Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXII
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Religione: suoi ammaestramenti divini: differenze e mutazioni nel culto
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CAPO XXII.
Religione: suoi ammaestramenti divini:
differenze e mutazioni nel culto.
Per le amplissime vie di rivolgimenti e di progresso della vita civile, il mutamento d’uno stato di società in un altro può esser rintracciato ne’ sistemi di favola religiosa, o di mitologia, che si ritrovano ordinati presso di ogni antica nazione. Sistemi che furon opera di prudenza, e la sacra eredità di generazioni o poco note per grande vetustà, o innominate nelle storie. Così per mezzo soltanto della mitologia possiamo noi stessi risalire, quanto è possibile, inverso i primi periodi dell’età barbarica de’ nostri propri padri, allora che privi di rivelazione, senza scienza tradizionale, deboli e imperiti, non avean che una religione di solo instinto, materiale e incomposta quanto la sciolta vita. Per l’indomito sabino, montanaro nomade e guerriero, un’asta fitta in terra rappresentava grossamente il dio dell’arme1. Quel dio che non poteva placarsi se non col sangue umano. Tanto generalmente predominavano in questi secoli di feroce barbarie superstizioni insane e crudeli, di cui non dubbiamente ritrovansi altri segnali ne’ duri costumi de’ padri sofferenti ogni violenza che facesse loro la divinità. Moderatasi non però di meno la natia salvatichezza delle tribù indigene, e infrenate di leggi, successero appresso nuove fogge di vita meglio ordinata. E fu questa veramente per l’universale un’epoca di rigenerazione, in cui non solo per comandamenti più benigni di savi insegnatori e correggitori del popolo cessarono quivi gli umani olocausti, ma s’introdussero di luogo in luogo riti più assennati, e legittimi istituti di vita migliore. I quali se molto efficacemente cooperarono, come abbiamo dimostrato innanzi2, a dare stato civile e fermo alle nostre popolazioni, niente meno influirono sopra la religione di quelle, temperandola di umanità, da che tutto questo pare certamente che fosse opera di sacerdotale governo.
La più antica mitologia italica popolare, tal quale si mostra ne’ suoi vestigi, è uno specchio fedele della credenza semplice delle genti, fondata nella realtà delle cose, piuttosto che in astruse dottrine. Ma siccome in quest’ordine nuovo di costumi e di leggi più che altra cosa gli abili dell’agricoltura, madre di pacifica popolare obbedienza, diedero mano a stabilire e propagare i beni dell’unione civile, così la prima religione altamente ordinata si trova di per tutto posta in perpetua correlazione con le faccende ed i bisogni della vita campestre. Furono i numi quali poteva comprendere la semplice fantasia di ruvidi agricoltori e pastori. Onde la religione quasi tutta in prima villereccia, e insignita di moltissime deità abitatrici delle selve, delle montagne, de’ campi, de’ fiumi e de’ fonti, avea così principalmente per fine di rendere gradita agli uomini la vita rustica, e far amare insieme i faticosi lavori della cultura. Per benignità degl’iddii questa antica terra, di legittimo dominio loro, era stata data in possesso agli incoli sotto l’obbligo d’osservare la legge, e di spirituale omaggio3. Insegnatori di queste dottrine, e propagatori a un tempo dell’agricoltura, non solo i preti riferivano a quella i fenomeni contemplati dalle loro divinazioni, ma coordinarono altresì l’ordine stesso dell’anno, e le feste religiose coll’opre della sementa, e della messe, e di tutt’altre bisogne della coltivazione. E fu concetto dell’avvedutezza che i miti nazionali consacrati perpetuassero in oltre la memoria di coloro, che posero alle nostre genti insieme colle arti agrarie il freno d’una vita regolata, operosa e civile. Di che sono allegorie semplicissime la bella età dell’oro, Saturno agricoltore e Giano insegnator di buone opere rusticane4, posti entrambi in fronte all’italica mitologia, la quale di tal modo si manifesta nella sua origine espressiva, evidente, ingenua e schietta, quanto sol richiedeva la prisca condizione villesca. Ed è questo un fatto rilevantissimo e di gran momento alla storia; perchè da se ci riporta alla prima vera e semplice mitologia de’ nostri vecchi teologi e poeti, divisata meramente sopra un sistema intelligibile di allegoria: ordinario linguaggio della sapienza antica, o piuttosto il solo che possa bene comprendersi in religione dal popolo. Laddove quei molto complicati e misteriosi simboli co’ quali vennero indi appresso rivestiti i nostri propri numi da più scienziati sacerdoti imbevuti di dottrine forestiere viaggiarono tutti qua d’oltremare, e massime del divino Oriente e d’Egitto, paesi de’ misteri.
Di tal forma il padre Giano datore di vita civile, di leggi e d’arti agli Aborigeni, signore egli stesso del suo popolo e nume indigeno, rimeritato con puri sacrifizi; quale fa ideato senza bella poesia dai primi autori della favola5; si trova nella ricomposta mitologia, arricchita e ornata di copiosa scienza simbolica, come il dio massimo; l’unico e giustissimo padre; il dio degli dei; il primo invocato nelle preghiere; e in tutto, per moltitudine di attributi suoi propri, simboleggiante nulla men che Gânesa indiano6, Oriside egizio e Bacco greco, il principio di tutte le cose, o l’universal potere generativo della natura7. Secondo altri interpetri era il sole nel suo corso annuale: l’ottimo creatore8: il custode dell’universo9: l’arbitro della pace e della guerra: in somma tal dio potentissimo, che ad esso lui la dottrina teologica riferisce ad una ad una le qualità e proprietà degli dei superni. Perciò, canta Ovidio, nè pure la poetica e inventrice Grecia non avea nume che lo potesse in tutto pareggiare10. Nell’istesso modo l’antichissimo Saturno, coltivato principalmente nell’Occidente, come dice Cicerone11, e rappresentato dapprima sotto forma semplice e puramente allegorica colla falce nella destra, qual ponitore della vite e custode d’ogni opra campestre12, si rinviene poscia tramutato ancor esso siccome il dio sufficiente a se medesimo; il principio universale vivificante; il dio grande che diede origine e cominciamento al tempo: e, per dir breve, rassomigliato in tutto al Baal Hamman dei Fenici, o al Crono dei Greci; onde senza più gli furono dati per iscienza di sacerdoti e voce di poeti gli attributi universali di quelli. Nè occorre il dire che a intrecciare sì differenti mitologie, ed a compiere la favola, bisognò anche inventare che Giano e Saturno, entrambi stranieri, fossero qua venuti di lontano, per que’ casi strani e mirabili che sono a tutti palesi13. Così traslasciando d’addurre altri simili esempi, non havvi forse un solo iddio nazionale e paterno di questa nostra terra, sotto alcuna allegoria o naturale o locale, il qual non si ritrovi ugualmente trasformato e cangiato dal primo senso mitologico, in senso al tutto simbolico; cioè trasferito dal semplice al composto; dal particolare al generale; naturalissimo processo dell’umana mente: sì che appena possono ravvisarsi pochi e pretti lineamenti della primitiva forma nelle italiche favole divine. Ma bastano almeno a confermare, ch’elle nacquero di sentimento religioso tra noi conformi a’ costumi, e confacenti in ogni cosa allo stato morale del popolo: tanto veramente che per invecchiate consuetudini le garantie stesse legittime del diritto e della conservazione sia della proprietà, sia dell’unione civile e coniugale, sia della città, pigliavasi in tutto con simboli espressivi e con santità di formole evidentemente tratte dal costume della vita agricola e pastorale14. E può credersi anche fermamente, che la moltitudine delle genti si mantenesse stabile così nella credenza, come nelle tradizioni semplici de’ padri; mentrechè al contrario per progressivi studi di teologi le domestiche religioni togliendo lega d’arcano s’andavano vie più alterando d’età in età, mescolandosi a talento degl’interpetri con eleborate teoriche di cosmogonie e teogonie straniere.
Il religioso sistema degli Etruschi15 costruito con arte e solidità grande da un ordine ben disciplinato di sacerdoti, primati della nazione, meglio che qualunque altro s’era di lunga mano accostato e conformato al disegno della teologia orientale. Comunicazioni di dottrine arcane da tempio a tempio; istituzione d’uguali misteri; spesse occorrenze di navigare per mercatura alle coste dell’Asia occidentale e dell’Egitto; senno di prudenti; davano certamente agli Etruschi l’opportunità di poter conoscere e trasmettere a casa dottrine religiose e scienza di popoli, già molto superiori in quell’età agli abitanti dell’Italia, e della Grecia stessa, per qualsivoglia cultura intellettuale. Sia che cotesti ammaestramenti provenissero qua direttamente, come pare probabile, dal più prossimo Egitto16; sia più lontanamente dall’Asia interna per mezzo dell’isola di Samotracia, dove s’erano raccolti i santi misteri, sicurissimo è che l’Etruria si fece totalmente alunna di quelle scuole. La qual cosa, meglio che con disputabili argomenti, oggidì si manifesta chiaramente per grandissima copia di monumenti della nazione venuti a luce, e in cui vediamo effigiati ogni maniera di simboli egizj ed orientali, prescritto velame di certi arcani religiosi, massimamente quanto è alla dottrina fondamentale del dualismo, e allo stato delle anime dopo morte17. Poche altre nozioni certe abbiam noi dei dommi segreti che formavano la dottrina esoterica degli Etruschi, straniera alla moltitudine del popolo, e riservata soltanto agli iniziati, siccome insegnamento più degno dell’uomo, e più conforme al suo nobile destino. Ben si comprende però, che l’idea principalmente dominante tutta la teologia e la cosmogonia degli Etruschi stava nel domma primario d’un supremo ente, il qual teneasi per l’anima del mondo; la causa delle cause; quindi il principio che produce e mantiene tutte cose; la provvidenza; il fato: e per sua infinita potenza l’unico artefice, il conservatore e il rettore dell’universo18. Nel concetto dei misteri erasi questo il Demiurgo; la massima delle forze; il generatore dei numi; quel dio grandissimo, il cui nome non era lecito sapere in modo veruno19. Tanto che il mondo, cioè tutto l’ente, era dio; e le varie parti del mondo, e tutte le cose che sono e si comprendono, altrettanti dei, modificazioni d’una sola e medesima sostanza. Questo sì famoso sistema emanativo di un solo e unico principio divino, proprio della universal mitologia orientale, si rappresenta intero nel panteismo degli Etruschi, nè lascia in dubbio l’origin sua. Prima emanazione del Demiurgo; il massimo fra gli dei maggiori; il sovrano signore della regione superiore ed inferiore, era Tina20, o Giove, dotato de’ più nobili e più possenti attributi del suo principio. Dodici grandi iddii, per metà maschi e femmine, componevano insieme l’alta gerarchia celeste, associali con Giove nel governo dell’universo quasi come suoi ministri: venian dessi chiamati con generico vocabolo Consenti e Complici; come a dire consapevoli e consenzienti: perciocchè il loro nome proprio di senso più arcano e misterioso era ignoto21. La natura divina ed immortale, essenzialmente divisa in due sessi, come ogni altra natura creata, mostra con evidenza che il dualismo era il sommo principio della mitologia22. Così pure i Babilonesi avevano un certo numero di divinità superiori, che chiamavano iddii consiglieri23: l’Egitto e la Fenicia i suoi Cabiri: e, come di sotto vedremo, anche i Sabini ebbero per loro dei maggiori i Novensili. Presedeva Giove principe di tutti, il concilio generale di cotesti iddii ugualmente grandi, potenti e valenti24, socj suoi e compagni25: per sola concessione di lui competeva loro poter iscagliare di pieno arbitrio il fulmine in terra26: ma suprema legge del Fato per Giove istesso erasi il convocare in certi casi di maggior momento quei numi scienti a consigliare il migliore27. Ed ecco esempio con che sagace avvedutezza la prudenza dei sacerdoti etruschi, cautamente mischiando i concetti arcani dell’Oriente alla loro propria e privata dottrina fulgurale, aveva creato un sistema palese di mitologia primaria piena d’autorità morale e civile, in cui ritrovansi numero di convocati, forme di consiglio e principj d’ordine bene accordati con la costituzione del nazionale governo28. Aesar in lingua etrusca era un’appellazione generica d’iddio stesso29: forse come santo. Ciascuna delle grandi divinità aveva due caratteri ben distinti: l’uno generale di primo principio, secondo il concetto mistico; l’altro più speciale, che le veniva dalle funzioni, cui l’aveva appropriata il sistema del politeismo. Ora fra le dodici maggiori deità Consenti, che giusta la mitologia avean sotto lor custodia questo mondo fisico e morale, dobbiamo in primo luogo nominare Cupra, o Giunone30, che armata di folgore ultrice31 era più altamente riverita in Perugia32, Vejo33, e nelle due Cupre picene34. Non le cedeva in possanza Menerva35, sapientissima dea del consiglio, vigilante colla sua forza celeste alla conservazione della repubblica: per il che nessuna etrusca città si reputava come legittima dai prudenti, se questa dea salvatrice, al pari di Giove e di Giunone, non v’avesse avuto di dentro porta consacrata e tempio36. Per lo contrario, fuori del recinto delle mura dovevano aver tempio lo spirito del fuoco Vulcano37; Marte, Venere e Cerere: prudentissima disposizione del rituale sacro, che sotto simbolico precetto insegnava tener lontano dalla città gl’incendi; rimuovere l’armi civili; tor via gli appetiti libidinosi; e mantenervi in tutto la purità e l’illibatezza della vita38. Mantu o altrimenti Plutone39, spirito infernale, chiamato anche Vediu40, cioè malo dio, come personificazione della morte e dell’abisso, soprastava qual dio principe ai luoghi tenebrosi. Da esso lui prendeva origine e principio una delle quattro specie di Penati dell’Etruria41. Col grado degli altri dei potenti della regione di sopra, aveva Vediu per moglie e per sua compagna sotterra non so qual dea innominata42; e di là giù in inferno altri spiriti inferiori ministravano per lui il suo crudele ufficio43. Però, fra tanti e sì variati numi dell’Etruria esposti all’adorazione del popolo, niuno si mostrava più enimmatico di quell’unico Giano quadrifronte44 venerato in Faleria, e di quivi trasportato in Roma45. Eravi un altro Giano bifronte: in questi gli Etruschi riconoscevano l’autore del cielo, e il dio preside di tutte le azioni umane46; forse lo stesso cui davasi, alla maniera degli Egizj per sorella e moglie Camesena, o sotto simbolo la terra natìa47. Ma chi può dire quali si fossero i più veri e celati pensieri della loro amica teosofia: quale la sacra triade etrusca nata dell’ente universale, e concetto primo delie religioni Cabiriche, benchè in bassi tempi, per sola similitudine di poteri generativi, si dicesse esser Cerere, Pale e la Fortuna48? Tutto quello che spiega oggidì, a senno degli interpreti, la critica simbolica moderna è insufficiente: anzi, a parlar sincero, è l’arte loro di sì pieghevole natura, come palesa con evidenza un’opera grande di simile argomento, che nelle mani degli spositori il modo interpretativo si confà bene ad ogni misura qualunque e ad ogni forma: se più presto una spiegazione congetturale non ista in pronto a ciascuno per ogni proposta o controversia che siasi, o per qualsivoglia quistione49. Con tutto questo un solo vero traluce nel considerato esame della mitologia etrusca, quale apparisce ancora ne’ libri, o nei monumenti: egli è la perpetua mescolanza di dottrine egizie ed orientali con dottrine nate in casa, e per tutte maniere e vie concordate alle mire occulte di una forte costituzione teocratica.
