento del 898 (Lupi 1, 1077) dove per cinque pezzi di terra si danno le seguenti misure in Tavole 83+70+25+103+72 1/2= Tavole 353 1/2 dalle quali, detratto il valore dello Jugero in 288 Tavole, restano Tavole 65 1/2; ed infatti ivi è detto, et est tote insimul ioge una cum tabulis sexaginta quinque et dimidia (cfr. anche ibid. 727). Questi risultati ci dimostrano, che se all’antica decempeda fu sostituita la Pertica da 12 Piedi col valore ciascuno di un Cubitus, lo Jugero però rimase, come all’epoca romana, una superfice rettangolare, che avea di lunghezza Pertiche lineari 24 e di larghezza Pertiche lineari 12. Questo fatto ci spiega anche il perchè noi troviamo la Pertica divisa in 24 Tavole, anzichè in 12, come parrebbe doversi attendere dal sistema duodecimale scrupolosamente osservato nelle nostre misure agrarie, e come in pari tempo il nome di Pertica, da quello della canna da 12 piedi usata dagli agrimensori, sia passato ad indicare una determinata quantità superficiale di terreno, che [p. 205 modifica] conteneva appunto 24 canne o Pertiche quadrate. A quella guisa che quel tratto di terreno che fosse lungo una pertica o Gittata e largo 1 Piede costituiva il Piede superficiale detto Piede di Tavola, perchè sebbene in effetto fosse formato da 12 Piedi quadrati posti gli uni di fianco agli altri, tuttavia veniva considerato complessivamente come una dodicesima parte della Tavola (v. Guerrino, Euclide in campagna p. 102 seg.), e come si chiamò Oncia quella striscia rettangolare che avea per larghezza un’oncia e per lunghezza ancora la pertica da 12 Piedi o da 144 once lineari, quantunque non una, ma 144 fossero le once quadrate in essa contenute, così lo stesso si è fatto per rispetto allo Jugero: esso venne considerato come diviso nel senso della sua lunghezza in 12 parti: ognuna di queste parti, che avea per base la lunghezza dello Jugero di 24 Gittate o Pertiche lineari e l’altezza di una Pertica lineare, e che per conseguenza conteneva ventiquattro Pertiche o Gittate quadrate, a scanso di equivoci chiamate con proprio nome Tabule, venne denominata la Pertica iugalis od iugialis, precisamente come la superfice, che avea la lunghezza di 12 Piedi e l’altezza di uno, formò il piede superficiale, chiamato nei nostri documenti Pes de Tabula (H. P. M. 13 col. 795, 1348, 1718; Giulini 2 p. 421), appunto per distinguerlo dal Piede quadrato, che non ne era che la dodicesima parte, Quest’ultima considerazione ci spiega anche l’epiteto di iugalis od iugialis col quale era accompagnato il nome di Pertica. È evidente infatti che, fino a tanto che una tale divisione non fosse entrata in pieno uso, potevasi confondere la Pertica quadrata, 288.ª [p. 206 modifica] parte dello Jugero, colla Pertica rettangolare, dodicesima parte dello stesso. Questa distinzione diveniva tanto più necessaria, in quanto che vediamo fino al principio del secolo undicesimo perdurare il sistema di attribuire quel nome alla semplice Pertica quadrata (Giulini, 3 p. 46), ma insieme vediamo anche che la riduzione delle Tavole in Pertice iugales non era ancora entrata nella comune consuetudine in alcuni contadi se non assai tardi. Infatti, nei nostri documenti il nome di Pertica iugalis non compare la prima volta che nel 896 (Lupi 1, 1053), malgrado che questo nome fosse in uso già fino dal 753 (H. P. Mon. 13 col. 31 seg.): per lo innanzi da noi i terreni si calcolavano a Tavole, o ad Jugeri e Tavole. In una donazione poi fatta nel 892 dall’arcivescovo Anselmo di Milano si legge: est autem mensura ipsius terre secundum huius temporis Geometras Perticas iugiales septem et tabulas sedecim (Giulini 2 p. 30; H. P. Mon. 13. col. 595 d), ma qui, per una tale espressione non è da intendersi, che questo modo di calcolare la estensione dei terreni a pertice iugales fosse introdotto di recente, poichè il documento del 753 ed i successivi escludono del tutto una tale induzione, ma essa è da interpretarsi come una indicazione del modo con cui andava preso il valore delle pertice iugales, che era affatto opposto a quello con cui si calcolavano le pertice o decempedae quadrate (scripula) dello jugero romano non solo, ma anche dello jugero di quell’epoca: il qual modo vedemmo continuato fino al 1006, sebbene il valore della Pertica lineare fosse cambiato. In altri termini, gli agrimensori di professione (Geometrae) calcolavano le loro [p. 207 modifica] misure a Jugeri, a Pertiche da 24 Tavole, a Tavole o Pertiche quadrate: per quelli agrimensori empirici, che misuravano secondo antichissime tradizioni di famiglia, e che nelle ville del contado durarono fino ad oggidì, invece la Pertica non era altro che la Pertica quadrata come a’ tempi romani; per questi quindi il fondo donato dall’arcivescovo Anselmo non sarebbe stato di Pertice jugiales septem et Tabule sedecim, ma semplicemente di Pertice 184. Certamente quel fondo era pervenuto all’arcivescovo per eredità o per acquisto: ora, è assai probabile che nei documenti, i quali legittimavano il suo possesso, la misura fosse indicata secondo l’antico sistema, e che quindi, avendo dovuto l’arcivescovo colla donazione del fondo consegnare anche quei documenti, si credette opportuno di porre la indicata avvertenza, affinchè meglio se ne potesse individuare la identità. — E la stessa divisione dello Jugero in 12 parti non è punto una creazione di questi tempi, ma risale essa pure all’epoca romana. In Varrone (R. R. 1, 10) abbiamo: ab hoc principio mensores nonnunquam dicunt in subsicivum esse unciam agri aut sextantem seu quid aliud, cum ad iugerum pervenerunt, e in Columella (R. R. 5, 1. 17; cfr. Lupi, Cod. Dipl. 1,424, che erroneamente volle correggerlo) più esplicitamente si trova chiarita questa espressione, poichè, ove si parla delle suddivisioni dello Jugero, leggiamo: pars XII p. II CCCC, hoc est uncia, in qua sunt scripula XXIII, precisamente come nella Pertica jugalis vi erano 24 Tavole o Pertiche quadrate corrispondenti salvo il valore del Piede, ed il loro numero di 12 anzichè di 10 nella canna agrimensoria, ai 24 [p. 208 modifica]Scripula dell’Uncia romana. E se consideriamo che in alcune parti del nostro territorio, come vedremo bentosto (§ 14), sopravisse una Pertica di sole 12, invece che di 24 Tavole, la quale deve essersi formata sulla metà dello Jugero, dobbiamo credere, sebbene i documenti nostri non ne facciano una esplicita menzione, che lo Jugero di Liutprando, al pari del romano, si dividesse in due metà, ognuna delle quali, come l’Actus, formava un quadrato esatto di dodici pertiche lineari per lato; la dodicesima parte di questa metà formò la Mera (v. sotto § 14), la quale in origine dovea essere un rettangolo, che aveva l’altezza di una Pertica lineare sopra 12 di lunghezza. Mentre i Romani, per uniformarsi al sistema duodecimale, portarono da 100 a 120 Piedi il lato dell’Actus (Hultsch, Metrol. p. 68), colla riforma di Liutprando anche la canna o pertica lineare fu portata da 10 a 12 Piedi, ma la base del sistema rimase inalterata, e salvi i differenti nomi, noi troviamo in questa riforma ancora lo Jugerum rettangolare di 288 canne o pertiche quadrate, l’Actus sua metà, espresso colla parola Semis, di 144 Pertiche quadrate, l’Uncia o Pertica iugialis sua dodicesima parte, lo Scripulum o Tabula sua 288ma parte. — La Pertica dello Jugero fu adunque in origine una superfice rettangolare della lunghezza di 24 Pertiche lineari sopra una di altezza, e solo dopochè cadde affatto in dissuetudine il calcolare la superfice dei terreni ad jugeri, e la sua Pertica divenne la unità fondamentale delle nostre misure agrarie, questa potè venir considerata come un rettangolo lungo 6 Gittate o Pertiche lineari ed alto quattro (Capra, Architet. civ. [p. 209 modifica] e mil, p. 143), diversa quindi da quella che era in origine. Daremo ora il prospetto delle divisioni dello Jugero in base a quanto abbiamo premesso, avvertendo, che per Piede intendiamo il Piede della Tavola formato da 12 Piedi quadrati, per Oncia l’Oncia della Tavola formata da 144 Once quadrate corrispondenti al valore di un Piede quadrato.