La tradizione antica narrava che due Cabiri passarono esuli qua in Etruria; che facean professione di mercanti; e che seco recando la mistica cista v’introdussero con religiose cerimonie il culto di Bacco e de’ suoi misteri, celati sotto la figura medesima del Fallo50. Or questa tradizione ben fondata nel fatto di quelle religioni orientali, insinuanti il domma d’una vita futura, manifesta non solo chiaramente quanto elle fossero già coltivate in Etruria nell’età vetusta, ma di più conferma, che vi furono introdotte per frequentazione di genti fra l’Asia occidentale e la Tirrenia. Anzi è credibile molto che qua venissero direttamente recate dalla Fenicia, o di Samotracia col ministerio di sacerdoti, chiamati anch’essi da prima Cabiri, insegnatori agli uomini di cose sante. Se adunque gli Etruschi posero con patria voce al Dionisio Cabirico, o Bacco, il nome di Tinia51, dobbiamo altresì riconoscere in questi uno de’ più antichi e più principali numi della nazione. Perocchè nei monumenti vetusti il ritroviamo frequentemente figurato sotto variatissime forme: ora bicornigero52; ora qual Bacco toro53; ora barbato alla foggia antica egizia54; ora con l’aspetto giovenile d’Iacco55; ora di due sessi56; ed ora qual dio delle regioni infernali. Da ciò si comprende manifestamente come i vecchi Etruschi davano al loro Tinia fattezze, attributi e qualità somiglianti a quelle del Bacco primigenio57; e sì ancora di Bacco cognominato Zagreo e Sabazio, noto pe’ misteri orfici, figlio di Giove e di Proserpina58: dove che nei soli monumenti d’una età più recente, o sia nelle patere, in cui tutto è rimodernato e foggiato alla greca, Bacco vi si trova effigiato, secondo il mito tebano, figlio di Giove e di Semele59; quantunque tal volta, per sola proprietà di dottrine etrusche, ei v’apparisca anche scettrato e armato di folgore nella sinistra60. Questi però, come Cicerone fa dire allo stoico Balbo, non era già quel Padre Libero, che gli antichi coltivavano, e la cui essenza non poteva comprendersi fuorchè pe’ soli misteri61. Or dunque sembra certo che sotto quei differenti aspetti gli Etruschi facessero primieramente di Tinia una forma particolare della suprema intelligenza demiurgica, e un simbolo primario delle universali forze generative, e dei poteri di natura, quasi come si concepiva Osiride stesso nella mitologia degli Egizj62. Ma più che altro nei nostri monumenti, per la massima parte di specie sepolcrali, siam d’avviso che Tinia, o Bacco, siavi comunemente identificato col dio malo, signore dell’emisfero inferiore, o altrimenti Plutone e Orco, uno dei tanti epiteti che ottimamente si convenivano a quel dio grandissimo e moltiforme, anco per etrusca fede63. Poichè non tanto ei generava e distruggeva a un tempo la vita, come principio di potenza attiva e passiva, ma per eccellenza di virtù col dar morte recava l’uomo a vita novella. Enimmatico concetto di quella sublime forza che nella imprescrutabile economia della natura, che la produsse, altro non è se non se decomposizione e composizione perpetua di ciò, che ha esistenza attuale. E parmi riconoscere non dubbiamente le simboliche sembianze del nume spietato in quelle teste gorgoniche sannute di mostruoso aspetto, che si veggono in moltissimi monumenti, e massimamente nel copioso vasellame, o negli arredi che più servivano a’ riti e alle cerimonie funebri64. Che già ognuno, come di meglio ei potesse, tendeva a placare con la religion del sepolcro quell’inesorabile distruggitor dei viventi. Altre stranissime immagini o di dei, o di Penati, o di Lari, che poniamo in mostra sia di foggia asiatica, sia d’egizia, manifestano apertamente quanto lo spirito di quelle religioni straniere s’internasse di buon’ora nelle divozioni nostrali, e come il popolo si fosse già universalmente famigliarizzato a certi simboli più volgari, in cui ravvisava o precetti religiosi, o buone speranze di vita futura. Nè può essere dubbioso, che le religioni egizie sopra tutte l’altre predominassero quanto è al rito sepolcrale, massimo di tutti, atteso che più drittamente dava all’uomo fidanza di gire a miglior porto. Vasi cinerarj a forma di Canopo, statuette, amuleti, scarabei, e moltissimi altri capi d’egizie superstizioni ritrovati nei sepolcri, son pruova indubitata del grande studio che ponevano gli Etruschi ad imitare nelle tombe loro gentilizie le fogge medesime dell’Egitto65, dove di lungo tempo essi avean per certo commerci e frequentazioni di loro gente. Ed invero non è da maravigliarsi affatto se tante cose nostrali dell’età prisca, sì religiose, come civili, si ritrovano per autorità di fatti cotanto rassomiglianti all’egizie, da poi che in allora uno stess’ordine d’idee reggeva tra i popoli civili l’ammaestramento umano.
Quindi la mitologia etrusca accessibile all’universale, e ognora parlante con discreti comandamenti ai sensi, era nel suo tutto un sistema di enti celestiali, o piuttosto un sacro principato, che univa fra loro gradatamente gli dei supremi agli inferiori e la divinità coll’uomo. V’aveano per tanto, inoltre alle grandi intelligenze nate del primo motore, iddii speciali e particolari di luoghi, di città, di razze, di persone, non che altri spiriti mezzani tra quelli. Ma principalmente ciascun popolo teneva in altissimo onore i suoi iddii tutelari e protettori. Così Nurzia, o sia la Fortuna, arbitra del tempo e delle sorti umane, aveva tolto in sua custodia i Volsiniesi66. Presso a’ quali il moltiforme Vertunno nato in Etruria, e da toschi genitori prodotto67; interprete del futuro; professore egli stesso di tutti i misteri; teneasi quasi per un compendio portentoso delle feconde e rinnovanti forze di natura68: benchè molto probabilmente, e secondo il concetto primitivo, egli non fosse stato per gli Etruschi altro che un dio campestre. Ancaria proteggeva Fiesole69; e Voltumna, buona tutrice della concordia, nel cui tempio s’adunavano i concilj, cautelava l’unione di tutta la confederazione degli Etruschi70. Altri nomi propri di deità nazionali, com’elleno erano invocate nel quinto o sesto secolo di Roma, porgono le patere71, arredi dell’esequie, che han servito a offerire libamenti ne’ sacrifizi funerei: nè fa caso il vedervi istoriati miti ellenici; perchè in quell’età gli Etruschi già molto sentian del greco, e comunemente appropriavano per conciliazione di simboli alle greche divinità nomi patrj e famigliari. Tanto somma era la riverenza che ognora serbava il popolo dei titoli sacri de’ suoi iddii, dacchè per fede teneansi non pure d’istituzione santa, ma pieni di virtù divina, e niente pieghevoli ad essere voltati in altra lingua. Però l’indole grave e austera che più qualificava non meno i religiosi Etruschi, che gl’Itali tutti, si mostra di per se chiaramente nella universal mitologia. I loro iddii, in cambio d’essere come quei dell’Olimpo nutriti di nettare e d’ambrosia, ma implacabili nello sdegno, macchiati di colpe, viziosi e osceni, appariscono anzi di lor natura provvidenti e benigni all’uman genere, di cui son tutori e padri. Invigilavano essi all’opre dell’agricoltura; alla custodia della proprietà; alla concordia coniugale; a tutte le sante leggi della veracità, della giustizia, dell’onore: in fine sotto mille nomi e mille forme erano a un modo promotori e dispensatori di beni, così al pubblico, come a un privato. Dionisio stesso d’Alicarnasso è costretto a riconoscere questa rilevantissima differenza che passa tra l’antica mitologia italica e la greca: se bene, per interpretazione cortese a’ suoi, egli ne adduca ragione tanto scipita, quanto falsa72. E di vero nessun lavoro d’arte propriamente toscanico si può citare, il qual finora ne abbia posto davanti agli occhi alcuna di quelle sensuali figurazioni mitologiche, che diedero liberamente ai Greci, promulgatori ingegnosi delle divine fralezze, sì licenzioso tema alle opre de’ loro artisti ed alla fantasia de’ poeti con certo danno del buon costume: essendo vano lo sperare che un popolo sia miglior de’ suoi iddii.
Ma il fondamentale principio della religione etrusca, e per cui differiva essenzialmente dalla greca, si è la dottrina di due contrarie potenze nell’universo, contrastanti l’una coll’altra, così nell’ordine fisico, come nel morale. Ambedue emanazioni necessarie del supremo dio generatore, e suoi agenti di somma virtù in mantenere l’ordine e l’armonia della costituzione mondiale. Nel sistema egizio tutto il bene procede da Osiride; il male da Tifone. I Persiani hanno il loro Ormuzd e Ahriman: gli Indiani due nature di spiriti73: così gli Etruschi buoni e cattivi demoni: nè fa bisogno il dire che questa filosofale dottrina del dualismo derivava per tutti loro da un solo e unico domma della scienza divina, quel della causa attiva e passiva della natura, propagatosi da una in altra scuola sacerdotale. Erasi questo, com’è noto a tutti, uno dei grandi misteri della dottrina occulta, il qual tendeva a spiegare l’origine del male nel mondo: problema che naturalmente dovette rappresentarsi allo spirito umano in tutti i sistemi di religiosa credenza, che non abbandonano al cieco caso la creazione e conservazione dell’universo. Ma nella propria mitologia degli Etruschi cotesto concetto filosofico, proporzionatosi all’intelligenza delle menti volgari, si poneva innanzi soltanto come una vera e pretta demonologia: cioè a dire qual credenza popolare che attribuisce sia all’azione, sia all’influenza di più generazioni di enti frapposti tra la divinità e l’uomo, i casi felici od infausti, che tanto ragguardano all’universale, quanto alle private persone. Quindi dal punto della vita alla morte ciascun individuo vivente teneva con se due spiriti o genj invisibili, ma ognora presenti, col ministero de’ quali potevano aversi per la via segnata dal destino o tutti i beni, o tutti i mali del vivere umano: vigilante l’uno con sollecitudine ed amore alla beatitudine dell’anima che gli è data in custodia: l’altro, malvagio spirito, nocente all’uman seme e minacciante danni. Entrambi partecipi nelle buone o rie venture dei mortali, e dopo morte ancora aventi ufficio di conduttori delle anime. Quanto profondamente fosse radicata in Etruria sì fatta dottrina de’ buoni e mali demoni; con quali simboli rappresentata, e come lungamente vi si mantenesse popolare, lo dimostrano i nostri nazionali monumenti di tutte l’età. Il genio allegorico, solo predominante nei tempi vetusti, si palesa aperto nella figurazione dell’opere di arte più maggiormente antiche. Dove si veggono istoriate quasi infinite zuffe e crudelissime mischie intra animali di differente natura, contrastanti fra loro senza posa: immagini alle volte mostruose e in apparenza stravaganti, ma ragionevoli nel senso loro nascoso, poichè simboleggiavano l’opposizione e l’oppugnazione perpetua de’ due contrari principj74. Moltissime altre rappresentazioni di figure a doppia natura foggiate al modo degli orientali o degli egizj, e che tutto dì si rinvengono in suolo etrusco, aveano parimente correlazione alcuna e quasi medesimità colla demonologia, posta così da per tutto con immagini sotto il visivo senso degli uomini. E bisogna bene che coteste forme chimeriche facessero gran forza negli animi della moltitudine, dappoichè si ritrovano effigiate in ogni qualità di monumenti nostrali: nè solamente in sculture, pitture, e vasellami ad uso di sepolcri, ma sì ancora nelle suppellettili sacre e domestiche, ed in molto numero di cose che si portavano addosso, come anelli, fibule e scarabei, quasi che il lor figuramento avesse virtù medicatrice de’ mali75. Anzi, siccome avviene pur sempre delle opinioni più popolari e tenaci, questa fede nei demoni fu l’ultima a perdersi. Tanto che, sebbene in processo di tempo si fosse alterata la credenza pubblica, e per altre sorti civili annullato affatto il potere sacerdotale, pur non ostante vediamo continuata in Etruria la demonologia sino al secondo o terzo secolo dell’era volgare. Ne fan pruova certissima non poche urne sepolcrali volterrane, che paiono di quella bassa età, e in cui ravvisiamo figurata la dottrina stessa dei buoni e cattivi demoni: ma sotto forme e sembianze differentissime. Perchè diversamente procedendo gli artefici etruschi, da che introdussero nuovo stile nell’arte per buona imitazione di maniere greche, non più davano alla figurazione dei simboli certe fazioni mostruose e strane, come portava l’antico costume, ma sì bene effigie e fattezze umane. Laonde sopra ogni monumento storiato di secoli posteriori, in cui si faccia allusione alcuna alla dottrina dei demoni, veggonsi posti in iscena consimili genj di fiero o di benigno sembiante. Gli uni istigatori del senso, che mette in sommossa le passioni; gli altri aiutatori de’ pericolanti mortali, e in atto d’assistere o dirigere a ogni rischioso cimento le loro imprese76. Ed a mostrare con pari evidenza qual fosse l’ultimo ministerio dovuto, effigiati ambedue frequentissimamente conducenti l’anime nelle regioni Stigie77. Nè però eransi cancellate del tutto le più antiche tradizioni. Perciocchè molti di quei genj o vi sono alati e con occhi alle ali, manifesto simbolo di celerità nell'azione e di previdenza, o v’appaiono talvolta di sesso femineo: dottrina del dualismo, che divide ogni parte della natura in due sessi e due persone. Or da cotesta universal credenza nei demoni, per mezzo de’ quali si versavano i beni e i mali nel mondo, nacque altresì un culto speciale pe’ Lari. La casa paterna, il podere, la nazione, la stirpe, la famiglia, gl’individui avevano in quelli i loro particolari protettori e custodi benedicenti: sì che a ragione erano dessi rimeritati del buon servigio con feste sue proprie e con qualificati onori. Numero grandissimo d’idoletti di varie fogge che ogni dì si ritrovano per tutta Etruria, e massime nei sepolcri, furono probabilmente altrettanti Lari della magione, o Genj e Giunoni individuali78. Il titolo stesso di Lar s’adoperava oltre a ciò dagli Etruschi qual pronome benagurato79.
Le religioni proprie dei Sabini, degli Umbri e degli Osci, antichissimi popoli, erano quanto al fondamento loro molto conformi all’etrusca, perchè ugualmente instituite con legge sacerdotale. Novella prova, e sopra tutte l’altre convincentissima, che una medesima costituzione teocratica reggeva civilmente nella prima età tutte le nostre genti. Per virtù di quella cessò tra i Sabini l’assurdo feticismo: cessarono gli orridi sacrifizi, che tramutando in rimedio la colpa, macchiavano gli altari di sangue umano; e per tal modo non dubbiamente venne loro nuova religione e costume più civile. Il mito di Sabo, fondatore della gente sabina, poi tramutato in Giove; e quel di Sanco di lui figlio, al pari divinizzato80; celavano senza dubbio la prima memoria della loro civile e religiosa istituzione. La quale di poi, mediante l’ordinato culto degl’iddii Novensili81, tolse sistema propriamente teologico, e nulla meno arcano di quel che appare nella vecchia religione degli Etruschi. Ugualmente grandi e potenti son questi dei Novensili, intelligenze motrici, e ministri assistenti all’ordine dell’universo. Ma il culto palese di Giove Lucezio fra i Sabini stessi e gli Osci82, mostra bene che molto riferivano alla venerazione degli astri, tenendo in petto quella propria scienza sacerdotale, che faceva della luce increata il principio di tutte le cose. Onde Varrone83, e insieme Dionisio d’Alicarnasso84, credevano senz’altro che adorassero il sole e la luna. La mitologia dei Sabini contava bensì un numero grandissimo di dei superiori ed inferiori: nè senza ragione quel popolo era tenuto in concetto di religiosissimo fra le genti prische. Onoravano un Giove Cacuno, o vogliam dire adorato sopra le cime supreme dei monti85: culto bene appropriato allo stato del montanaro, che nei luoghi sublimi può a tutt’ore contemplare la maestosa grandezza della natura. E forse nella prima semplicità sabina coltivavasi quel sommo iddio così senza immagine e senza tempio, a cielo aperto. Giunone Curiti, cioè a dire astata, e Minerva, titolo che Varrone vuole sabino86, ricevevano ambedue sovrani onori. Per antichità di religione, e per copia di poteri divini, non cedeva a nessun altro Vacuna87, dea primaria o pantea, il cui tempio, per la molta vecchiezza, chiama putrido Orazio88; ma fra tanti epiteti santi che le danno gli spositori pare che s’addica con maggior proprietà alla dea quel di Vittoria89. Feronia divinità indigena, larga dispensatrice di beni, propizia all’agricoltore, avea religione sacro luco e tempio non pure tra i Sabini ed i Volsci, ma in Etruria ancora90. Così Matuta la madre, qualunque si fosse la vera sua significanza di simbolo91, teneva altari in Sabina ed a Satrico nei Volsci92. Rendevasi uguale riverenza e divozione a Larunda93, il cui solo nome dà bastantemente a conoscere quanto si fosse propagata ancor tra i Sabini la religione dei Lari. Panda era Cerere, o altra simile dea94. Ma chi potrebbe particolarizzare le divinità tutte e coltivate e venerate in Sabina, donde buon numero di quelle passarono in Roma coll'istessa uficiatura sabina? Divinità sì tanto speciali e nostrali, che Dionisio dovè concedere esser troppo malagevole trasportare i nomi loro individuali in lingua greca95. Più universale bensì non solo tra i Sabini, ma presso tutti i popoli di pari stirpe sabella, erasi il culto di Mamers, o Marte, tremendo iddio della guerra96, cui davasi per moglie e per compagna Neriene, o sia la forza97. Ma con senso più assai misterioso Summano, o Sorano98, dio padre, era per esso loro il signor delle regioni inferiori, onorato al pari di Giove: e ministro della morte Februu, reo spirito delle tenebre, a placare il quale ponevasi in opra al debito tempo ogni sorta di purificazione e d’espiazione99. La religione di Bacco, ed i suoi misteri, erano altresì propagati nella Sabina col senso mistico, e col popolare. Per emblema della fecondità della terra, della potenza vegetativa, e in tutto della forza riproduttiva della natura, il Fallo vi si vede sculto qua e là sopra vetuste muraglie100. Come dio del vino non altri era che Sabo, primo coltivator della vite101. Bene adunque s’intende per questi più notabili esempi in che modo, salvo il significato arcano, uno stesso sistema di perpetua allegoria rassomigliava e quasi identificava in tra loro le differenti mitologie, che i preti, quanto più acconciamente potevano, avean fabbricate sopra la credulità delle genti per ciascun popolo italiano.
Non altrimenti si rinvengono tra gli Umbri divinità maggiori e minori siccome in Etruria e in Sabina. Le tavole Eugubine, singolare monumento della religion loro, porgono non dubbiamente i nomi propri di alcune di quelle; specificano i particolari sacrifizi con cui possono piegarsi; le vittime gradite a ciascun dio; in fine ogni maniera di formule, parti necessarissime e di gran momento in queste religioni102. Ma poco più lascia intendere l’oscurità di quei bronzi. I nomi di Giove e di Marie vi sono tuttavia principalmente invocati con quello di Fidio, cognominato Fise Sabi, o figlio di Giove103: cioè quel medesimo Sanco della religione sabina104; nè fa specie quivi ritrovarlo come dio nazionale degli Umbri, perchè tanto essi, quanto i Sabini s’attenevano l’un l’altro per affinità originaria, attesa la discendenza comune dagli Osci105. Per la prosperità delle campagne, per l’ubertà delle ricolte, per la tutela de’ confini, vigilavano a un modo deità propriamente agresti106, e ciascun popolo aveva le sue. Ma, come i Sabini veneravano un Giove Cacuno, così gli Umbri abitatori di contrada montuosa e silvestra, coltivavano un Giove Appennino, il cui tempio rovinato si vede là su per le cime discosto tre miglia da Chiascerna: l’antico Clavernio delle tavole eugubine107. E questo culto antichissimo di Penino od Appennino, comunque voglia dirsi, si trova ampliato non tanto per le giogaie del nostro grande Appennino, quanto per le sommità delle Alpi108, quasi egli fosse il nume sovrano che signoreggiava la sottoposta Italia da’ più alti e scoscesi suoi gioghi. Tanta semplicità primitiva nella credenza popolare cessava però dunque a fronte di più studiate religioni. Onde non solo nell’Umbria, ma, per dir tutto in poco, ne’ Volsci, Ernici, Peligni, Sanniti, e ogni altra gente nostrale, dove la scienza era di pochi, più maggiormente si riverivano gran numero di deità sante patrie e locali, la cui natura o celestiale, od eroica, propizia al luogo natìo109, poteva meglio comprendersi da intendimento volgare. Per gli Umbri Visidiano proteggeva Narni: Valenzia Otricoli110. I Volsci aveano Delvenzio a difensore di Cassino111: Marica, tenuta colà presso al Liri in grandissima religione, guardava e servava Minturna112. Così la dea Pelina ne’ Frentani113; Volturno iddio114, ricordano altri numi locali benevolenti: nè vogliamo tacere di due eroi divinizzati entrambi indigeni: Epidio Nuncionio entro Nuceria Alfaterna115, e Virbio in Aricia, trasformato da stranie favole nel casto Ippolito116. Più recondite religioni celava nondimeno il culto di Giove cognominato Anxur, dal nome volsco di Terracina posta in sua custodia; sia che sotto le sue apparenti fattezze giovanili ei rappresentasse Giove fanciullo, sia una divinità più misteriosa avente buona e mala natura117. Nè Marte, sì universalmente riverito, era soltanto il dio ausiliatore delle battaglie, ma sì ancora, secondo la sposizione mistica, iddio ordinatore della natura; conservatore di tutte le cose; fecondatore della terra118; e come tale, sotto diversi titoli santi, in tutte le preci invocato; ne’ carmi salj, negli arvalici, e nelle più volte mentovate liturgie eugubine.
Le teorie cosmogoniche che stanno in fronte a ciascuna mitologia, e ne compongono la parte filosofica e insieme teologica, non han mai potuto discendere sì basso, onde formare con qualche latitudine la sostanza della religione popolare. Semplici, comuni, e congiunte sempre colle necessità della vita ordinaria sono le ragionevoli nozioni della moltitudine dei mortali: onde, benchè il popolo frequentasse nei tempj, assistesse alle sacre cerimonie, ricorresse a’ suoi numi, e impetrasse anche benedizioni da quelli, pure, poco o niente intendeva della scienza divina; nè troppo curante di materie teologali, egli badava soltanto a ciò, che più gradiva alla sua fantasia, o meglio si confaceva alla sua limitata intelligenza. Abbiamo toccato di sopra a grado a grado per qual forma le più vecchie religioni, semplici come il costume de’ padri, s’andarono di luogo in luogo ampliando rivestendosi di misteriosa scienza simbolica qua venuta d’altronde. Ma scienza erasi questa di sacerdoti e di soli inziati. Il popolo credente perseverava ne’ suoi abiti religiosi, nelle sue divozioni paterne: e in queste sole ei poneva fede e speranza. Or così fatta natura di cose si palesa ugualmente ne’ principali miti de’ prischi Latini, che indi passarono in grandissima parte nel culto romano. Vedemmo innanzi a quante trasformazioni si piegò il mito di Giano: misterioso iddio degli dei ne’ carmi saliari119; detto anche Consivio, qual propagatore dell’uman genere120. Saturno, dio propizio alla coltivazione per la moltitudine popolare, e datore di tutti i beni terreni, s’aveva nel linguaggio de’ misteri per la suprema intelligenza ordinatrice, e il padre della natura feconda. Unito con Ops è il dio e la dea; i due principj generante e concepente: per tutti gli altri meno scienti ella era la sorella e moglie di lui, o solamente la terra121. Al contrario, secondo il mito poetico, Saturno, siccome dio fondatore della nazione latina, si mostra al suo popolo capo d’una dinastia di numi e regi del Lazio antico, medesimamente originati di quel ramo celeste122: favoloso sistema di generazione e d’apoteosi molto più comprensibile alle menti volgari, che non quello di emanazione proprio dei soli misteri. Fino dall’origine l’unione latina si componeva di molte città o popoli, l’uno dall’altro distinto, comechè ristretti insieme per affinila di stirpe e vincoli di religione123. In guisa che oltre a’ suoi iddii potenti, e al pari custodi della lega, come Giove Laziale adorato sul vertice del monte Albano, o vero Giove Imperatore venerato a Preneste124, ciascun comune da per se coltivava e riveriva in casa numi difensori della patria. Majo, tra questi, nel picciol cantone di Tuscolo s’avea per simile a Giove125: ogni altra terra venerava, come Preneste, i suoi dei indigeti, ed aveva particolari sacerdozj, cerimonie sante, e propri sacrifizi126. Moltissimi altri dei latini, massimamente campestri, presedevano in comune alle cose villesche, o quasi tutti i loro simboli tendevano a quelle: in specie Fauno, maggiore di tutti, Silvano, Pale dea della pastorizia, Anna Perenna madre di fecondità, ed Inno, quindi trasformato per simigliante natura silvestre nell’arcadico Pane127. Nè solamente la fantasia di que’ buoni pastori e lavoratori rappresentava loro i boschi, i monti, i campi frequentati da genj selvaggi, o Fauni o Silvani che fossero128, ma non eravi luco e fonte perenne che nell’opinione di loro non fosse sacro, e ivi stesso tenuto in custodia da qualche benefica intelligenza129. Dee, ninfe, naiadi, divinatrici, muse tutt’insieme, dicono gli espositori. Se non anche qualunque siasi Semone, come Clitunno signor dell’acque di questo nome nell’Umbria, i cui oracoli son dileggiati con gentile ironia da Plinio il giovine130. Scarso pregio dell’opera sarebbe qui mentovare distintamente questa plebe di numi, così chiamata da Ovidio131, non che il numerare altri miti più o meno allegorici e simbolici, ancorchè sempre correlativi nel concetto comune o alle ordinarie abitudini del popolo, o al suo nativo costume, od ai bisogni locali. Drittamente adunque, quivi nel Lazio, come per tutt’altrove, si ha di più nella mitologia una manifestazione visibile del genio altamente armigero delle genti italiane. Astata e ricoperta d’una pelle caprigua accoglieva le preci de’ suoi divoti Giunone Lanuvina salvatrice132. Del pari astata appariva in Sabina l’immagine di Giunone Curiti, e in Etruria a Faleria133; belligero atteggiamento che diede motivo di porle quivi il soprannome di Argiva134 per la sua somiglianza all’idolo venerato in Argo. Nè questa gran dea era meno santamente venerata a Gabio135, Aricia, Laurento, Tivoli e Preneste136, che ne’ Rutuli vicini137 Minerva presedeva di suo pieno diritto alla guerra. Così Marte, vigilante mantenitore di tutti, ebbe appresso i Latini un mese intero a lui consacrato138.
Può tuttavia destare maraviglia che il nome di Apollo, quel grande iddio tutelare dei Greci, non si ritrovi mai mentovato nella più antica mitologia nostrale. I Pontificali stessi di Numa tacevano di lui139: e nelle tavole eugubine, principal monumento delle nostre religioni, non v’è tampoco nessuna volta nominato in tra tanti dei paterni. È vero che alcune patere di bassa età porgono figurato e nominato quel dio; ma soltanto con voce grecizzata Aplu; anzichè con titolo proprio e sacerdotale, come son tutti gli altri. Giove, Bacco, Vulcano, Minerva, o qualunque siasi deità rappresentatavi del greco Olimpo. Argomento, come parmi, molto valente contro all’opinione, che direttamente dai Pelasghi dell’antica Ellade vorrebbe dapprima qua recate in Italia le sacre dottrine. Qui torna benedire schiettamente che a malgrado di tante stitiche e stiracchiate etimologie poste in mezzo dagl’interpetri qual documento dell’origine, i titoli divini degli Etruschi finora cogniti non sono quelli de’ Greci vetusti140. E noi stessi mostreremo più sotto che tardi bene i miti ellenici ebbero accoglienza e grido tra noi, e unicamente per la forza di quelle inevitabili mutazioni, cui van soggette tutte le cose sottoposte all’impero dell’opinione. Ma comunque ciò si fosse in principio, quel corpo di religiose tradizioni, toccate di sopra, che comprendiamo sotto il nome generale di mitologia, era stato per certo di secolo in secolo accresciuto, ampliato e nobilitato, per la sapienza d’un sacerdozio unito d’intenzioni, e fortemente costituito. In guisa che rivestite le cose tutte dei simboli della divinità ne nacque una vera teologia scientifica, la qual sì propagava con mistero per tradizione orale, prima che la scrittura, nata ella stessa nel tempio, concedesse di cautamente servarla nelle sacre carte. Studio bensì fu questo di lunga età, d’indefesse cure, di santo zelo, e di continovate scaltrite arti. Perciocchè gl’interpetri, che avean soli la scienza della natura, e insieme della divinità, a vie meglio mantenere il sacerdotale dominio s’adoperavano per tutte maniere a muovere od a ridestare negli animi i naturali affetti di speranza e di timore. Nessun’altra regione più che l’Italia dava forse materia e cagioni di eccitare negli abitatori e tremore e terrore per la molta frequenza di grandi tremuoti, d’aprimenti della terra, d’incendj, e d’altri fenomeni maggiori di paese in grandissima parte vulcanico. Nè poco stavano desti i sacerdoti, e avvisati a valersi d’ogni qualunque portentoso accidente naturale, che suscitasse l’idea d’un occulto potere soprumano, e porgesse a un tempo la necessità di impetrarne per mezzo loro grazie e mercede. Di tal maniera i responsi degli oracoli, gli augurj, i vaticinj, le sorti, in somma l’arti innumerabili della divinazione, trovarono un saldo fondamento nella natura umana, e tutte insieme composero la dominante superstizione del paganesimo in un col principale artifizio de’ sacri interpetri. Tanto ferma nell’universale erasi la credenza che quel dio che ti poteva predire il tuo futuro bene, o il tuo futuro male, te lo potesse ancora concedere. Moltissimi luoghi apparentemente mirabili, o sia mofete, lagoni, bulicami, come quelli d’Ansanto141, del Soratte, di Sinuessa e di Pozzuoli142, creduti tanti averni o baratri infernali, porgevano per ogni dove fantastiche spiegazioni alla pia frode dell’interpetre. Nè diversamente certi fuochi naturali, o terreni ardenti per casuale accendimento del gaz idrogeno carbonato, quali tutt’ora si veggono a Velleja, Pietramala e Barigazza, davano ivi stesso ai piromanti buona opportunita di far valere le loro fraudi143. Così pure il volgo, sotto dolce inganno, tenea per divinizzate le fumanti e medicinali fonti d’Abano, dove un genio celestiale dava le sorti col mezzo di dadi gettati dal divoto in quall’onde144. Due città etrusche, Cere145 e Faleria146, avevano in casa altri dispensatori di sorti, genere di divinazione desideratissimo; ma più assai bramate, ed antichissime, eransi quelle che compartiva ai Latini la Fortuna detta Primitiva a Preneste, avente Giove e Giunone bambini in sul grembo147. Tanti piccoli bastoncelli di querce segnati con misteriosi caratteri o figure, indi mischiati da un giovanetto, e tratti dal supplicante, porgevano queste famose sorti prenestine. E sì tanto le cose umane parean dipendere appieno dal mobile arbitrio di quella dea possente, che per la cecità de’ mortali, diceva un miscredente antico148, non aver mai veduto al mondo luogo nessuno dove la Fortuna si fosse più fortunata. Nè si vuol tacere dei presagi che ugualmente dalia Fortuna prendevano i Volsci in Anzio, dove due sacri automati149, avverso l’uno, l’altro propizio, annunziavano con cenni artificiati buone o rie venture. In quel modo che la Giunone di Vejo, altra itnmagine fabbricata con meccanico artifizio, nè tocca mai se non da certa stirpe sacerdotale150, dava col capo i responsi, secondo che importava alle mire de’ suoi custodi151. Albunea era la Sibilla di Tivoli152, ministra dei custoditi oracoli; guardiana ella stessa del bosco e del lago sulfureo, dove Fauno anticamente profetava all’itale genti153, mentre che Fauna o Fatua, moglie di lui, prediceva all’altro sesso le cose future154: quella stessa misteriosa diva che la favola identificava con Bona Dea155, e della quale gli uomini non potevano sapere nè pure il celato nome. Due altre potenze divinatrici Porrima e Posverta avevan contraria virtù: l’una disvelare il passato; l’altra il futuro156: ambedue geni feminei di buona e mala natura. Mito pari a quello delle Fortune sorelle in Anzio, dove si vede ugualmente adombrato il domma de’ due principj, non tanto proprio degli Etruschi, ma propagatosi ne’ Latini, ne’ Sabini, ne’ Volsci, e più lontano ancora.