Jugum (Jugerum) 1
Semis (dimidium Jugum?) 2 1
Pertica iugialis 12 6 1
Tabula (Pertica quadrata) 288 144 24 1
Pes de Tabula 3456 1728 288 12 1
Uncia de Tabula 41472 20736 3456 144 12


I ragguagli di queste misure colle attuali saranno dati nella Tavola Vª A, B in base ai valori trovati per le misure lineari dei terreni (v. sopra § 3 in fine), per le quali la Pertica viene quindi ad essere di metri quadrati 662,30821 (Tavole di Ragg. della Rep. Ital. p. 105) corrispondenti a Piedi parigini quadr. 6276,574. Il Cristiani, avendo attribuito al nostro Piede agrimensorio un valore di qualche cosa inferiore al vero (v. sopra § 3), ci dà per la lunghezza del Cavezzo Linee Parigine 1159,8 (Cristiani delle Mis. ant. e mod. p. 43), invece del più esatto valore di Linee par. 1164,36, e conseguentemente alla nostra Pertica attribuisce la superficie di Piedi par. 6194 (ibid. p. 83), che verrebbero a dare Metri quadr. 653,5972, numero inferiore a quello della Commissione di circa 9 Metri quadrati. — La quasi perfetta corrispondenza fra la nostra Pertica e quella di Milano, [p. 210 modifica]dove, come vedemmo (§ 3), si conservò il comune Piede identico all’antico romano, dove il Braccio non è che un doppio Piede romano, dove gli Statuti ebbero cura di preservare da ogni alterazione il Piede di Liutprando, stabilendone il valore in rapporto alla misura cittadina più nota e insieme più usata, nel tempo stesso che ambedue queste misure aveano una comune origine dal Piede romano, questa corrispondenza, ripetiamo, ci dimostra che le misure agrarie, le quali prevalsero fino a pochi anni fa presso di noi, si possono ricondurre quasi colla più storica certezza fino a quei tempi nei quali i nostri documenti cominciano a gettare qualche raggio di luce sovra di esse, e le quali quindi dobbiamo tenere come uno dei più preziosi monumenti che, lottando coll’opera distruggitrice dei secoli, sieno giunti fino a noi a rivelarci questa parte sì importante della vita sociale de’ nostri antenati.

§ 14. Una delle cause di alterazione delle antiche misure è già notata negli Excerpta ex Isidoro, dove, dopo essersi parlato delle diverse lunghezze della Pertica, si aggiunge: idcirco putamus ministeriales imperatoris maiores in accipiendo, minores in dando mensuras habuisse (Metrol. Script. 2Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 p. 136, 20). La spiegazione di questa osservazione si trova nella legislazione del basso impero e in quella delle età di mezzo. Una legge di Onorio del 409 prescrive: Velut licito committi, frequenti laesorum deploratione didicimus, ut maioribus subiectis mensuris atque ponderibus gravi possessor damno quatiatur: Jubemus ut cura et solertia Defensorum hoc fieri a Susceptoribus non sinant cet. (Cod. Theod. 11, 8, 3); nell’Editto [p. 211 modifica] di re Teodorico vi ha: Si quis exactorum, vel susceptorum, maiorem mensuram, vel maius pondus adhibuerit, dum fiscales traduntur species, quam publicae ordinationis moderatio antiquitus provisa constituit, ad indicem continuo cum ipsis mensuris et ponderibus deducatur: ut si fuerit de eorum iniquitate convictus cet. Quod etiam circa negotiatores observari deberi censemus, in commerciis si iniusta pondera vel mensuras adhibuisse fuerint adprobati (Edict. Theod. reg. c. 149); nella Prammatica Sanzione data dall’Imperatore Giustiniano all’Italia, parlandosi dei Giudici Provinciali, è detto: ita videlicet, ut si aliguam collatoribus laesionem intulisse inveniantur, aut supra statuta tributa aliquid exegisse, vel mensuris enormibus aliisque praeiudiciis vel gravaminibus, aut iniquis solidorum ponderibus possessores damnificasse, ex suis satisfaciant facultatibus (Pragm. Sanct. c. 12), sicchè, per ovviare