Fino dalla remota età degli Aborigeni Marte porgeva nella Sabina divini oracoli per mezzo d’un picchio157. Così la selva Albunea era per Fauno quasi la Delfo dei popoli italiani. Nessun di loro tutta volta non aveva oracoli parlanti come in Grecia, nè individui inspirati, a’ quali si rivelasse direttamente la divinità: ogni qualunque nostrale maniera di predizione, e di responsi d’oracoli o significati per segni e figure, o in altra forma pronunziati, si manifestavano al popolo per sola esposizione d’interpetri. Eransi queste arti d’interpetrazione il mezzo più avveduto, e più universale, posto in opera dai sacerdoti onde tenere la moltitudine degli uomini sempre obbediente ai voleri del cielo: sommessa cioè alla stabilita legge. Ma se per tali instituti ne vennero dapprima all’umanità imperita molti beni, grandemente infausti le sortirono dipoi gli abusi inevitabili di quell’ordine medesimo di governo teocratico, il qual tendeva per gli aguati della superstizione a opprimere le facoltà dell’animo, o, come dice più aperto Cicerone, occuparlo d’imbecillità, di fallacie e d’errori158. Un solo spirito guidava qualunque generazione di preti a un medesimo fine. Ma per le fraudi e le superstiziose favole seminate, o che si andavan seminando per molti falsi profeti e maestri bugiardi, la massima parte degli ordini sacerdotali tralignarono sì fattamente dal loro instituto originario e santo, che alla scienza divina subentrava più sovente o la ciurmeria, o l’impostura. Così gli Irpi, progenie sacerdotale159 là sull’isolato monte Soratte, soleano andare dinanzi al popolo maravigliante a nudo piè sopra carboni ardenti, mentre che ricorreva l’annuo sacrifizio al dio posto sotto lor custodia160. I sacerdoti Marsi convertirono in male arti le loro già salutari incantazioni161. Chi prometteva prestigiose apparizioni di morti162: chi fausti auspicj o per nitrito di cavalli163, o per la voce dell’aquila, principe de’ volatili164: chi rimedi, carmi e cantilene, contra ogni male ed ogni danno165. Aruspici rusticani166, ed altri venditori d’oroscopi e di predizioni, se ne andavano qua e la vagando per le campagne larghi dispensatori di merce rea167. Ond’è che penetrate negli animi semplici sì molte pestilenze tutta Italia si ritrovò all’ultimo soprammodo infettata di vanissime illusioni, di sortilegi, incantesimi, formule imprecative, parole e frodi magiche, che da ciascuno appropiavansi con divota credulità ai presentimenti de’ futuri casi, alle divinazioni de’ sogni, ed a qualunque altro umano prestigio: tanto naturalmente ciascuna tema genera ne’ petti mortali la sua superstizione. E nondimeno lodevoli, salutari, severi, e pieni di religiosa riverenza furono in principio gli ordini legittimi del sacerdozio istituiti in un senso utile ai costumi: basti rammentare per tutti la sacra compagnia dei Salj, e quella degli Arvali, entrambi anteriori a Roma, e parimente validi a mantenere non meno la sicurezza della città, che la prosperità delle campagne.
Ma nessun altro instituto sacro pareggiava in virtù ed efficacia quel degli Aruspici: titolo consacrato in Etruria ai maestri della divinazione. La dottrina loro misteriosa era l’arte somma dell’aristocrazia sacerdotale: arte nata in casa di grande accorgimento di prudenza, e fin dall’origine temperata di scienza naturale e divina. L’indigeno Tagete, uscito fuori di questa terra, fu il sacro rivelatore di quella168. Nulla scrisse lui stesso, come Bouddha: però le sue rivelazioni furono raccolte e scritte da chi le udì169: indi esposte dalla ninfa Bigoe, o Bacchete che sia170: e come pare in versi171; che tal era la veste d’ogni ammaestramento più antico. Sciente di tutte le cose, mirabile indovino, insegnava Tagete non solo la scienza degli augurj, i riti sacri, le cerimonie dell’ara, e ogni altro precetto di divina osservanza, ma sì ancora le più misteriose dottrine del Fato, della natura dell’anime, e del loro stato futuro dopo l’inevitabil corso delle debile prove e purificazioni. Questi maravigliosi tesori di sapienza, dono degl’iddii172, si racchiudevano nel testo sacro commentato, spiegato, e dilucidato in quei libri prudenti, che gli Etruschi chiamavano Rituali, Aruspicini, Fulgurali, Fatali, Acherontici173: i cui originali erano scritti da destra a sinistra, secondochè portava la maniera etrusca; e in cotal forma leggevansi anche nell’età di Lucrezio174. Libri sì tanto studiati, che già furono o voltati, o esposti in latino da valentissimi interpetri175: indi commentati da Cornelio Labeone, savio legista, in quindici volumi176. E pare cosa non dubbiosa, considerato il senso d’alcuni frammenti, che questi dotti ampliassero le loro sposizioni con appropriate sentenze e ragioni tratte massimamente dalle scuole dei Pitagorici. Quanto abbiamo da Cecina177 più distintamente sopra le folgori basta a far comprendere in qual modo per le infinite divisioni e suddivisioni, chiose, interpetrazioni, commenti e nomi tecnici, che posero i glossatori alla legge scritta, ne venne una scienza vasta, che abbracciava la religione, l’etica, e la fisica intera di quella età. Perciocchè molto saviamente gl’istitutori dell’aruspicina avean voluto, che ancorchè immutabile ne’ suoi principj potesse la scienza di mano in mano arricchirsi per nuovi studi, e di sempre nuove osservazioni178. La sapienza divinatrice consisteva in tre parti principali: il presagio per le interiora delle vittime, o per altri segnali; l’interpetrazione dei fulmini; e l’esplicazione dei portenti179. Sì ardui studi onde poter penetrare dalla terra al cielo i decreti della provvidenza, o del Fato, son certo per noi incomprensibil arte: ma pure, se ben si considera, là dove la credenza pubblica era ordinata sì compitamente in sistema, dessi avevano intendimento d’utilità grandissimo. Non tanto a causa che il volgo rimirava in quelle cose il potere soprannaturale della religione, quanto perchè in realtà elleno tendevano, come supplimento della legge civile, al buon governo della repubblica. Così di fatto, sott’ombra di auspicj, per attenta ispezione delle interiora nelle sacre vittime, sapevano gli aruspici dedur buone osservazioni fisiologiche, tutte volte che nell’edificazione d’una terra importava esplorare la salubrità de’ luoghi180. Molti cauti insegnamenti concernenti alle cose civili prescrivevano i Rituali, come dicemmo avanti181: nè con osservanze diverse dal rito etrusco, asserisce Varrone182, si fondavano nel Lazio le ben augurate città. Roma stessa ebbe primieramente stato civile per sì fatte norme, ed auspicj etruschi, che tanto le valsero ad ingrandimento e stabilità di potenza. Il nome stesso occulto, che in oltre al nome civile ponevano i sacerdoti a ciascuna città consacrata al suo dio, aveva per iscopo di dar fidanza salutare al popolo, e rendere così più valide le difese183. Ma più che altro i libri del destino celavano una mira profonda de’ savi etruschi dirizzata a conservare salva e sicura la città, sottraendola, quanto possibil si fosse, alle mutazioni interne. Poichè a rimuovere le cause di civil discordia, od a provvedere al rimedio in rischiosi frangenti e por freno ai rigogli dell’ambizione, gli aruspici confortavano e ammonivano il popolo ben potersi sospendere per dieci, o forse trent’anni, gli eventi prescritti dallo stesso incommutabile Fato184. Nè meno provido era il fine delle loro divinazioni pe’ fenomeni eterei, guardati dagli antichi con religioso orrore: dottrina talmente propria degli Etruschi, e sì arcana, che quasi poneva in lor balìa la potenza stessa di Giove. Insegnavano gli aruspici fulguratori essere la celeste folgore il primo dei presagi, ed il solo irrevocabile, atteso la sua essenzial virtù d’annullare tutti gli altri augurj contrari185. Preminenza non male fondata negli effetti naturali di que’ portentosi segni d’eterno fuoco, che a drittura venian qua in terra vibrati dalle mani stesse de’ più potenti iddii186. E buon presagio davano quelli che cadean giù alla sinistra dell’esploratore187: perchè chiunque ricercasse auspicj gli aspettava in un determinalo spazio del cielo188. Gli Etruschi, a tal rispetto, dividevano la sfera celeste in sedici parti o regioni189; in ciascuna di quelle sezioni del loro tempio augurale vi davano anche proprio domicilio e presidenza agli iddii190, nella guisa che l’egizie divinità occupavano sessanta distinte e determinate regioni del cielo; dottrina manifesta per tutti i rituali funerarj e liturgici dei papiri. Mostreremo appresso come ad ogni bisogno l’arte fulgurale etrusca ministrasse per via simbolica attiva cooperazione al governo civile, independentemente dalla parte scientifica o fisica, che le porgeva materia d’utili indagini e d’incremento. Sì che per vera cosa, quest’amplissimo sacerdozio degli auguratori, anzi che spregevole superstizione, era in effetto uno degl’istituti più principali dello stato. Strabone191, filosofando da stoico del dritto uso della scienza divinatrice de’ Greci e de’ barbari, pone gli aruspici etruschi alla pari de’ più sagaci e più famosi maestri del mondo antico. Fino da’ primi secoli della repubblica sei giovanetti di nobili schiatte si mandavano ogni anno per legge da Roma in Etruria, acciocchè vi fossero ammaestrati delle cose divine nelle scuole dei sacerdoti192. E siccome questi soltanto possedean convenevolmente la scienza dell’interpetrazione, ben si comprende qual possente motivo avesse l’aristocrazia di mantenere la sua politica preminenza mediante l’arcano ministerio delle faccende sacre. La sagacia degli Etruschi passò così tutta intera con le divinazioni e religioni loro nella città eterna: ed ecco perchè la scienza degli auspicj rivelata ai patrizj, così in Roma, come in Etruria, era mezzo efficacissimo a dominare e contenere la plebe. Fosse pur l’arte un assurdo: a bea usare l’ufficio di magistrato bisognava saper usare quello di prete: e fu gran senno dell’aristocrazia, e forza d’instituzione, se di concordia Etruschi e Romani s’attennero in ogni tempo alle paterne divinazioni, come ad un’ancora nelle procelle. Per tal modo che il credito de’ più vetusti famosi oracoli del mondo, e massime quello di Giove Ammone193, andò di per tutto declinando fra le genti, dacchè il romano mostrava nell’universale tener più in conto le indovinazioni degli Etruschi, ed i versi sibillini194. Anzi ne desta tutt’ora grandissima meraviglia come quel popolo sovrano cotanto riputato per la gravità, il buon senso, e la ragione, si piegasse così universalmente e sommamente all’arti toscane195. Chè già non i soli volgari, ma dottori e maestri erano macchiati della medesima pece196. Nel secolo miscredente di Cicerone poteasi in vero quistionare da liberi investigatori, se gli arcani della divinazione avessero per fondamento alcuna virtù particolare, o se inventati fossero per utilità del pubblico197: ma, quantunque il libro del grande oratore, inchinevole tanto egli stesso allo scetticismo, e gli argomenti irreligiosi portati da Lucrezio, avessero pienamente dimostrata la vanità dell’arte, pure il senno dei filosofi poco allora, come oggidì, valeva a sanare la moltitudine dei credenti da inveterate superstizioni. Onde l’istessa aruspicina, quasi fosse bisogno di tutte le classi della società, si mantenne rigogliosa per secoli e lungamente sopravvisse al nome degli Etruschi, poichè l’arte mancò soltanto con la totale caduta del paganesimo: tuttavia il superstizioso Giuliano facevasi seguitare nelle sue imprese militari da toscani aruspici interpetri delle cose prodigiose198.
Fino dalla prima civile istituzione delle nostre genti le paterne religioni si videro così frammischiate da per tutto ugualmente con ogni genere d’affari, come se miglior schermo non potesse avere la città. In Etruria, ne’ Sabini, ne’ Volsci, in Sannio, e nella Liguria stessa, che quasi direbbesi separata da quelli per altre genti e costumi, ritroviamo a un modo prescritta una legge sacra antichissima, la quale non pure avea massima forza a far coscrivere in qualunque soprastante pericolo i cittadini nell’armi per andare sopra i nemici, ma con riti astrusi e tremendi imponeva loro sotto giuramento morire, più presto che lasciarsi vincere in campo199. Mediante questa legge sacra, gagliardissima sopra tutte l’altre, è cosa manifesta, che i sacerdoti miravano a correggere col loro ministerio il principale difetto della costituzione politica federale, priva di forti legami, isforzando l’universale di adempiere per tema di religione i doveri comuni del patto civile ad ogni grave rischio della patria. Così in tutte l’altre cose pubbliche i ministri del culto organi della voce divina, e in un della politica umana, validamente servivano alle mire dell’ordine dominante, di cui essi stessi erano membri: nè altri responsi davano per certo se non quelli che meglio si convenivano al bisogno del momento, all’utile proprio, ed alle occorrenze del comune200. Nè solamente eglino usavano all’uopo artificiose parole, ma s’adoperavano ancora a tempo e luogo attivamente con la persona, siccome fecero quei sacerdoti tarquiniesi, eccitatori di guerra, che nel 399 si posero alla testa delle milizie, lanciando contro a’ nemici spaventevoli fiamme sotto divisa di spiriti infernali201: stratagemma che oltre a questo fa intendere aver dessi avuto il segreto d’alcuna composizione artefatta di fuoco offensivo, messo in opra per altro frangente di guerra anche dai Fidenati202. Laonde se tanto operarono nella città, e tanto potevano realmente i preti sopra l’immaginazione e il cuore dei popoli, non è da maravigliarsi che avessero altresì possanza di raffrenarli e guidarli a loro talento, con autorità poco meno che illimitata.
Grande sussidio al sacerdozio si furono ancora le solennità e pompe di religione, accompagnate sempre con ricchi doni, grassi sacrifizi, e preci divote. Di tanto coll’andare del tempo erano esse deviate, come tutte l’altre cose di culto pubblico, dalla prima semplicità de’ costumi religiosi, allora che gli dei s’appagavano di qualche umile e povera offerta203. Con solo scialacquo di latticini, e col giuoco boschereccio l’altalena, che a causa del nome dicevasi preso dagli Osci, si celebravano le antichissime ferie latine sul monte Albano204, che poscia divennero la somma e precipua solennità del Lazio205. Nè meno ingenue erano state primieramente le feste Palilie, di gran tempo anteriori a Roma206, o quelle dei campestri Lupercali, a un modo confacenti al costume semplice dei pastori207. Laddove secoli appresso tutto era ne’ sacrifizi mostra pomposa di magnificenza. Dimostrano le tavole eugubine con quale e quanto apparato s’apprestassero queste cerimonie. Canti, prieghi, formule speciali, accompagnano le oblazioni del servo degli dei. Le vittime si svenavano tre a tre, numero misterioso e di gran momento nelle vetuste religioni. Agli dei s’offrono vittime maschili, e femminili alle dee: rito bene approprialo alla doppia natura che davasi per dottrine sacerdotali agl'iddii maggiori208. Alcuni sacrifizi per copia di offerte equivalgono a un’ecatombe209. Ogni liturgia era corredata di musica, di canto e di danze, da che per precetto di quelle festive religioni le buone divinità dovevano guadagnarsi, dice Labeone, con servigi gustosi e graditi, o sia giuochi, danze e conviti210. E largo in questo ogni popolo tendeva a superare per sontuosità di sagre o di feste pubbliche, il suo vicino. Gli spettacoli, sotto nome di religione, comprendevano singolarmente in Etruria corse, ludi, musiche, saltazioni; in somma, a dir più breve, tutto ciò, che poteva più fortemente cattivare gli animi con grandi solennità esteriori. Non pochi monumenti etruschi dell’arte antica ci pongono figurate sotto gli occhi sacre funzioni ugualmente accompagnate con musiche e danze, di che diamo alcun saggio per esempio211. In pari modo i Salj e gli Arvali univano le danze alle preci, accordate col suono delle sacre trombe; e percotendo con moti figurati la terra ballando e tripudiando, ripetevano tre volte i loro cantici212. Le cerimonie funerali, e le feste medesime di purificazione e d’espiazione delle anime213, s’accompagnavano pure con meste armonie di flauti214: il che appare anche per monumenti215: di più il mese più breve detto Februum, e quindi il rito di purgazione consacrato agli iddii infernali, s’appellavano entrambi con voce sabina216; altri dicono etrusca217. Ogni città, ogni terra aveva in oltre feste proprie dedicate a’ suoi numi protettori, od a’ suoi Lari e Penati, cui davano ugualmente omaggio e pubblici onori: tali erano i quinquatri de’ Tuscolani, i decimatri de’ Falisci218, e moltissime altre ferie provinciali d’ogni dove: poichè l’Italia divisa in tanti stati non osservò mai in genere di fasti sacri un rito comune: ogni popolo celebrava il suo. E come si vede pe’ frammenti di parecchi calendari latini219, e sì ancora dai Fasti d’Ovidio, le feste religiose soleano regolarsi, secondo il costume antico, sopra un anno di dieci mesi. Ad accrescere bensì la magnificenza di cotali feste o nazionali, o provinciali, o locali, molto contribuirono i progressi dell’arti del disegno, col presentare all’adoramento numi visibili in su l’altare, e troppi altri materiali oggetti di culto: nè questi non più formati in legno o in terra cotta, che pur erano nell’età prisca il solo e unico adornamento dei tempj220; ma effigiati in marmo, in bronzo e in preziosi metalli, sotto tali sembianze, che potessero più vivamente percuotere i sensi degli adoratori; ciò di poco altro s’appagava l’idolatria, non chiedente mai al suo divoto nessun sentimento di cuore. Sì che l’innumerabile quantità d’idoletti domestici, che sotto mille e mille forme sonosi ritrovati in ogni tempo qua nell’Etruria centrale, e si veggono sparsi per tutta Europa, meglio che ogni altro fatto confermano quanto a ragione Arnobio la chiamasse genitrice e madre di superstizione221. Dalla sola città di Bolsena tolsero i Romani due mila simulacri222. E se Roma inondata d’immagini di fattura toscanica223, contava, al dir di Varrone, trentamila dei, chi può dire quanti ne avesse l’Etruria intera di tanto più invecchiata e tenace in ogni maniera di religioni?
Per farci un’idea più giusta del sacerdozio etrusco sarebbe buono partire dal più basso grado della scala ieratica per indi salire al più eminente. Ma nell’inferiore troviamo soltanto rammentati i Camilli, od i più giovani, assistenti ai sacrifizi: nella più alta dignità il Pontefice nominato pe’ suffragj dei dodici popoli224; senza che sia noto per qual graduale ministerio la legge costitutiva del clero etrusco concedesse d’arrivare agli altri ordini mezzani della gerarchia. Una speciale educazione era quindi indispensabile per essere ministro dell’altare: anzi erasi questo il massimo privilegio di certe famiglie e prosapie nobili, che di padre in figlio serbavano ne’ loro casati i misteri rivelati, di cui soli si teneano proprietari, capi, ed interpetri nati. I soli abili in breve, per cotal monopolio spirituale, a produr legale effetto in qualunque atto od uficio civile col mezzo degli auspicj. Se più tosto essi stessi non erano la legittima discendenza di quegli uomini consacrati, che avean dato l’essere alle nostre colonie sacre, più volte innanzi rammentate225. Questo gran corpo del sacerdozio s’atteneva così nello stato a due ordini di cose essenzialmente distinte, e non di meno congiunte: cioè al culto pubblico, per riguardo al carattere sacro dei suoi membri; ed alla costituzione civile e giudiciaria del paese, come guardiani e interpetratori della legge. Di tal forma in Etruria l’aristocrazia vi custodiva il total segreto delle cose divine226 e l’autorità delle umane: così pure in Sannio le gentili schiatte227. Non dissimili privilegi e sacerdozj affissi a un casato sussistevano al pari in Oriente e in Grecia nel tempo antico: la stessa eredità nelle funzioni sacerdotali era un costume egizio. Nè quindi troppo superbamente per tanta maggiorità di grado al mondo andavano i sacerdoti dicendo, aver gl’iddii immortali concessa loro uguale supremazia che ai regnanti228. Ma non mai in Etruria, nè altrove in Italia, la qualità di prete e di guerriere furono tra se distinte e divise con l’odioso sistema delle caste: tutt’al contrario il servizio dell’ara non era punto incompatibile cogli ufizi militari e civili: uno stesso individuo vi maneggiava alla volta il lituo e la spada229. Il capo degli aruspici portava il titolo di supremo o primario di quell’ordine230. Ed ogni città principale dell’Etruria, siccome teneva ordinate scuole sacerdotali, così aveva il proprio collegio di aruspici; tra i quali in più alto seggio stavan coloro che pigliavano grado e nome di Fulguratori a causa delle loro più ardue divinazioni231. Per istituto delle sue domestiche religioni, e prima ancora che fosse Roma, ciascun’altra città legittima, come Preneste, aveva similmente un collegio di pontefici232: talvolta la qualità di aruspice e di pontefice s’univa in una sola persona233. Tivoli e Tuscolo ordinarono a un modo i loro preti Salj molto innanzi a Roma234: nè fa di bisogno ricorrere ai Cureti o ai Dattili per trovare sì lungi una norma delle loro danze armate, tanto naturalmente poste da religioni che coltivavano, come le nostrali, divinità guerriere235: e pare di più, secondo una vecchia tradizione, che i Salj fossero dapprima preti d’Ercole236; che vuol dire, per gl’Itali antichi, del nostro Sanco237. In ogni modo però il sacerdozio dei Salj, e l’altro tanto affine degli Arvali, erano per noi antichissime compagnie di fratelli, che avevano assai cose comuni: il numero de’ collegiali, la nobiltà della nascita, l’antichità e l’oscurità dei carmi238. Tra gli Umbri tien posto principale una compagnia di fratelli Ateriati ministri di altri riti239. Nè meno antico, o men saviamente instituito presso a ciascun popolo italico era il collegio dei Feciali, che avea per capo il Patre Patrato: e di quanto bene fosse cagione alla città questo santissimo Sacerdozio240, sì nel regolare il modo di denunziar la guerra ad altro popolo, sì nel santificare i patti giurati, abbiam toccato innanzi.
Per tali e tanti ausiliatori, e aiuti e conforti di religione, ben si comprende quanto gagliardamente operasse in sugli animi lo statuito governo. La teocrazia in fatti è la più durevole costituzione che conoschiamo. Ella sussiste tutt’ora nell’Indie come al tempo antico: in Egitto non potè estirparla nè pure il dominio forestiero: e di qual permanente vigore sia cotal legge l’attesta a un modo l’istoria del popolo ebreo. Ma severa, rigorosa, immutabile ne’ suoi comandamenti è altresì per natura ogni potestà fondata nella teocrazia. E tal fu anche il reggimento dell’aristocrazia sacerdotale in Italia. Dove la legge sacra inesorabile non pure guerniva l’animo a sostenere ogni più ardua fatica, ma senza rispetti umani, esigeva da ciascuno anche il sacrifizio della vita tutte volte che il bisogno lo richiedesse. I terribili apparati di religione, e l’esecrande formule d’imprecazione, che in rischiosi frangenti ponean dinanzi al popolo i ministri del culto, ora in Etruria, ora in Sannio241, per la fiducia di ritrovare un valore antico in un’antica istituzione, danno maravigliosamente a conoscere di qual tempera fosse stata in origine la legge. Tanto che se gli Agillesi, o Ceriti, per espiare il reato degl’insepolti corpi dei Focesi mandarono circa l’anno 220 messaggi a Delfo242; ed era quello il tempo del maggior credito della Pizia; poteva esserne stata cagione più che altro l’eccessiva severità delle religioni paterne, sì rigorose nel sacro rito dei Mani, e fors’anco insufficienti alla purgazion della colpa: poco essendo credibile che altrimenti i Ceriti s’avvisassero di ricercare sì lontano da compiacente oracolo un rimedio, che potevano con agio procacciarsi in casa. Questo continovato immutabil rigore della prima legge teocratica doveva tuttavia indebolirne la possa, e stancare al fine gli animi di un popolo occidentale, mobile, instabile, e vario per natura: ond’è che inevitabilmente scemato lo zelo, andò grado grado mancando anche il buon volere e la credenza nel popolo, soprattutto dacchè ei tolse a conoscere e venerare le religioni più liete, facili, temperate e indulgentissime dei Greci. Appresso a’ quali già di gran tempo il potere e l’autorità del sacerdozio erano venute meno con la istituzione del governo monarchico, e di tante repubbliche bene ordinate. Gli Etruschi stanziati nella Campania han dovuto essere i primi, fino dall’ottavo secolo innanzi l’era volgare, a sentire l’influsso del grecismo per iscambievoli commerci con diverse generazioni di Greci243: e fors’anco i primi a trasportare nelle loro metropoli lingua, numi, eroi, costumi, poemi ed arti elleniche. Nè havvi dubbio alcuno che già nel terzo e quarto secolo di Roma le città marittime dell’Etruria non avessero con i coloni della Magna Grecia, e coll’Ellade stessa, frequentazioni di mercatura e negozi civili, mediante i quali s’andava ognora più insinuandosi fra noi la civilità ellenica. Il cui potente vigore non sol feriva ogni dì più maggiormente il credito e l’autorità dell’ordine sacerdotale, ma infievoliva la fede, e scalzava a un tempo le fondamenta d’ogni credenza antica. Già il potere del sacerdozio aveva perduto ogni sua forza per tutta Italia al quinto secolo: nè dopo le conquiste romane mai più non ebbe mezzi di levare il capo. L’esempio medesimo che il popolo dominante dava in quel tempo egli stesso, non poteva se non accrescere in tutti gli ordini di cittadini l’indifferenza religiosa per vieti costumi. Una educazione più liberale, e quasi che tutta greca, sostituita nelle grandi case a una educazione etrusca244, assai prestamente aveva infranto in Roma il giogo della superstizione, e sparso anche di ridicolo l’alto sacerdozio. Il satirico Lucilio, familiare di Lelio e di Scipione, già poteva impunemente rappresentare gli dei maggiori sedenti in concilio deridendo la dabbenaggine de’ timorati che dan loro il titolo di padri245. Così per altri frammenti di Lucilio, d’Ennio e di Pacuvio, vediamo parimente scherniti con dure e pungenti parole non tanto auguri, aruspici e indovini, quanto i superstiziosi. In teatro si facevano grasse risa pubblicamente degli medesimi iddii che s’adoravano nei tempj. E senz’altro soggiugnere basta il solo detto di Catone, augure egli stesso e censore246, a mostrare qual si fosse universalmente il secolo che allevò Cesare e Cicerone.