a questo pericolo, l’imperatore Giustiniano, nella stessa Prammatica Sanzione (c. 19), ordinò: ut nulla fraudis vel laesionis Pravinciarum nascatur occasio, iubemus in illis mensuris vel ponderibus species, vel pecunias dari vel suscipi, quae beatissimo Papae vel amplissimo Senatui nostra pietas in praesenti contradidit. I diritti signorili del medio evo non furono uno degli agenti meno attivi di alterazione peculiarmente nelle misure di lunghezza e di capacità, poichè quest’ultime in ispecie venivano od ingrandite, o rimpicciolite, a seconda che si volevano più comodamente aggravare i soggetti, o che si volevano richiamare più numerose famiglie sulle campagne spopolate, allettandole colla prospettiva di più limitate contribuzioni sovra terre più estese (Saigey, [p. 212 modifica]Métrol. p. 126), ed ove a questo si aggiunga il continuo sovrapporsi di nuove genti, di nuovi costumi e di nuovi padroni, si comprenderà fino a qual punto abbia potuto arrivare il disordine in questo ramo sì importante dell’umano commercio. Di qui provvengono quelle differenze di misure che i documenti, per quanto scarsi, ci indicano quasi da villaggio a villaggio. Fino dal 897 pei grani troviamo accennata la iusta mensura Mediolani (Hist. P. Mon. 13 col. 621 a); la moneta milanese nel 972 avea corso nella nostra città a preferenza di ogni altra (Lupi 2, 301, 379): pei pesi fino dal 897 era nominata la iusta statera Mediolani (Hist. P. M. a. l. c.) tutte espressioni che indicano la già avvanzata divergenza nei pesi e nelle misure, eppure anche quando dopo il mille quella città ebbe acquistato una prevalente influenza sui destini della valle lombarda, i pesi e le misure non erano ancora ridotti ad unità neppure nel suo contado. In un testamento del 1068 a favore della chiesa e plebe di Mareliano si ordina, che l’affitto di alcune pezze di terra sia pagato in sette staia di frumento, uno di fave e due di castagne, e che tutte queste staia sieno secondo la misura della chiesa di S. Stefano di Mareliano, mentre per contro il Congio di vino sia dato secondo la misura del luogo di Mareliano (Giulini 4 p. 133). Dunque in uno stesso villaggio vigevano differenti misure di capacità degli aridi e dei liquidi. Ancora nel 1229 il Monastero di Arona, signore del luogo di Cesano, contro un certo Domenico Dellacqua, che ivi la faceva da padrone, fra l’altre cose per mezzo del suo sindaco chiedeva, che si obbligasse il citato Do[p. 213 modifica] menico, come gli altri sudditi, a ricevere i pesi, le stadere e l’altre misure del Monastero: ed a questo si diede ragione (Giulini 7 p. 430 seg). La Valsolda, feudo degli Arcivescovi di Milano, avea misure proprie, poichè negli Statuti del 1246 di quella Valle troviamo: item statutum est, quod quelibet Vicinantia dicte Vallis debeat habere brentam unam et quartarium unum que sint equata ad mensuram comunem Communis dicte Vallis (c. 84 in Barrera, Stor. della V. p. 385 seg.); da una sentenza del 1170 de’ Consoli di Soncino, che parzialmente riuscì a favore dei Canonici della nostra Cattedrale di S. Vincenzo, risulta che questi pretendevano che certo Stefano di Fara Olivana fosse tenuto a consegnare loro annualmente d’affitto sex sextarios grani ad sextarium loci predicti Fare (Lupi, 2, 1265); nel 1302 ancora a Vertova si ordinava che non si comprasse biada o si vendesse fieno ad altra misura che a quella del Comune (Rosa, Statuti di Vertova p. 45); nell’elenco dei diritti della curia di Pareto ligure, che fu compilato intorno al 1223, troviamo: Staria VII 1/2 leguminis ad Starium Pereti que sunt Mine II de Janua. — Modium unum seminis frumenti ad mensuram Pereti (Hist. P. M. 7 col. 701), e basti citare come ultimo esempio che a Mede, in