Di tal maniera gli Etruschi, che sopra tutti gli altri avean disposto gli animi de’ Romani alla pietà, ed a quel profondo sentimento religioso, che, al dir di Polibio, aveva mantenuta in fiore la repubblica247, cedevano essi stessi in tutte cose sì all’efficacia dell’esempio, sì al natural fervore per cui la virtù dell’intelletto tanto fortemente il sospinge ad abbracciare opinioni novelle. Altri costumi religiosi s’introdussero così più generalmente per tutta Italia in sulle tracce della ridente mitologia dei Greci. Nè lo spirito moderato del politeismo s’opponeva all’ammissione di nuovi iddii e nuovi riti: anzi la tolleranza de’ maestri in divinità era sì grande, che in cambio d’eccitar quistioni, usavano all’uopo ogni studio a conciliare insieme o teogonie, o culli opposti, con dolce indifferenza. La religione pagana essendo così realmente un trovato umano, e un istrumento della politica, ella doveva incorrere per necessità in frequenti mutazioni, e cangiare con la politica stessa. Di qui è che l’italica mitologia prese un aspetto al tutto differente dall'antico: e quasi ogni favola ed ogni iddio, senza mutar essenza, si rivestì all’ultimo d’allegorie più liete, o di simboli e nomi diversi. Il nostro Fauno, Inuo, Silvano, rustiche deità del Lazio, si trovarono convertite in Panisci, in Satiri, o in Sileni aggregati al coro di Bacco. Matuta e Portunno in Leucotea e Palemone248; o sia Ino e Melicerta de’ Fenici249. Bona Dea, che le favole italiche dan per moglie di Fauno incomparabilmente pudica, videsi tramutata per variate spiegazioni di favola in Ecate, in Semele e in Ginecea250: Libitina, che invigilava su’ riti funebri, in Proserpina, o diversamente in Venere regina de’ morti251. Che più? con poetica licenza l’antichissimo Giano dicevasi di Tessaglia252; Sanco o Fidio de’ Sabini si nominava Ercole alla greca253: l’etrusco Tagete davano i Greci per Mercurio infernale254: nè con altro modo teologanti, commentatori, poeti, andavano accordando in un medesimo ente mitologie diverse, come più distintamente si vede in Ovidio. Sì che per questa vittoriosa influenza de’ miti ellenici e dell’arti, che prestavano sì copiosamente a tutte le cose sante fogge pellegrine, ne venne altresì la facile, e in un speciosa credenza, che i nostri maggiori fino da’ prischi tempi avessero comuni con la Grecia i loro numi più venerati255.
Quel grande impero che la mitologia ellenica, tal qual l’avevano ampliata, arricchita e ornata i poeti epici, teneva in generale sopra gli animi e la letteratura de’ Greci, s’estese così largamente anche per l’Italia intera, già piena di Greci di qualunque stato e professione, dappoichè i romani trionfi renderono per mille modi più agevole la via alle comunicazioni ed a’ commerci de’ nostrali coi Greci d’Italia e con quelli d’oltremare. Ma, come si vede per la formula di consecrazione che pone Livio in bocca di Decio, il rituale romano serbava ancora al principio del quinto secolo italica forma, nè alcun dio d’altra </noinclude> origine vi stava associato con quelli della patria256. Non però di meno già nel corso del secolo antecedente erano passate privatamente nella città nuove maniere di religioni e culti alieni257: per tal modo che al tempo della seconda guerra punica, dice Livio, non più facevasi nè in segreto, nè in pubblico, alcun prego o sacrifizio al modo antico, ma solamente all’usanza forestiera258. Similmente in Etruria sembra che non prima degli ultimi periodi della gente la religione prisca vi si mutasse dall’esser suo allo scoperto, piegando anch’ella più o meno alle attrattive dell’epopea. Di che sono certissima pruova la patere già di sopra mentovate più volte scritte e istoriate, che possono credersi tutt’al più lavoro del sesto secolo. Per esse abbiamo meglio che per altri monumenti rappresentate buon numero di deità e di miti propriamente greci, dove gli artefici, tenendo dietro all’uso, e fors’anco al precetto, apposero i nomi degl’iddii medesimi dell’Etruria: onde, tutte volte che figuravano l’Athene greca, scrissero Menerva: Tina per Giove: Sethlans per Vulcano259. Il che pare non voglia inferire altro, se non che gli Etruschi religiosissimi, seguitando i Greci nella mitologia, ne presero la superficie, anzichè la sostanza. E se ben si mira anche questi numi adottivi spirano un certo sembiante della domestica religione, e scrupolosa osservanza del costume sacro. Apollo e Bacco vi compariscono insigniti di certe decorazioni tutte proprie dell’Etruria: il Giove omerico vi tien lo scettro quale si dava per insegna sovrana ai Lucumoni, o vi stringe fulmini alati, capo speciale di superstizione tosca260: così Minerva e Giunone, con altre deità maggiori, hanno l’ali al dosso. Tanto veramente la dottrina antica lasciava dietro a se, come tutte l’opinioni che si ritirano, tracce profonde della sua esistenza in quelle medesime credenze che la superavano, e che indi in avanti ottennero più popolar favore.
Ma più che altro intorno a questi tempi degenerarono in Etruria dal primo instituto il culto od i misteri di Bacco. Era questi sotto nome di Tinia una de’ grandi e più potenti iddii261. I suoi misteri ordinati da prima con santità religiosa, eran non solo sacrosanti agli iniziati in questa vita terrena, ma promettitori d’infiniti beni nella futura. Le feste e cerimonie esterne, colle quali s’onorava Bacco in Etruria, di poco differivano da quelle che Melampo trasportò dall’Egitto in Grecia262. Una particolare specie di monumenti vetusti recentemente venuti in luce, e al tutto nostrali, ci mostrano qual era tra noi l’apparato di tali feste e delle sacre processioni giusta il rito antico. Gl’iniziati vi portano rami d’alberi; vi recano il cantaro, il cratere, ed altri vasi da vino, vi offrono al dio le primizie de’ frutti, corone, bende sacre, e mollissimi altri simboli tutti ugualmente dicevoli al culto primitivo di Bacco ed a’ suoi arcani263. E in cotal forma mistica par che si mantenessero lungo tempo incontaminati fino a tanto che, nel modo che narra Livio264, per opera di un certo greco sacerdote, e d’una donna sacerdotessa da Capua265, fogge inusitate e licenziose di baccanali passarono celatamente in Etruria, benchè il tempo preciso resti oscuro, e di quivi nel Lazio, introducendosi con altre disordinate superstizioni e lussurie di baccanti occulti sacrifizi notturni pieni di cose disoneste. Che qua in Etruria la nuova scuola di quei depravati misteri del Fallo vi gettasse profonde radici, si conferma principalmente per la qualità di certi vasi dipinti trovati nei sepolcri medesimi di molti iniziati; e più che altrove in quelli di Vulci; dove sotto le più laide figurazioni vedesi acclamato il sozzo culto da persone bennate: e tra queste uomini nobili, e donne similmente, atteso che tali monumenti, singolar circostanza, quasi tutti si tiran fuori delle tombe di soli facoltosi. La qual cosa, ancorachè sì turpe, è non pertanto corrispondente alla condizione del secolo che correva, già preparato a sopportare ogni sorte di corruttela: perciocchè spenta in quel tempo la libertà; tolto ai patrizj il potere civile; ai preti scemato lo spirituale; e tuttavia l’Etruria trovandosi ancora piena d’agi e fiorente dell’antiche dovizie per indulgenza della fortuna; quegli stessi umori che innanzi eran volti in casa o al primato cittadinesco, o alle cure pubbliche, o alle faccende interne, cercarono sfogo in ogni maniera di cose nuove, dandosi gli sfaccendati, uomini liberi ed ingenui, quasi che con furore, a queste misteriose sensualità dei baccanali. Dove la viziosa concupiscenza s’ascondeva sotto il velame della religione, a causa del doppio simbolo per cui in quelle orgie s’onorava Bacco e come autore della forza generativa, e come spirito infernale266. Nè quindi esagerava Varrone narrando le oscene pompe con che si celebravano a Lavinio le feste di Bacco, durante le quali la figura stessa del Fallo, portata attorno per le pubbliche vie sopra un carretto, s’incoronava dalla più casta matrona della città267. Sì fatto micidiale fanatismo di vituperevoli sacrifizi propagatosi rapidissimamente, per una contagione di pestilenza, durò forse a cinquanta anni. Benchè ognora più contaminata l’onestà di sfrenate libidini, e malamente infettati i domestici costumi, crebbe a tanto nelle occulte tenebre la malvagia licenza dei baccanali, e la moltitudine prava dei baccanti268, nel corso degli ultimi venti anni, che il romano senato, a fine di provvedere alla pubblica e privata salute, li proscrisse alla volta in Roma e per tutta Italia nel 568. Che già, a dir vero, in molte città o municipj italiani i sacrifizi baccanali, secondo il costume de’ forestieri, non più della patria, v’erano allignati buono spazio di tempo, prima che in Roma269. Però da quel supremo custode della religione non furono vietati se non i più segreti e pericolosi: gli altri, d’antico istituto, seguitarono a esser permessi e continovati colle cautele prescritte nel famoso decreto dei baccanali270. Non di meno risorsero indi a poco in Puglia i riti impediti, ma vi furon tosto compressi271. Ed è un fatto degno in questo proposito di particolare considerazione, che la massima parte dei vasi dipinti che vengono di Puglia in molto numero, sien giusto rappresentativi o di sacrifizi, o di libamenti, o d’altre cose figurate allusive in tutto ai baccanali. Diciamo lo stesso dei vasi con pitture di simili storie, che da più d’un secolo si traggono fuori dei sepolcri della Campania, fonte d’onde si sparsero nell’Italia centrale i non leciti misteri272. Così pure in Etruria, dove più radicati, han dovuto assai lungamente durare cotesti riti, vi fossero o no sinceramente riformati: poichè non tanto l’universale superstizione del culto bacchico si rappresenta sotto differentissimi emblemi in pitture infinite di vasi, nelle patere, in intagli di scarabei, ed in altre copiose suppellettili, ma in certe urne non molto antiche, ritrovate a Tarquinia, vi si vede effigiato il defunto con vestimento e attributi di baccante273.
È credibile assai che una stessa sorte provassero gli altri popoli italiani strascinati dall’esempio e dalla inclinazione universale. Benchè, per mancanza d’informazioni storiche e di monumenti loro propri e nazionali, poco o nulla può dirsi intorno a’ cambiamenti che successero nel culto. Le tavole eugubine mostrano bensì che le religioni degli Umbri conservavano in ogni cosa il rito de’ padri e l’antica liturgia. In Sabina meno che altrove cangiarono i costumi religiosi, da che quel popolo, giustamente rinomato per le sue osservanze, si mostrava ancor dopo il secolo d’Angusto ben allevato nelle prische virtù. Lo stessa può accertarsi dei Sanniti e Lucani274, se non pure di tutta insieme la montanesca razza sabella. Ma in Pompeja già troviamo introdotto il culto d’Iside275: e non era la sola città di Campania che vi coltivasse allo scoperto deità egiziane276. Altra specie di religioni insolite che rapidamente si sparsero per Italia, non che dentro Roma, fino dal quinto e sesto secolo. Ivi stesso venuti oltremodo a grado della moltitudine quei culti isiaci celebrati secondo i riti egizj, del tutto dissimili a’ nostrali per inusitate e strane cerimonie, quei culti dico si radicarono con sì tenace proponimento negli animi de’ superstiziosi, che invano il senato più volte per mano de’ consoli fece prova di sterparli a forza dalla città277. Del pari nei municipj e nelle colonie, le rifiutate religioni d’Iside e di Serapide col loro seguito mostruoso seguitarono ad esservi coltivate in pubblico e in privato da’ suoi divoti con la medesima ostinazione. Forse ancora certi idoletti ritrovali in suolo etrusco, di stile egizio imitativo278, s’appartenevano essi stessi a queste straniere divozioni ripullulanti, poste in credito da coloro cui dan guadagno gli animi de’ mortali presi tanto più da superstizione, quanto è più generale la depravazion del costume. Sì di vero la nostra debole natura, tralasciale a suo grado le cose consuete, anela sempre alle vietate.
Note
- ↑ Vedi Tom. i. p. 203. Nam et ab origine rerum, pro diis immortalibus veteres hastas coluere. Justin. xliii.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 32. 34.
- ↑ Da ciò l’Italia era detta mitologicamente Saturnia; e l’Etruria la terra degli dii. Vedi Tom. i. p. 23. 38. e di sopra p. 80.
- ↑ Macrob. Sat. 1. 7.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 11.
- ↑ W. Iones, Asiatick researches T. i. 221. sqq.
- ↑ Lutatius ap. J. Lyd. de Mens. p. 144. ed. Roeth.; — Arnob. iii. p. 117.
- ↑ Cerus manus (voce di forma italica) o sia Creator bonus, in carm. saliar. ap. Fest. v. Matrem Matutam.
- ↑ Ovid. Fast. i. 177. sqq.
- ↑ Nam tibi par nullum Graecia numen habet. Ovid. Fast. i. 90.
- ↑ Quem vulgo maxime ad Occidentem colunt. Cicer. de nat. Deor. iii. 17. — Saturnus è vocabolo sabino e latino ugualmente (Varro l. l. iv. 10): può essere in tutta Italia da Sator, che i più vecchi pronunziavano Satu o Satur.
- ↑ Arnob. iii. p. 117., vi. p. 197. 209.
- ↑ Ovid. Fast. i. 238. sqq.
- ↑ Vedi sopra. p. 85 e Tom. i. p. 106 e 107. Argomento verissimo, sebbene troppo largamente applicato da un autore alemanno al gius civile romano. Dorn Seiffen, Vestigia vitae nomadicae in morib. quam legib. roman. conspicua. Traject. ad Rh. 1819.
- ↑ Gens itaque ante omnes alias eo magis dedita religionibus, quod excelleret artes colendi eas. Liv. v. 1.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 133.
- ↑ Vedi i Monumenti tav. xiv. sqq.
- ↑ Senec. Quaest. nat. ii. 42.
- ↑ Deum demogorgona cuius nomen scire non licet..... principem et maximum Deum; caeterorum numinum ordinatorem. Placid. Lutat. ex Tages. schol. ad Stat. Theb. iv. 516.
- ↑ Tina: così nelle iscrizioni delle patere.
- ↑ Hos Consentes et Complices Etrusci aiunt, et nominant, quod una oriantur, et occidant una; sex mares, et totidem foeminas nominibus ignotis, et miserationis parcissimae: sed eos summi Jovis consiliarios, ac principes existimari. Varro ap. Arnob. iii. p. 123.
- ↑ Immortalem illam, praestantissimam naturam divinam esse per sexus, et esse partem unam mares, partem esse alteram foeminas. Arnob. iii. p. 103., vii. p. 240.
- ↑ Βουλαίους Θεοὺς. Diodor.
- ↑ Dij majores, Dij valentes, Dij potentes.
- ↑ Caecinna ap. Senec. Quaest. Nat. ii. 41.
- ↑ Diis novem Jupiter potestatem jacendi sui fulminis permisit. Arnob. iii. 38. p. 122.; Plin. ii. 52.; Serv. i. 42. ex Hetruscis libris de Fulguratura.
- ↑ Caecinna. ap. Senec. Quaest. Nat. ii. 41 43.
- ↑ Dodici dei, dodici città, concilio di primati ec.
- ↑ Aesar etrusca lingua deus vocaretur. Sveton. Aug. 97.; Dio Cas. xxvi. p. 589.
- ↑ Τὴν δ´ Ἥραν Τυῤῥηνοὶ Κύπραν καλοῦσιν Strabo v. p. 166.
- ↑ Serv. i. 42. ex libris Etruscorum.
- ↑ Appian. Civil. v. p. 1113.
- ↑ Juno regina. Liv. v. 22. Quod haec omnia terrestria regit. Varro l. l. iv. 10.
- ↑ Strabo l. c.: Sil. viii. 43. conf. Gruter. p. mxvi. 2.
- ↑ , Menerva.
- ↑ Quoniam prudentes Etruscae disciplinae ajunt, apud conditores Etruscarum urbium non putatas justas urbes fuisse in quibus non tres portae essent dedicatae et votivae, et tot templa Jovis, Junonis, Minervae. Serv. i. 422.
- ↑ , Sethlans.
- ↑ Vitruv. i. 7.
- ↑ Mantum, Etrusca lingua Ditem patrem appellant. Serv. x. 190.
- ↑ Vedium (malus divus) sicut suadebat Etruria. Martian. Capell. ii. 7. 2.
- ↑ Nigidius in libro sexto exponit et decimo, disciplinas Etruscas sequens, genera esse Penatium quatuor, et esse Jovis ex his alios, alios Neptuni, inferorum tertios, mortalium hominum quartos. Arnob. iii. 123.
- ↑ Martian. Capell. ii. 7. 2.
- ↑ Februum inferum esse Thuscorum lingua. Angrius ap. J. Lyd. de Mens. p. 170.
- ↑ Quasi universa climata majestate complexum. Gavius Bassus, in libro de Diis ap. Macrob. Sat. i. 9.
- ↑ Macrob. l. c.; Serv. vii. 607.
- ↑ Varro in xiv. rer. divin. ap. J. Lyd. de Mens. p. 146. Immagine che vedesi figurata nelle medaglie di Volterra.
- ↑ Ianus... cum Camese atque indigena terram hanc ita participata potentia possidebant. Protarch. Trall. ap. Macrob. Sat. i. 7.; Varro l. l. iv. 10.; Demophil. ap. J. Lyd. de Mens. p. 150.
- ↑ Tusci penates Cererem et Palem, et Fortunam dicunt. Serv. ii. 325.
- ↑ Intendo mentovare col dovuto onore l’opera magistrale del Pr. Creuzer, Symbolik und Mythologie: insufficiente però quanto è alla mitologia italica in genere.
- ↑ Ἐν ᾗ τὸ τοῦ Διονὺσου αἰδοῖον ἀπέκειτο. Clem. Alex. Protrep. p. 12. 14. I Cabiri qui mentovati, anzichè mercanti di preziose merci, come porta il racconto, potevano essere dessi stessi sacerdoti, o sivvero iniziati: è noto che Cabir, forte, potente ec., fu da prima un titolo proprio dei preti orientali; indi applicato alle maggiori divinità dell’Egitto, della Fenicia e della Samotracia.
- ↑ , Tinia: Figlio di Giove Tina.
- ↑ Vedi tav. xli. 1-5.
- ↑ Vedi tav. lvii. 8. 9.
- ↑ Catapogon. Diodor. iii. 62., iv. 6. Vedi tav. lxxxi. sqq.
- ↑ Vedi tav. xcix. 1.
- ↑ Mysès. Orph. Hymn. 41. Vedi tav. xl. 4. 5.
- ↑ Diodor. iii. 62. iv. 5.
- ↑ Diodor. iii. 63., iv. 4., v. 75.; Cicer. de nat. Deor, iii. 21. 23.
- ↑ Così nella notissima patera rappresentante la nascita di Bacco; ed in parecchie altre ancora.
- ↑ Vedi Dempster. Etrur reg. T. i. tav. iii.
- ↑ Non eum quem nostri majores auguste sancteque Liberum cum Cerere et Libera consecraverunt: quod quale sit, ex mysteriis intelligi potest. (de nat. Deor. iii. 24.). Secondo Varrone Liber Pater, era lo spirito fecondatore propizio alla generazione dei maschi: Libera delle femmine. Ap. August. de Civ. dei. vi. 9. 1.
- ↑ Diodor. i. 15., iv. 1.
- ↑ Gellio, v. 12.; Martian. Capell. ii. 7. 9.
- ↑ Vedi tav. xxxiv-xxxvi.
- ↑ Vedi tav. xiv. xv, xlvi. ci. cxviii. 2.
- ↑ Cinc. Aliment. ap. Liv. vii. 3.; Tertull. in Apol. 24.; Martian. Capell. i. 18. 9. Vet. schol. Juvenal. x. 74.
- ↑ Tuscus ego Tuscis orior. Propert. iv. eleg. 4. fertumnu doveva pronunziare un etrusco, atteso la mancanza della vocale O.
- ↑ Ovid. Met. xiv.; Varro l. l. iv, 8.; Ascon. in Verr. iii. 59.
- ↑ Faesulanorum Ancaria. Tertull. Apol. 24. conf. Gori, inscript. ant. Etrur. T. ii. p. 77.
- ↑ Liv. iv. 23., 25. 41.
- ↑ Thalna: : Turan: Thana: Turms: Ethis: Eris ec.
- ↑ Dionys. ii. 18. 19
- ↑ Cioè i Dejotas o Surs; ed i Dajuts o Assurs. W. Ward, Account of the Indoos ec. Serampore 1811.
- ↑ Vedi tav. xxviii, xxxi. 4., xlv. 2., xlix. xcviii. 1. Moltissimi altri esempi si hanno in tutti i libri di antichità figurata etrusca.
- ↑ Vedi tav. xlvi. cxvii.
- ↑ Vedi tav. cv. cvi: di più i Monum. dell’Italia ec. tav. xxxii. xxxiii. xli. xlv. ec.
- ↑ Vedi tav. lix, lx. lxv. civ.; ed i Monum. dell’Italia ec, tav. xxvi.
- ↑ Vedi tav. xxxiv-xxxvi.
- ↑ Vedi sopra p. 69. n. 26.
- ↑ Sanci qui deus Fidius vocatur. Festus v. Praedia.
- ↑ Novensileis Piso deos esse credit novem, in Sabinis apud Trebiam constitutos. Arnob. iii. p. 122.
- ↑ Sane lingua osca Lucetius est Juppiter dictus, a luce quam praestare dicitur hominibus. Serv. ix. 570.; J. Lyd. de Mens. p. 250.
- ↑ l. l. iv. 18.
- ↑ ii. 50.
- ↑ Jovis Cacunus: mentovato più particolarmente qual dio locale in un grosso macigno trovato sul monte di Pietra Demone: il più alto giogo della Sabina.
- ↑ Minerva a Sabineis. Varro l. l. iv. 10
- ↑ Vacuna apud Sabinos plurimum colitur. Vet. interp. Horat. i. ep. 10. 49.; Ovid. Fast. vi. 307. sqq.
- ↑ Fanum putre Vacunae. l. c. Plinio (iii. 12.) pone il sito della sacra selva e del tempio presso a Rieti: ed ivi stesso si rinviene a Rocca Giovane in mezzo d’una valle.
- ↑ Sotto questo nome romano fu in fatti restaurato il suo tempio cadente da Vespasiano.
- ↑ Varro l. l. iv. 10.; Idem ap. Serv. viii. 564.; Strabo v. p. 156. Nelle glosse d’Isidoro detta pure Dea agrorum. Vedi Tom. i. p. 241.
- ↑ Matrem Matutam antiqui ob bonitatem appellabant. Paul. in epit. Festi. Matuta quae significat auroram. Priscian. ii. p. 591, Putsch.
- ↑ Liv. vi. 33.
- ↑ Varro l. l. iv. 10. in fin.
- ↑ Varro ap. Gell. xiii. 22.
- ↑ Καὶ ἄλλοις θεοῖς ὧν χαλεπὸν ἐξειπεῖν Ἑλλάδι γλώττῃ τὰ ὀνόματα. II, 50.
- ↑ Varro l. l. iv. 10.; Festus v. Mamers.; Ovid. Fast. iii. 85. sqq.
- ↑ Gell. xiii. 21.; Martian. Capell. i. 3.
- ↑ Serv. xi. 785.
- ↑ Varro l. l. v. 3.; J. Lyd. de Mens. p. 172.; Ovid. Fast. ii. 19. sqq.; Censorin. 2.
- ↑ Guattani, Monum. Sabini. Così pure nell’Umbria. Vedi tav. xiii.
- ↑
. . . . . . . . . . Paterque Sabinus
Vitisator, curvam servans sub immagine falcem.- Virgil. vii. 178.
- ↑ Vedi le tavole Dempsteriane; e Lanzi, Saggio. Tom. ii, p. 657. sqq,
- ↑ Figlio Sabi. Tav. iv. 1. 16.
- ↑ Fisovie. Sansie. Fiso. Sansie. Filio (Jovis) Sanco. Tav. vi. 1. 3. 9.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 73. 189.
- ↑ Come Rupinie nella tav. iv. eugubina, interpetrato Robigo.
- ↑ Claverniur. tav. iii. in caratteri latini. Le tavole stesse di Gubbio furono trovate nel 1444 qua presso la Scheggia, non lungi al tempio di Giove Appennino.
- ↑ Liv. xxi. 38.
- ↑ Dii enim topici, id est locales, ad alias regiones numquam transeunt. Serv. vii. 47
- ↑ Tertull. Apolog. 24.
- ↑ Idem. Sono questi gli dei che lo stesso fervido Padre chiama per dispregio: Deos decuriones cujusque municipii, quibus honor intra muros suos determinatur. Tertull. ii. ad nationes.
- ↑ Strabo v. 161.; Serv. vii. 47. Deità parimente dei Piceni, venerata nel Luco sacro dei Pesaresi.
- ↑ Muratori, Inscripit. cl. i. p. 44. cl. v. p. 367. S. Pelino è oggidì il grande protettore di quella contrada.
- ↑ Varro l. l. vi. 3.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 284.
- ↑ Ovid. Met. xv. 542. sqq.; Virgil. vii. 761. sqq.; Pausan. ii. 27. firpi, Virbius; come , Vibius.
- ↑ Jupiter Anxurus. Serv. vii. 799.; Vet. int. Horat. sat. v. 1.; Ovid. Fast. iii. 437.
- ↑ Cato r. r. 83.
- ↑ Deorum deus. Macrob. Sat. i. 9.
- ↑ Consivius. Macrob. ibid.
- ↑ Macrob. Sat. i. 9.; August. de civ. Dei. vii. 7.
- ↑ Virgil. vii. 47. sqq.
- ↑ Vedi T. i. p. 215.
- ↑ Liv. vi. 29.
- ↑ Macrob. Sat. i. 12.
- ↑ Ibi erant Pontifices et dii indigetes, sicut etiam Romae. Serv. vii. 678.; Idem, ad Georg. i. 498.
- ↑ Serv. vi. 775.; Arnob. iii. p. 113.
- ↑ Vet. Auct. de limitib. p. 274. ed. Goes.
- ↑ Nullus lucus sine fonte, nullus fons non sacer, propter attributos illis deos, qui fontibus praesse dicuntur. Serv. vii. 84.
- ↑ viii, epist. 8.
- ↑ Ovid. in Ibin. v. 81.; Arnob. iii. p. 102.; Plebs numinum, sunt deorum innumerae gentilitates.
- ↑ Juno sospita.... cum pelle caprina, cum hasta, cum scutulo, cum calceolis repandis. Cicer. de nat. Deor. i. 29. Vedine l’immagine vera tav. xxix. 8.
- ↑ Tertullian. Apolog. 24. conf. Cluver. p. 544; Gruter. p. cccviii. 1.
- ↑ Cato ap. Plin. iii. 5.; Ovid. Fast. vi. 49. sqq.
- ↑ Virgil. vii. 682.; Sil. xii. 537.
- ↑ Cinc. Alim. ap. Macrob. Sat. i. 12.; Ovid. Fast. vi. 59 sqq. Jano Curulis tuo curro clypeoque tuere meos curiae vernulas sane. Serv. i. 17. Tal era un pezzo di preghiera del rituale tiburtino alla dea.
- ↑ Virgil. vii. 419,; Plin. xxxv. 10.
- ↑ Martium mensem a Marte nominatum, quod gens Latina bellicosa. Varro ap. Censorin. 22.; Ovid. Fast. iii. 85. sqq.
- ↑ Arnob. ii. p. 95. Non altro tempio aveva Apollo in Roma, che quello divisato da Asconio fuori della porta Carmentale: ea enini sola tum denium Romae Apollinis aedes (in Tog. candid.): il qual tempio gli fu promesso per voto l’anno 320: e due anni dopo dedicato. Liv. iv. 25. 29.
- ↑ Non ignoriamo già per quali apocope, sincopi, protesi, aferesi e metatesi, quelle voci si van riducendo dagli spositori a tema greco; di che pochi si appagano. Bene diceva Cicerone a questo proposito; nullum erit nomen quod non possis una litera explicare. de nat. Deor. iii. 24.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 262.
- ↑ Plin. ii. 93.; Serv. xi. 785. conf. Varro ap. Plin. xxi. 2.; Senec. Quaest. nat. vi. 28.
- ↑ Tali erano certamente quelle fiamme che per le feste di Vulcano uscivano di sotterra in un luogo del modenese (Plin. ii. 107.): nè diverso doveva essere il prodigio d’Egnazia ne’ Sallentini (Horat. i. sat. 5. 97 sqq. Plin. l. c.). Le belle sperienze di Volta mostrano quanto facilmente s’ottenessero siffatti miracoli.
- ↑ Sveton. Tiber. 14.; Lucan. vii. 193.
- ↑ Liv. xvi. 62.
- ↑ Liv. xxii. 1.; Plutarch. Fab.
- ↑ Cicer. de Div. ii. 31.; Propert. ii. 32. 3.
- ↑ Clitomachus ex Carnead. ap. Cicer. l. c.
- ↑ Sorores. Martial. v. ep, 1.; Horat. od. 35. et Vet. interp. ad h. l.; Macrob. Sat. i. 23.
- ↑ Quod id signum, more etrusco, nisi certae gentis sacerdos, adtrectare non esset solitus, Liv. v. 22.
- ↑ In pari modo nel tempio maggiore d’Ierapoli le statue degli iddii vi sudavano, si movevano da se stesse, e vi davano oracoli; il più maraviglioso era l’automata di Apollo. Lucian. de Dea Syr.
- ↑ Lactant. Div. inst. i. 6. cum not.
- ↑ Virgil. vii. 81 sqq.; Dionys. i. 31.; Arnob. v. 7. Vedi Tom. i. p. 216.
- ↑ Varro l. l. vi. 3.; Justin. xliii. x. 1.; Martian. Capell. ii. 9. 4.; Serv. vii. 47.
- ↑ Corn. Labeo et C. Bassus ap. Macrob. Sat. i. 12. et Lactant. i. 22.
- ↑ Ovid. Fast. 1. 633.; Gell. xvi. 16.
- ↑ Varro ap. Dionys. i. 14.; Plin. x. 18.
- ↑ Ut vere loquamur, superstitio fusa per gentes, oppressit omnium fert animos, atque hominum imbecillitatem occupavit. de Div. ii.
- ↑ Hirpias Familias.
- ↑ Plin. viii. 2.; Strabo v. p. 156.; Virgil. xi. 785 sqq. Varrone spiegava bene il miracolo: Ambulaturi per ignem, medicamento plantas tingunt. Serv. xi. 787. Le sacerdotesse di Diana Perasia nella Cappadocia operavano uguale portento. Strabo xii. p. 370.
- ↑ Lucil. et Pompon. ap. Non. iii. 69., vii 113.; Plin. xxviii. 2.; Ovid. Art. aman. ii. 182., de medicam. faciei. 39. Vedi Tom. i. p. 150. 151.
- ↑ Clem. Alex. Cohort. ad gent. T. ii. p. 11.
- ↑ In libris etruscis invenimur etiam equos bona auspicia dare. Serv. iii. 337.
- ↑ Porphir. de Abstinen. iii. 4.