Piemonte, esistevano ancora sette differenti misure lineari, tre delle quali agrimensorie (Malavasi, Metr. it. p. 89). Ora, nella Valle Seriana superiore la superficie dei terreni non si calcolava a Pertiche, come nel restante nostro contado, ma a Mere (agli altri il ricercare la origine del nome Mera, che, secondo ci assicurò il prof. Tiraboschi, tale e quale si trova anche nei documenti medievali), e questa mi[p. 214 modifica] sura vi era sì radicata, che colla introduzione del nuovo Censo si dovettero pubblicare tavole di ragguaglio fra essa e la decimale. La Mera tanto di Clusone, che di Rovetta, rappresenta una superficie di 12, anzichè di 24 Tavole; e viene quindi ad essere la 24ma, anzichè la 12ma parte dello Jugero medievale, e questa particolare divisione, che si mantenne fra i nostri monti, ci lascia supporre, come già osservammo (§ 13), che lo jugero invalso dopo Liutprando, al pari del romano, si dividesse in due metà o quadrati da 12 pertiche lineari per lato, in modo che una di queste metà, divenuta in certe località la maggiore unità di misura dei terreni, desse poi origine alla Mera da 12 Tavole. E che si calcolasse anche a mezzo Jugero, od Actus, lo prova un documento lodigiano del 761 nel quale leggiamo (H. P. M. 13 col. 49 b): item casa in Villa Beca prope Muctia habente iugias numero XX et VIII semis; e tale espressione noi la poniamo a confronto colle seguenti di Livio (6, 16) bina iugera et semisses agri adsignati, di Plinio (Nat. hist. 18, 49 § 2), iustum est — proscindi semissem, iterari assem, e più con quanto scrive Columella (R. R. 5, 1. 26), parlando dello Jugero, pars dimidia p. XIIII CCCC, hoc est semis in quo scripula CXLIIII, precisamente come nella metà del nostro Jugero entravano 144 Tavole. A noi sembra che non si possa attribuire più verisimile origine a questa misura: ci basti notare che la Mera di Rovetta è d’alcun poco superiore a quella di Clusone, perchè il Piede agrimensorio che serve di base a quella è di millimetri 416,15, mentre quello di Clusone è di millimetri 401,09. Se sia soltanto for[p. 215 modifica] tuita la coincidenza del valore di questi Piedi con quello dei Piedi agrimensorii di Ceneda e Treviso da millimetri 408,11 (Malavasi p. 79, 106), di Ferrara e Comacchio da millimetri 403,85 (Malavasi p. 80, 83), o se abbiano una comune origine: se quello delle nostre due terre non sia che il Piede di Liutprando fortemente indebolito, sono questioni che per noi sono affatto insolubili, perchè solo un ricco materiale di ricerche metrologiche locali può prestare materia ad utili e fondati apprezzamenti. Daremo ora il prospetto delle misure agrarie dei terreni in Clusone e Rovetta, riservandoci nella Tavola Vª, C, D, di dare il ragguaglio in nuove misure delle misure agrarie lineari e superficiali di quelle due terre:


Mera 1
Tavola 12 1
Piede 144 12


Affine poi di agevolare i confronti e di chiarire quanto abbiamo detto sulla origine del Piede di Liutprando, nella Tavola VIª sotto A, B daremo il ragguaglio della Pertica lineare e della pertica superficiale milanese, e insieme delle misure agrarie lineari e superficiali quali dovrebbero essere quando il Piede di Liutprando fosse stato basato effettivamente sul Cubitus romano, e quando questo fosse pervenuto inalterato fino a noi. Il valore del Cubitus, o Piede di Liutprando, non avendone altro più vicino, l’abbiamo fondato sul valore dato da Raper al Piede romano all’epoca di Diocleziano (v. § 3): così ci riuscì di millimetri 441,32, ma, considerato il continuo in[p. 216 modifica] debolimento del valore del Piede romano, possiamo tenere le cifre da noi date come un massimo, a cui difficilmente sarà giunto il Piede agrario stabilito dal re langobardo.