- ↑ Sabella carmina: Marsa naenia etc. sono mentovate spesse volte: oggidì, per travolto dettato, si dice ancora dai nostri il mago Sabino.
- ↑ Vicanos Haruspices. Enn. fragm. p. 226.
- ↑ Quae genera vana superstitione rudeis animos ad impensas, ac deinceps ad flagitia compellunt. Cato r. r. 22.; Columell. i. 8., xii. 1.
- ↑ Cicer. de Div. ii. 23. 38,; Festus v. Tages.; Censorin. 4.; Ovid. Met. xv. 533 sqq.
Indigenae dixere Tagen: qui primus Etruscam
Edocuit gentem casos aperire futuros. - ↑ Cicer. et Censorin. l. c; Gio. Lido p. 10. nomina un Tarconte: il cui nome mitologico, e insieme eroico, si ritrova in tutte le antiquate tradizioni etrusche. Vedi Tom. i. p. 113.
- ↑ Serv. vi. 72.; Fulgent. Planc. 4. conf. Lutatius ad Stat. Theb. IV. 5 16.
- ↑ Στίχοις Ταγήτος. I. Lyd. de Ost. p. 190. ed. Hase.
- ↑ Veterem ab ipsis Diis immortalibus, ut hominum fama est, Etruriae datam disciplinam. Cicer. de Harusp. resp. 10. — Gravemente Tacito la chiama: vetustissima Italiae disciplina, xi. 1 5.
- ↑ Cicer. de Div. i. 33.; Censorin. ii. 14. 17.; Festus. v. Rituales.; Arnob. ii. p. 87.; Serv. iii. 537., viii. 398.; Ammian. Marc. xvii. 10.
- ↑ Lucret. vi. 380. giustissima osservazione dovuta all’acutezza di Niebuhr. T. i. not. 341.
- ↑ Tarquinjo, Capitone, Fontejo, L. Apulejo, Vicellio, Nigidio Figulo, Umbricio, Aquila ec. V. Ammian. Marcell. xxv. 2.; Macrob. Sat. ii. 16., iii. 17. init.; Lyd. de Ost. p. 8. 12.; Plinio L. 1. nell’elenco degli scrittori; e le glosse d’Isidoro, viii. 9. in fin.
- ↑ Fulgent. Planc. 4.; Lyd. de Ost. p. 12. Un frammento del commentario di Labeone sopra le folgori si ha nel libro stesso di Gio. Lido p. 164 sqq.
- ↑ Ap. Senec. Quaest. nat. ii.
- ↑ Eam (Haruspicinam) postea crevisse rebus novis cognoscendis, et ad eadem illa principia referendis. Cicer. de Div. ii. 23.
- ↑ Exta, fulgura, et ostenta. Cicer. de Div. ii. 18. 22.
- ↑ Vitruv. i. 4.
- ↑ Vedi sopra p. 85.
- ↑ Varro l. l. iv. 32.
- ↑ Sammon. in lib. v. rer. recondit. ap. Macrob. Sat. iii 9.; Plin. iii. 5. xxviii. 2.; Serv. ad Georg. i. 498. add. J. Lyd. de Mens. p. 230.
- ↑ Serv. viii. 398; ex Aruspicinae lib. et sacra Acherontia. Varro, ex libris Fatalibus etruscorum. ap. Censorin. 14. Questa dottrina etrusca è bene indicata da Virgilio per bocca di Giunone e di Vulcano, vii. 313., viii. 397. Quindi gli aruspici dell’Etruria, consultali per occasion della congiura di Catilina, risposero: essere la repubblica minacciata della rovina, se gli dei placati non avessero quasi piegato i Fati. Cicer. Catil. iii. 8.
- ↑ Caecina ap. Senec. Quaest nat. ii. 34.
- ↑ Vedi sopra p. 103. — Manubia, con voce tosca, dicevasi il fulmine e lo stesso saettare. Serv. i. 42, ex libris etruscorum. Festus v. Manubiae.
- ↑ Da ciò le immagini degli dei maggiori impugnano il fulmine colla sinistra, altri colla destra. Vedi Dempster. T. i. tav. iii, ed i nostri monum. tav. xxx. 3., xxxii. 4.
- ↑ Falando apud Hetruscos significat coelum. Festus v. Falae.
- ↑ Cicer. de Div. ii. 18.; Plin. ii. 54, ex libris Thuscorum: e per gli estratti di Gio. Lido propriamente dette: templi auguralis regiones. de Ost. p. 176.
- ↑ Dottrina divisata da Marziano Capella nella sua divisione del cielo. i. 15. p. 57 sqq.
- ↑ xvi. p. 524.
- ↑ Cicer. de Div. i. 41., de Leg. ii. 9.; Valer. Max. i. 1. 1.
- ↑ Amon-ra Cnouphis.
- ↑ Strabo xvii. p. 559.
- ↑ Si examen apud ludis scenam venisset, Haruspices acciendos ex Etruria putaremus. Cicer. de Harusp. resp. 12. A questo segno erano sommessi già gran tempo i signori del mondo!
- ↑ Senec. Quaest. nat. ii. 32.; Plin. ii. 53: Imperari naturae, audacis est credere: nec minus hebetis, beneficiis abrogare vires: quando in fulgurum quoque interpretatione eo profecit scientia, ut ventura alia finito die praecinat; et an peremptura sint fatum, aut apertura potius alia fata quae lateant, innumerabilibus in utrosque publicis privatisque experimentis. — Più buon credente ancora era Nigidio Figulo, l’amico di Cicerone. Fragm. ap. J. Lyd. de Ost. p. 100.
- ↑ Così disputarono contrariamente Marcello e Appio Pulcro, auguri ambedue. Cicer. de Leg. ii. 13. Ma lo stesso Cicerone, derisore dell’arte, fa pubblica protesta: quam (harusp.) ego reipublicae causa, communisque religionis colendam censeo. De Div. ii. 11.
- ↑ Ammian. Marc. xxiii. 5., xxv. 2. conf. Cod. Theodos. lib. xvi. tit. x. l. i. de Pagan. sacrif. cum comm. Gothofred.
- ↑ Lege sacrata quae maxima vis cogendae militiae erat. Liv. iv. 26.
- ↑ Ciò sopra tutto è manifesto per la scaltra orazione di Cicerone de Haruspicum responsis.
- ↑ Liv. vii. 17.; Flor. i. 12.; Frontin. Strat. ii. 4. 18.
- ↑ Liv. iv. 33.; Frontin. ii. 4. 19.
- ↑ Ara dabit fumos herbis contenta Sabinis. Ovid. Fast. i. 343.
- ↑ Cornificius ap. Fest. V. Oscillum.; Philaerg. ad Virgil. Georg. ii. 389.
- ↑ Dionys. iv. 49.
- ↑ Plutarch. Romul.; Tibull. ii. el. 5.
- ↑ Ovid. Fast. iv. 721 sqq.
- ↑ Vedi sopra p. 102.
- ↑ Vedi le tavole Dempsteriane; e Lanzi T. ii. part. iii.
- ↑ Labeo ap. August. de civ. Dei. ii. 11.
- ↑ Vedi tav. lii. 3., liv. lv, lviii. 2.
- ↑ Marini, Fratelli Arvali. p. 28.
- ↑ Feralia; Parentalia.
- ↑ Cantabat moestis tibia funeribus. Ovid. Fast. vi. 660.
- ↑ Vedi tav. lvi. 1., lvii. 2., xcvi. 1.
- ↑ Varro l. l. v. 3.; Censorin. 2.; Ovid. Fast. ii. 19 sqq.; Lyd. de Mens. p. 172.
- ↑ Anysius de Mens. ap. Lyd. p. 170., idem p. 134.
- ↑ Varro l. l. v. 3.; Festus v. Quinquatrus.
- ↑ Ap. Graev. Thes. ant. rom. T. viii.; Fasti Praenestini cum comm. Foggini.
- ↑ Cato ap. Liv. xxxiv. 4.; Plin. xii. 1., xxxiv. 7.; Juvenal. xi. 15.
Rebus Latiis aurem praestare solebat
Fictilis, et nullo violatur Jupiter auro. - ↑ vii. p. 232.
- ↑ Plin. xxxiv. 7.
- ↑ Ingenia tuscorum fingendis simulacris Urbem inundaverat. Tertull. Apolog. 25.
- ↑ Liv. v. 1.
- ↑ Vedi sopra p. 71.
- ↑ Claud. Caes. ap. Tacit. xi. 15.; Cicer. ad Familiar. vi. 6.
- ↑ Liv. x. 38.
- ↑ P. (auct. anonim.) in commentatione de Baccho dixerit regibus et sacerdotibus justis aequales esse honores atque appellationes ab ipsis Diis immortalibus impertitos. Lyd. de Mens. p. 276.
- ↑ Così Virgilio, pittor de’ costumi, descrive Asila, uno dei duci toscani, colla doppia qualità d’aruspice e di guerriero (x. 175 sqq.): ed ugualmente Umbrone sacerdote marso, e Rannete augure dei Rutuli. vii. 750., ix. 327.
- ↑ Summus Haruspex. Cicer. de Div. ii. 24. In lapidi romane si trova più volte chiamato primo aruspice, ed auche Aruspex primus de lx. Gruter. p. ccciv. 6. 7. 8.
- ↑ V. le glosse d’Isidoro; e Olivieri, Marm. Pisaur. p. 56 sqq.
- ↑ Ibi erant Pontifices, sicut etiam Romae. Serv. vii. 678.
- ↑ Haruspicum Pontificis Albani. Gruter. p. ccciv. 5.
- ↑ Serv. viii. 285.
- ↑ Vedi sopra p. 128, 129.
- ↑ Serv. l. c. Altri diceva introdotto quel sacerdozio medesimo da uno di Vejo.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 202.
- ↑ Marini, Frat. Arvali. p. 597 seqq.
- ↑ , Frater Atiieriur. Tav. iii. Dempster.
- ↑ Aequitas sanctissimae Fetiali jure. Cicer. de Offic. i. 11.
- ↑ Liv. Passim. Vedi Tom. i. p. 259.
- ↑ Herodot. i. 166.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 285.
- ↑ Liv. ix. 36. Per tale educazione grechesca Scipione veniva soprattutto incolpato d’aver guasta la virtù romana. Cato ap. Liv. xxix. 19.; Tacit. ii. 59.; Vellej. ii. 1.
- ↑ Lucil. ap. Lactant. Div. inst. iv., idem. i. 22.
- ↑ Mirari se, ajebat, quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidisset. Cicer. de Div. ii. 12., de nat. Deor. i. 26.
- ↑ Polyb. vi. 3.
- ↑ Ovid. Fast. vi. 545 sqq., Met. iv. 521.; Cicer. de nat. Deor. iii. 19.
- ↑ Melkarth. Hamaker, Misc. Phoen. p. 142.
- ↑ Macrob. Sat. i. 12.; Lactant. i. 22.
- ↑ Plutarch. Numa. et Quaest. rom. 23.
- ↑ Plutarch. Quaest. rom. 22.
- ↑ Varro l. l. iv. 10.; Festus v. Propter. Quindi in luogo dell’antico giuramento me Dius Fidius, dicevasi grecizzando me Hercle.
- ↑ J. Lyd. de Ost. p. 10.
- ↑ Quale si fosse la miserabil logica d’un Isogono, e d’altri teologastri, onde assomigliare e concordare il greco politeismo coll'italico, vedasi per quel che ne dice Dionisio circa Feronia la dea. ii. 49
- ↑ Jane, Jupiter, Mars pater, Qurine, Bellona, Lares, Dii novensiles, Dii indigetes etc. Liv. viii. 9.
- ↑ Dionys. x. 53.; Liv. ix. 30.
- ↑ Liv. xxv. 1.
- ↑ Vedi Tav. xlvii-l.
- ↑ Sil. viii. 4-8.
- ↑ Vedi sopra p. 108.
- ↑ Herodt. ii. 49
- ↑ Vedi tav. xviii-xx.
- ↑ Liv. xxxix. 8 sqq.
- ↑ Pacula Minia: dessa pervertì tutto l’ordine de’ misteri comunicandoli tra uomini e donne; indi portando a cinque per mese quelle adunanze notturne: dove che per l’innanzi v’erano tre giorni statuiti tre volte l'anno, in cui facevasi l’iniziazione di giorno, e dalle donne soltanto.
- ↑ Concessa ancora qualche amplificazione nel racconto di Livio, certissimo è, che i monumenti allegati, a chi li vide, mostrano evidente ogni laida sorte di libidine e di sconvenevolezza ne’ turpi baccanali.
- ↑ Varro ap. August. De civ. Dei. vii. 21.
- ↑ Multitudinem ingentem, alterum jam prope populum esse. Liv. l. c.
- ↑ Liv. l. c. Fra i capi dei baccanali in Roma, o massimi sacerdoti, Livio nomina un Aulo Falisco: certamente un etrusco da Faleria.
- ↑ V. Matteo Egizio nella sua illustrazione del S. C.
- ↑ Liv. xi. 19.
- ↑ Due capuani figli di Pacula Minia, o sia Minio ed Erennio Cerrinio, si ritrovarono fabbricatori e ministri di sì fatti sconci sacrifizi anche in Roma. Liv. l. c.
- ↑ Vedi tav. lix. 1. 2. Ricomparve in effetto il culto di Bacco apertamente, ed ebbe numerosi seguaci sotto gl’imperatori. Tertullian. Apolog. 7. cf. Fabret. inscript. pag. 429.
- ↑ Vedi le tavole di Banzia; e Tom. i. p. 284. 304.
- ↑ Vedi tav. cxx. 3. 4.
- ↑ In Cuma è manifesto: molti capi di superstizioni egizie vi furono trovati nel 1819 entro il sepolcro d’una femmina: tutti lavori di bassa antichità. Vedi Monumenti inediti, tav. 3. Napoli 1820. Altri segnali certi di riti egizj porgono alcune pitture di Stabia.
- ↑ An. 354: e di nuovo nel 696. Varro ap. Tertullian. ad Nat. i. 10., in Apolog. 6.; Valer. Max. i. 3. 3. Ciò non ostante la docilità de’ superstiziosi rinnovava per vim il culto vietato non pure privatamente, ma in pubblico altresì: onde fu d’uopo venire a nuove risoluzioni de’ consoli nel 701. 704. 706: tempi infelici, in cui le guerre civili davano a ciascuno animo di ardir tutto (Dion. xl. 47., xlii. 26). Perita la repubblica furono bensì ristabiliti dai triumviri i culti egizj, quantunque di fuori del pomerio (Dion. xlvii. 15., liii. 2., liv. 6.). All’opposto Tiberio, con sommi rigori, diede l’ultimo tracollo alla religione d’Iside in Roma, la cui immagine vi fece gettare nel Tevere (Tacit. ii.; Sveton. Tib. 36.; Jos. Flav. xviii. 3.). E non di meno indi insorse da capo più trionfale per la superstizione d’altri Cesari divoti al medesimo culto (Sveton. Othon. 11.; Lamprid. Comm. p. 49.; Spartian. Caracall. p. 89.). Che bisognava di più perchè a’ giorni di Domiziano i misteri isiaci fossero già quelli della dissolutezza? Juven. vi. 488.; et Schol. vet. ad h. l.
- ↑ Vedi i monumenti tav. xxxiv. 8. 11. ec.